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La direzione delle cose

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Roberto Cescon

Chiudendosi sulla soglia di quello che è diventato il presente della sua vita, e fotografando perciò un tempo ancora attuale ma, in un certo senso, già accaduto, Roberto Cescon ci offre un libro di poesia impietoso e pietosissimo al tempo stesso, che mostra la perdita della relazione di continuità antropologica nella quotidianità di un luogo e di un ambiente sociale preciso. Non è la perdita del passato e del futuro, infatti, a ossessionare il susseguirsi delle annotazioni in versi di Cescon, ma il loro essere già destinati per sempre in una dimensione di intangibilità, di esclusione da una vera possibilità di essere forza viva dell’agire (e del pensare) quotidiano. La direzione delle cose significa perciò la perdita di opacità del sé, la scomparsa del “segreto” che ognuno almeno una volta ha pensato di portare attraverso la propria esperienza come vera fonte di senso e di rivelazione. Infatti è la trasparenza del fare e dell’appartenere che frustra ogni residua possibilità di trovare in se stessi la via per una dimensione diversa: la stessa lingua diventa ferocemente chiara, ridotta alla forma più denotativa. Ciò non significa che manchino i versi limpidi, i giri di strofa conchiusi in una loro perfezione, il fluire di una dimensione linguistica ricreata attraverso il lavoro della forma. Piuttosto si tratta di una rinuncia / impossibilità di inscenare la lingua come luogo privilegiato dell’atto poetico: qui essa è al servizio (anche le sue storture, le ripetizioni, i lievi lapsus lo sono) di un’urgenza più grande, vale a dire quella di denunciare una condizione di disincantato amor fati, vuoto ormai di contenuti, ma ostinato nel volersi consegnare a un destino.

(dalla prefazione di Gian Mario Villalta)

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Pertiche

Alberto Cellotto

Pare non cercare evocazioni né suggerire avventurose ipotesi Alberto Cellotto, intitolando «Pertiche» la sua nuova e densa raccolta di poesie. Eppure, al di là del più immediato rinvio, quella pertica su cui si fa esercizio in palestra, salendo per arrivare da nessuna parte, ovvero a niente altro che dover poi lasciarsi scivolare giù, leggendo questi versi viene da pensare ad altro, ricordandoci che nei luoghi dove vive Cellotto la pertica è un’unità di misura geometrica che riguarda gli appezzamenti di terra. Misura orizzontale, quindi, rasoterra, a cui si contrappone la verticalità di una pertica che invece sta infissa nella terra di quel tanto che occorre a sorreggersi e a reggere, a marcare un confine o stabilire un punto notevole dal quale traguardare altre distanze. Il sempre rinnovato punto di partenza di queste poesie credo sia proprio qui, e da qui detti il suo passo versuale e verbale: riconoscere, definire uno spazio, con questo singolare sistema di misurazione orizzontale/verticale, entro il quale catturare un tempo che moltiplica e confonde i suoi contorni. […]

(Gian Mario Villalta, dalla Prefazione)

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Davvero a volte non riesco a capire. Cos’è la prosa poetica? Cos’ha di diverso dalla prosa non poetica? Forse è una forma di cortocircuito: ricordo Erri De Luca che scriveva, a proposito della sua poesia: “Non li ho raggiunti, i versi. Qui ci sono linee che vanno troppo spesso a capo.” Eppure io, la sua, l’avrei chiamata poesia.
Come chiamerei poesia anche altre scritture, quelle dove probabilmente “ci sono versi che vanno troppo poco a capo”. Leggo discussioni interessantissime – e lo dico senza nessuna ironia, anzi – sulla forma, alle quali io di solito non partecipo, ma assisto per imparare. Poi però capita qualcosa che sfugge, che spiega l’inutilità di quanto si è appreso, l’eccezione che conferma la regola perché la poesia è, per fortuna, eccezione anche a se stessa. E dimostra come la bellezza sia lì dove un dettato trova la propria forma e vi aderisce fino a determinarla, mettendo in crisi il nostro bisogno di classificare, fare ordine, capire.
La classificazione è un bisogno di sicurezza, come se si potesse sempre smontare il giocattolo che ci ha sorpresi per studiare come funziona. A volte non ci riesce proprio: per questo ho sempre amato il termine “scrittura”, che non ha la protezione di un inquadramento, che non va a capo quando finiscono le sillabe o le righe, va a capo quando non ci sono più cose da dire.
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