La geografia è destino

(da: “La Foce e la Sorgente“, II, 7)

Acque mobili e terre immemori.

Nell’aria che disperde lacerazioni.

Nel silenzio che increspa barbagli.

Inverna tutto quello che è stato allontanato. La cartapesta delle ossa nel gelo, i più leggeri dialoghi, quelli scoscesi, le ultime gocce del flacone, la miscellanea grazia dei perimetri, quei sostare a lungo nei passi.

Un crescendo in affresco. Echi su fili sospesi.

Nella terra perduta ogni zolla, ogni stilla vive pulsando come una ferita.

“La geografia è destino”.

Un solo pensiero muove i segni.
Al solo pensiero i paesaggi diventano storia, introducono una conoscenza del finito.

(Ranieri Teti, Tsalal)

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Atlan e la pittografia dei miti

Giuseppe Zuccarino

Fra gli artisti contemporanei su cui Derrida ha avuto occasione di scrivere, Jean-Michel Atlan è forse il più anziano, essendo nato nel 1913. Tuttavia un primo elemento che li accomuna è costituito dal fatto di essere entrambi ebrei di origine algerina. Inoltre il fatto che Atlan, come si desume dai titoli di molte sue opere, tenga presente una lunghissima tradizione culturale, che per un verso parte da Omero e per l’altro dalla Bibbia ebraica, non poteva che esercitare – assieme ovviamente alle qualità formali dei dipinti – una forte fascinazione sul filosofo. Non sorprende dunque che egli abbia accettato di scrivere l’ampio testo introduttivo per un libro sul pittore, Atlan grand format. Il saggio, dal titolo De la couleur à la lettre, verrà poi ripreso in una raccolta postuma di suoi scritti sulle arti visive.

Ricordiamo in breve che Atlan si trasferisce dall’Algeria a Parigi nel 1930. Al termine degli studi universitari, diventa professore di filosofia e inizia a dedicarsi alla pittura. Nel 1942 viene arrestato perché milita nella Resistenza. Dopo un periodo in carcere, riesce a evitare la condanna a morte, o la deportazione in quanto ebreo, solo fingendosi pazzo. Questo, però, fa sì che venga recluso nell’ospedale psichiatrico di Sainte-Anne. Alla Liberazione, può finalmente tornare all’attività pittorica e realizzare le prime mostre. Pubblica anche un libro di poesie, Le sang profond. Più tardi, è tra i fondatori del movimento CoBrA, un gruppo di artisti sperimentali che come lui si muovono in uno spazio intermedio tra astrazione e figurazione. Nell’ultima parte della vita (Atlan muore nel 1960) la sua pittura acquista risonanza sul piano internazionale. (…)

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Nel grido del sole

(da: Il liutaio)

Gira la testa a destra,
la montagna sale nel grido del sole.
Gira la testa a sinistra,
la montagna scivola nella tasca della notte.

Gira il busto a destra,
le alte erbe gialle dei ricordi
si drizzano in direzione del mare
distante settecento giorni di cammino.
Gira il busto a sinistra,
in prolungati singhiozzi
eventi e racconti gli escono dalla gola,
perdono colori, si aggrappano
alle piume caudali del vento.

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Comune presenza

(da: La luce della candela)

Sei impaziente di scrivere come se fossi in ritardo sulla vita. Se è così accompagnati alle tue sorgenti, affrettati. Affrettati a trasmettere la tua parte di meraviglioso, di ribellione, di bene. In effetti sei in ritardo sulla vita, la vita inesprimibile, la sola alla quale desideri veramente unirti, quella che ti è negata ogni giorno dagli esseri viventi e dalle cose, alla quale strappi a fatica qualche magro frammento qua e là al termine di spietate battaglie. Fuori di essa tutto è sottomessa agonia, miserabile fine. Dovessi incontrare la morte nel corso dei tuoi travagli, accoglila come fa la nuca sudata col fazzoletto asciutto e chinandoti, se vuoi ridere, offri la tua sottomissione, mai le tue armi. Sei stato creato per vivere momenti poco comuni. Modificati, sparisci senza rimpianto, in balia del soave rigore. La liquidazione del mondo prosegue quartiere dopo quartiere senza pause, senza distrazioni. Disperdi la polvere, nessuno scoprirà la vostra unione.

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Terra di nessuno

(da: “La Foce e la Sorgente”, II, I)

Nella mezza ignoranza di una lingua,
poiché il dominio è impossibile,
le parole dimostrano essere fatte
dell’essenza del mondo e la poesia.

Penso a dirt, per esempio:
“fango, limo, terra,
polvere, suolo, immondizia,
sporcizia, oscenità,
bassezza, viltà”.

Sporcizia della terra, tomba e matrice.
Sacri rifiuti
che mescolarono piante e ossa.
Decomposizione che muta la morte in vita.

Strano chiamare “terra” il pianeta errante
che transitiamo avvolti nelle tenebre
e la materia dalla quale tutto esce
e tutto ritorna.

La terra deserta, la terra promessa,
la terra di nessuno.

(José Emilio Pacheco, A largo plazo, trad. di Monica Liberatore)

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La parola che sempre cammina

(da: “La foce e la Sorgente“, II, 4)

[…] La parola che sempre cammina si riversa sulle strade nelle mani di artisti sovversivi ai diktat dell’arte ufficiale. I balbuzienti della notte del logos sono paria di una Street Art diventata sistema. Attratti istintivamente dai muri delle loro prigioni o dei loro esili adoperano il graffito attingendo al senso primigenio di questa pratica. Il graffiare, azione comune ad uomini e belve, è anche misurazione simultanea del rapporto con lo spazio che li circonda, con la forza e la capacità di operarvi. L’atto di graffiare suggerisce una presa di posizione, un atteggiamento attivo – non meditativo – nei confronti del muro come specchio e della sua capacità evocativa e ricettiva. ‘Ascoltare’ l’estensione di una macchia d’umidità, la profondità di una fessura nel corpo roccioso, avvicinandosi al muro in una relazione simpatetica, conduce chi graffia ad una risposta energica verso ciò che ha appena visto e scoperto. Siano muri guardati da lontano o da molto vicino, ipnotizzati dalla loro asettica assenza di colore o sedotti dai volti emersi nelle loro cesure, l’immediato gesto che ne consegue mira a scacciare o richiamare l’invisibile che questi trattengono. Tutto il corpo allora è scosso dall’urgenza di compiere un atto dai contorni magici ed apotropaici: incontro-scontro che impone l’uso della forza nell’esorcizzare i propri fantasmi. La superficie diventa allora il campo di battaglia di un corpo a corpo tra presenze vive e animate; tra chi inspira ed impone e chi espirando concede. (…)

(Gustavo Giacosa, La parola che sempre cammina, 2010)

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Icaro

(da: “La Foce e la Sorgente” – Quaderni, IV)

Lamenti di un Icaro

Gli amanti delle puttane
sono felici disponibili e sazi;
quanto a me, ho le braccia rotte
per aver stretto a me troppe nuvole.

E ringrazio gli astri disuguali
che fiammeggiano in fondo al cielo
se i miei occhi consunti vedono
solamente le memorie dei soli.

Invano ho voluto dello spazio
trovare il centro e la fine:
non so sotto che occhio di fuoco
sento spezzarsi la mia ala.

E bruciando d’amore per il bello
non avrò il sublime onore
di dare il mio nome all’abisso
che mi farà da tomba.

(Charles Baudelaire, Les plaintes d’un Icare, traduzione di Lucetta Frisa)

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Uno di noi

(da: “La Foce e la Sorgente“, II, 6)

(Suicidio)

C’erano in me venti generazioni
a dir poco
e questa mattina non so perché,
forse perché la finestra era aperta,
uno si è buttato dal primo piano.
Allora tutti
hanno incominciato a buttarsi,
come da un trampolino,
uno dopo l’altro, a catena,
secondo il principio della disintegrazione
delle pecore. In una mezz’ora
sono rimasto completamente nudo,
e per la vergogna mi sono buttato anch’io.
Sono morto, credo, verso il quarto piano.
Ad ogni modo, verso il secondo
ero già spacciato.
Tutte queste cose
ve le racconta ora un passante,
cioè uno di noi
che ha picchiato sul molle.

(Marin Sorescu, Poesie, trad. di Giulia Niccolai)

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Bienu

(da: “La Foce e la Sorgente” – Quaderni, III)

«Ascolta bene quello che cantano in questo momento, aggiunge Alabouri. Parlano di un uomo che arriva adesso al villaggio, che ritorna regolarmente al villaggio, che ama il villaggio e ne è riamato. Ascolta bene questa parola che lei canta: Bienu. È il nome di quest’uomo. È il nome di un vecchio saggio Dogon, vissuto in tempi antichissimi. Loro e noi abbiamo deciso di farti dono di questo nome». Così si legge ne Le trait qui nomme di Yves Bergeret. Il nome, in realtà, è sempre una parola donata. Che dunque appartiene al destinatario del dono e da quel momento in poi l’accompagna, è una parte di lui, ma è nel contempo il suono che racconta un legame. È un filo, il nostro nome, in cui fa nodo la memoria di quel gesto iniziale, rendendo – ogni volta che viene pronunciato – presente il donatore, conservandone ‒ nella sua forma, nel suo movimento ‒ l’eco, l’ombra: è il segno di quella vita, anche quando quella vita chissà dove è nascosta, anche quando quella vita è finita.

(Luigi Sasso, Il quaderno dei nomi)

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Lascaux

(da: Scritti su Georges Bataille)

Mi sono sempre interessato alla storia dell’arte. Forse persino è, o è stato, il primo oggetto del mio interesse. In particolare la preistoria. Questa mi aveva molto colpito per via dell’insieme di domande che pone e che, d’altronde, riguardano da vicino la filosofia. Ho voluto occuparmene di nuovo a partire dal momento in cui è stata scoperta la straordinaria grotta di Lascaux, che rinnovava tutta la questione, […] e che comunque, da certi punti di vista, conferiva all’insieme della pittura preistorica un aspetto quanto mai commovente, che fino a quel momento non aveva potuto avere a causa dello stato relativamente meno buono delle pitture che erano state scoperte prima del 1940. A quella data dei bambini, passeggiando nei boschi, hanno finito con l’infilarsi in un buco che era stato lasciato da un albero sradicato; un giorno si sono introdotti lì e hanno fatto una piccola spedizione per esplorare la cavità. Si erano persino muniti di una lampada e, dopo qualche tempo, con loro grande stupore, hanno visto apparire ogni sorta di figure straordinarie. Ad essi sono bastati pochi minuti, alla luce di una lampada piuttosto misera, per accorgersi che avevano davvero trovato qualcosa di così eccezionale che rimaneva solo una cosa da fare: danzare, come ha detto uno di loro, una vera danza guerriera, alla maniera degli Indiani quando sono sul sentiero di guerra. (…)

(Georges Bataille, traduzione di Giuseppe Zuccarino)

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non potendo cantare il mondo che lo escluse / Reb Stein cominciò a leggerlo nel canto