La donna che parlava coi morti – Remo BASSINI

erich heckel
(Eric Heckel, Ragazza sofferente, 1914)

Da La donna che parlava coi morti, Roma, Newton Compton Editori, 2007.

Capitolo 1

Si parlava poco di lei. Quando se ne parlava i vecchi dicevano, ma solo in certe occasioni, banchetti funebri, domeniche nebbiose trascorse tra amici e parenti a mangiar castagne, dicevano, questi vecchi, che era «come una santa». Santa Nunzia del bosco. O dei castagni.
Aveva poco più di vent’anni quando lasciò il Palazzone per andare a vivere come in clausura nel cascinale in fondo alla valle, costruito in una sola estate dai muratori venuti da lontano con muli e cavalli da tiro, in fretta, e un capomastro che urlava, e gente armata su cavalli e mule, a controllare.

E di lei per anni e anni si disse, ma si seppe poco. Si seppe, ma si disse poco del suo peccato: aveva tradito il marito, tre volte più vecchio di lei, per un giovane, bel fattore che poi fu trovato morto, dissero per disgrazia, in un torrente.
La pena per Nunzia la decisero, con la benedizione del marito disonorato, i suoi due cognati; clausura a vita, controllata a vista da due contadine, carceriere spietate in cambio di un piatto di minestra, vino buono, un letto per dormire e per altri piaceri, chissà.
Il vecchio marito si accollò le spese del podere e, si disse, non volle vederla più. Lui e i suoi due fratelli, più giovani, facevano paura. Erano i più ricchi, i più fascisti, i più temuti della zona. Quando Nunzia restò vedova, nessuno osò commentarne l’assenza al solenne corteo funebre che partì dal Palazzone.
Tutti sapevano che viveva in fondo al bosco. E qualche ragazzaccio, temerario, in tempo di guerra, scendendo la mulattiera che porta al casolare dei castagni, da lontano, per rispetto e per paura, l’aveva spiata. Di notte, al lume di luna. Restando incantato da tanta bellezza.
Quando i tedeschi si ritirarono, e i due cognati se la diedero a gambe ché i partigiani li volevano impiccare, Nunzia riapparve. Era tempo di rastrellamenti, scontri, morti vicino al suo casolare. Tanti morti. E vermi sui morti.
L’eterno riposo dona loro o Signore, pregava Nunzia mentre, insieme ad alcuni uomini, posava dei rami di castagno a forma di croce su quei corpi da bruciare col petrolio. Divenne Nunzia dei castagni.
Appena si sparse la voce che era stata ammazzata, tutti diedero la colpa ai cognati. Si sapeva, certo che si sapeva: di notte, ubriachi, per anni erano andati al podere per umiliarla, insieme ad altri camerati. Bevevano, ridevano e viva il Duce. Poi facevano a testa e croce.
Era una moneta a decidere.
Una moneta, poi dimenticata nell’aia d’estate, o nel fienile d’inverno.
Chi perdeva, doveva accontentarsi di schiaffarlo in culo alle contadine carceriere, chi vinceva, vinceva lei. Nunzia.
Ma non erano stati loro ad ammazzarla.
Erano stati i tedeschi. Erano andati da Nunzia senza sapere che nascondesse partigiani, poi testimoni del fatto. Erano andati da lei perché volevano un maiale. Li aveva lasciati fare, Nunzia, ma quando aveva visto che stavano scegliendo una scrofa che doveva figliare, gridò che potevano prendere gli altri, ma non quella. E la mitragliarono.
Dopo la guerra, uno dei cognati tornò nel podere con la figlia; le disse: «Questo è un posto maledetto». E le raccontò di Nunzia «da non dire a nessuno». La ragazza, che di lì a poco prese i voti, se ne andò in convento col ricordo di quel nome.

Sono tristi le risaie d’inverno, ma resterò sempre qua, tra queste nebbie che avvolgono i miei ricordi. Sono in treno, ora. Ho le cuffie, così nessuno prova ad attaccar bottone e non sento il casino degli studenti. Sto ascoltando La ballata di Sacco e Vanzetti cantata da Joan Baez.
resterai sempre un po’ anarchica, vero Anna?
Comunque. Finalmente faccio quello che volevo fare anche se, quello che faccio, non è bello come ti fanno credere certi libri o film.
C’è sempre troppa nebbia attorno alla nostra vita. Troppo dolore.
Ho appena risolto un caso e oggi è una giornataccia.
Uno schifo di caso: una giovane madre che, dopo aver scoperto ed essersi data al sesso estremo con il vicino di casa pervertito, ha deciso di gettarsi giù dal sesto piano, vorrei non pensarci ma devo vedere suo padre, il cliente insomma, ho appuntamento alle undici, merda. Devo dirgli la verità – per questo è una giornataccia – altrimenti quello continua a sospettare che sia il genero la causa della morte della figlia, e anche se il genero è un senzapalle che non sa da che parte è girato e che vive per andare allo stadio la domenica, è giusto che la bambina resti a lui.
Mi sto specializzando nelle morti misteriose e nella ricerca di persone scomparse.

La sveglia da anteguerra, ora, mi butta giù dal letto alle sette di mattina. Da due anni. Vado in stazione, prendo un caffè e poi, aspettando il treno che, in un quarto d’ora, venti minuti, mi porterà a lavorare fumo la seconda sigaretta della giornata.
Risaie e ricordi, risaie e ricordi, risaie e ricordi, arrivo, frenata, si scende, caffè al bar della stazione, poi terza sigaretta e via a piedi e in fretta in ufficio.
Ho preferito diventare una pendolare che trasferirmi. Sono troppo attaccata alla mia città. Alla casa che mi ha lasciato mio padre.
La titolare dell’agenzia, mi trovo bene con lei, ha cinquantadue anni ben portati, è specializzata, lei, in corna e spionaggi industriali, mi ha proposto di diventare sua socia; accetterò.
Mi lascia poco tempo libero questo lavoro. E un po’ mi ha cambiata. Sono meno sboccata, ad alcuni clienti dava fastidio; e quando sono distratta non devo gettare per terra i pacchetti di sigarette vuoti e poi cerco di vestirmi in modo decente. Mi arrangio al mercato, comunque, sono mica una figalessa da boutique, io.
A volte, quando mi sento sporca (e vado in crisi) perché lavoro per clienti senza scrupoli, o mi intrometto nella vita degli altri, nei loro tradimenti (in caso di necessità pure io mi occupo di corna) e nelle loro debolezze, rimpiango il lavoro in libreria.
Oggi lo preferirei: perché quando dirò a quel vecchio chi era sua figlia, lo so, mi odierà, mi maledirà; poi mi pagherà; poi, quando me ne sarò andata, bestemmierà, immaginerà la sua bambina che si fa legare a un letto, nuda, che si fa frustare; e poi piangerà, si ricorderà di lei quand’era piccola mentre io passerò il resto della giornata a pensare che sarebbe stato meglio essere in libreria piuttosto che ferire, in modo così atroce, un uomo.
Spero mi creda, spero proprio non mi costringa a mostrargli le foto che mi son fatta dare dal vicino di casa pervertito (l’ho costretto, altrimenti lo denunciavo).
No, no, non devo rimpiangere il mio passato. Vado, racconto, incasso. Ma ricorderò sempre chi ero.
…. due anni fa, giorni che non potrai dimenticare mai, vero Anna?

Alla riapertura della libreria mancava un giorno. A settembre mancavano invece dieci minuti. Esatti. Guardando l’ora, Anna ipotizzò un brindisi di mezzanotte, come si usa a capodanno. Ci ripensò: era un’idea cogliona.
di una stupida, inutile commessa di libreria, pensasti. Ti sentivi così. Si è sempre quel che ci si sente. Ma dentro dentro, nelle viscere.
Si alzò dallo sdraio, sistemato al confine tra balcone e camera da letto, spense la radio che trasmetteva un concerto jazz, ma non era serata, quella, per chiudere gli occhi e rilassarsi, ripose in una mensola un vecchio giallo di Georges Simenon, da due ore imprigionato tra la sua mano ed il ventre. E con una birra per salutare l’arrivo del nuovo mese, «sono una stupida commessa, ma di fantasia», disse stappandola (da un po’ di tempo parlava da sola), trascinando lo sdraio uscì sul balcone. A lasciarsi avvolgere dalla noia e dal fumo. Una sigaretta dopo l’altra, scacciando zanzare e bevendo birra, con gli occhi distratti sulla strada: sui fari delle macchine; su due gatti che si rincorrevano; su uomini e donne che rincasavano.
Settembre, senza brindisi e senza farsene accorgere, era arrivato; e, con lui, la notte che si confonde al mattino: con altri uomini e donne assonnati che, dopo il primo caffè, uscendo di casa, per poco non s’incrociavano coi tiratardi.
L’ultima cicca di sigaretta finì sulla strada. Era brava, Anna, a far leva tra pollice e indice e lanciare il mozzicone, che diveniva un piccolo razzo luminoso.
Non restava che coricarsi, aspettare l’arrivo del sonno, svogliatamente, con l’abat jour e il vecchio computer accesi, tanto chissenefrega.
Un’altra notte senza guardare se in cielo ci fossero luna e stelle. Un’altra notte a maledirsi e maledire Fabrizio, la sua fuga.
Non poteva sapere, lei, che la maledizione veniva da lontano, da molto lontano.

Si stropicciò gli occhi sudaticcia e stanca, Anna. Colpa dell’afa e del caldo. E delle quattro ore di sonno e dormiveglia, ritmati dal ticchettio della vecchia sveglia, di quelle di una volta, quasi scomparse, rumorose. Da puntare la sera e da azzittire al risveglio con una manata, affettuosa però: perché quella era la sveglia di suo padre, la sveglia di Leone. La guardò male. Erano le nove. Da quando lavorava in libreria con Viviana, era sempre puntata alle nove. E non l’ho sognato, meglio, pensò.
«Fabrizio, ti perdono solo se mi dicono che sei morto», disse guardando una mosca che si aggirava sul soffitto.
Era la prima frase del giorno. Scalciando le lenzuola cercò anche di allontanare il pensiero di Fabrizio. Ma non poteva. Sapeva che avrebbe dovuto, punto primo, controllare se c’erano – ma non c’erano – suoi messaggi sul cellulare e in posta elettronica, e, punto secondo, dare un bacio – come una stupida, inutile commessa – alla penna stilografica verde di Fabrizio, conservata nel primo cassetto del comodino, quello dei ricordi. Il primo borsellino. Le foto più care. Lei, quindicenne, insieme a suo padre con il pugno chiuso, a una manifestazione a Roma.
Seguita dalla gatta Martina, «non rompere le palle, aspetta», andò in bagno a far pipì, ma in fretta, ché aveva voglia di tornare, ancora un po’, sotto le lenzuola. Perché era stanca e perché dalla finestra stava entrando un leggero, piacevole venticello.
Il vento è libertà, il vento è anarchia, le diceva Leone quando era piccola e in casa non c’era la mamma che di sicuro – «cosa le metti in testa, Leone?» – lo avrebbe sgridato.
Ma il vento, ora, si era trasformato nel pensiero di Fabrizio. «Dove sei finito? Non ti manco, dimmi lurido bastardo, non ti manco?», brontolò, sfilandosi il pigiama nervosamente.
Come sempre al risveglio aveva voglia di caffè e della prima sigaretta ma, quella mattina, il suo corpo aveva voglia di lui.
Magari l’ho sognato e non me ne ricordo, ipotizzò.
Nuda, si avvolse tutta, escludendo la faccia, con il lenzuolo.
rammenti? Facevi così da bambina, d’estate, per sentirti fresca.
Lasciò che le sue mani, di donna, uscissero e, all’altezza del seno e poi dei fianchi, li accarezzassero, come fossero mani non sue, e poi rientrassero sotto le coperte, da lei, per proseguire in quella carezza lunga, sempre più giù. E dentro. Per un piccolo urlo di piacere che, per qualche attimo, sembrò rimbombare nella stanza e pietrificare il suo viso in una smorfia di dolore.

[…]

Remo Bassini è nato a Cortona nel settembre 1956. Giornalista e scrittore, ha pubblicato i romanzi Il quaderno delle voci rubate, Dicono di Clelia, Lo scommettitore e alcuni racconti in rete. Dialoga con i lettori attraverso un seguitissimo blog, all’indirizzo www.remobassini.it

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5 pensieri riguardo “La donna che parlava coi morti – Remo BASSINI”

  1. Mi permetto di suggerire, a chi non lo conoscesse, la lettura di questo libro. Scoprirà uno scrittore eccellente e un’opera indimenticabile.

    Fosse stata una traduzione da un autore straniero, magari pubblicata da una grande casa editrice, qualcuno avrebbe gridato al “miracolo”. Ma siamo in Italia, e sulla stampa che conta, salvo poche eccezioni, si recensisce e si osanna solo spazzatura amicale.

    fm

  2. Bello.Bella la scrittura,bella l’atmosfera. Ed è solo il primo capitolo.
    Immagino il seguito,o meglio,cercherò di leggerlo.
    cari saluti
    jolanda

  3. Mi permetto di segnalare che domani dalle 7 de mattino su Nazione Indiana c’è una mia intervista a Remo, uscita domenica scorsa su Queer di Liberazione.

    Un saluto affettuoso a Francesco e a Jolanda.

    Franz

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