Sul blog di Georgia, è possibile leggere una interessante rassegna dedicata ad alcune voci della cultura palestinese: un modo intelligente di rompere il “muro” del silenzio intorno a una letteratura che annovera dei veri maestri della narrativa e della poesia contemporanee. Attraverso una rete di links e di rimandi testuali, è possibile ricostruire una piccola mappa di un universo tanto affascinante quanto a noi praticamente sconosciuto.
Ecco alcuni degli ultimi autori proposti:
Muhammad Hamza Gana’Yim
Bashir Shalash
Ibrahim Nasrallah
Mahmud Darwish
Suad Amiry
Sahar Khalifah (1) (2)
Altre notizie e indicazioni bibliografiche sono reperibili qui.
Di seguito, le poesie Dal profondo, di Kamal Nasir, e Il canto del prigioniero, di Fadwa Tuqan, tratte da: La terra più amata. Voci della letteratura palestinese, a cura di Pino Blasone e Tommaso Di Francesco, introduzione di Luce D’Eramo, Roma, Edizioni Il Manifesto Libri, 1988, pag. 54-56 e 86-87.
Dal profondo
(A Fadwa Tuqan)
Se amabile l’eco del canto
ti giunge nel serrarsi degli spazi
è perché ho aperto l’ala
ad abbracciare nelle tue la pena
e a te m’unisce la cattiva sorte
e quanto insieme ci vide
nel male, e in te m’accolgono i ricordi
i sogni buoni i bianchi desideri.
Io sono quello che hai voluto
e per me vollero gli eventi:
cresciuto nel rifiuto di prostrarmi
ho eterno sgabello di nubi
dalle cui vette abbraccio ebbro le stelle
e cammino tra cupole e cime
m’affaccio al cosmo e vivo
la lotta che fa giovane l’età.
Chi da stelle di perla fu allattato
come cometa vola su nei cieli:
sparso ho il sangue, e ferite ho, ben deste,
ad arrossare il petto a quelle nubi.
Amai la casa, ora al cuore è delizia
questo sogno di mischie.
Ripensarci? L’Altissimo non voglia
che il poeta discenda dalle vette.
M’è giunto il tuo scritto, sorella,
a un’anima ho dato la mano,
han sorriso le deste ferite,
dal passato le ombre a segnare
una risposta: sì, io le ricordo,
quelle liete serate di fratelli
e d’amici, era ombrello il gelsomino,
delizia e malinconia,
due ali che guidavano il discorso
sino a farlo impazzire per un sogno
dormiente nel miraggio; ridevamo
di noi, agli occhi le lagrime del gioco.
Sì, ricordo, ricordo,
in noi cresceva orgoglio
d’un verso tuo più bello
dell’impossibile, concorrente
ai monti, lieve su tutte le bocche,
a chi cammina presagio,
al paese che sta mentre l’alba
lo vezzeggia splendente.
E il paese si sveglia,
pulsa fra lunghe aste e fra le lance.
Sono come hai voluto che fossi,
mi bacia il sole pur se c’è la nebbia,
per ogni dove mi porta la luce,
consumo i canti e le strade
da solo, m’accompagna la mia meta,
mi crocifigge la brama di lotta,
ho sete ma il bicchiere l’ho sul palmo
e vi danzano amore e bevanda;
son nudo, ma ricopre a me la vita
giovinezza che danza e che riempie.
Voglio vita per gente ferita,
che vi crescano i sogni e le pene:
un’esistenza, a costruirla, libera
nei suoi forti orizzonti,
che nessuno, se non Dio,
v’abbia giurisdizione.
E tu, se il mio scritto ti giunge
e se mi dai la mano tra le pieghe
e se lagrime trovi fra le righe
sparse tra versi rabbiosi,
il tuo Dio non ti spaventi,
che piangono i sogni più alti.
Se mi sgridi, ai grandi cuori
di rimprovero c’è una nostalgia,
e domani la notte si dilegua
dall’offeso giardino, dal velo
che è tirato da altri, le paure
domani il popolo spezza con l’unghia
e col dente canino:
hanno giurato che non dormiranno
finché per via c’è una tana di lupi:
son milioni con voglia di vendetta
e contano, al Giudizio, quanto manca.
Se giunge amabile l’eco
del canto mio presso a te nell’angustia,
è certo un tornare alla vita
in volo, e, se il popolo un giorno
giurasse per l’anima mia,
per lui su dalla terra spunterebbe.
(Traduzione di Wasim Dahmash e Gianroberto Scarcia)
***
Il canto del prigioniero
(A Kamal Nasir)
Fino a noi giunge l’eco del tuo canto,
volando oltre l’angustia con l’amore,
oltre le sbarre, uccello prigioniero,
delle tenebre fonde e della pena.
Canta, sì, ché se il ferro il vasto cielo
a te sottrae, non serra a noi l’orecchio.
Canta, sì, ché la morsa della notte
non chiude mai la via della speranza.
Il canto tuo mi riporta
a tempi piegati dal tempo,
quando, con passo lieve,
libera l’ala, al chiostro,
ombra di gelsomino,
nel grembo conducevi,
e dicevi dei sogni,
e l’orgoglio lodavi
e la forza, e più vicine
facevi le stelle alla terra,
e ascoltavamo i campi
verdi di te, lo splendore
dei clivi, ed il sussurro dei profumi,
il gonfiore del vento
e dei monti, fierezza
che se non vinci non s’erge.
Canta, uccello, per noi, dalla prigione,
oltre l’umiliazione e oltre il buio,
un orizzonte ancora ricco di sogni,
un sole ancora pronto all’agguato.
Bianca gloria di luce canta lieto,
canta un domani patria ai nostri sogni,
vividi sogni canta non perduti.
Canta, sì, ché la speranza
è sempre là, strada ferma e radiosa,
anche se attorno a noi
s’infittisce la rabbia della notte.
(Traduzione di Wasim Dahmash e Pino Blasone)
Sì Geoegia è preziosa e ottima come commentatrice, è una dei pochi bloggers capaci di trovare i toni giusti nel dibattere, anche quando ci si scontra.
Ma com’è che non avevo mai notato che avevi un blog, Francesco?
Ora ti linko.
Lorenz
Ciao Lorenzo, benvenuto da queste parti.
Sì, il lavoro di Georgia è veramente prezioso.
A presto.
fm
Mi fa piacere intervenire per ringraziare per questo post e ricambiare con un’altra segnalazione di poesia palestinese in italiano (testo arabo a fronte)-
è un lavoro molto accurato, edito da Giunti nel 2007: ‘Un mondo senza cielo. Antologia della poesia palestinese’.
Fawa Tuqan e Mahamud Darwish sono presenti anche là.
Un caro saluto a Francesco e a tutti i naviganti
Antonio
Grazie Antonio, proprio un gran bel libro, veramente necessario, quello che citi.
Un caro saluto a te.
fm