The Snow Man di Wallace STEVENS – di Gianluca D’ANDREA

The Snow Man di Wallace Stevens

     Così Wallace Stevens in una lettera del 1944: “posso spiegare ‘The Snow Man’ come un esempio della necessità di identificarsi con la realtà in modo da capirla e goderla”. Il poeta parla dunque esplicitamente di una identificazione tra persona e realtà, opportunità presunta ma sentita come effettiva nel suo animo; siamo in presenza di un artefatto cerebrale, lucidamente estetico.
Nel 1975 George Steiner, riflettendo sull’opera di traduzione, parlò di necessità di rivivere l’atto creativo che aveva informato la scrittura dell’ “originale”.

     Alla luce di tali considerazioni sarà chiarita la scelta di “The Snow Man”: da un lato, la realtà va confondendosi con lo stato d’animo del poeta; senza riconoscere eventuali gerarchie procreative, tutta la realtà – compresi poeta e testo – risulta immersa nel vuoto nihilista, è questo infatti il pensiero che argomenta e dunque impregna la composizione: la realtà tutta cioè è questo stesso vuoto. D’altro canto, nel tentativo di traduzione, non scorgo alcun senso che possa andare slegato dalle affinità, riguardanti l’atto creativo, tra autore e traduttore-autore.

     Semplici tangenze sul versante del gusto mi hanno condotto ad evidenziare il chiasmo presente al verso 6 con l’inversione del nesso sostantivo-aggettivo, nel tentativo di estremizzare l’atmosfera di
raffinato rigore compositivo ricercato da Stevens. Per lo stesso motivo, la quarta strofa, nella versione, si dipana in un intreccio di giochi di suono (allitterazioni, assonanze) che intendono esasperare la trama sonora – alta già di per sé e incisa nelle sfumature del dettato – voluta dal testo originale.

     E’ questo gioco all’esagerazione di elementi formali sovrabbondanti rispetto alla sobrietà del contenuto a fare di “The Snow Man” un vero e proprio capolavoro di contraddittorietà funzionale alla struttura del processo d’identificazione. Il traduttore, quindi, si è limitato ad amplificare la visuale dell’autore seguendone lo svolgimento e fissando l’attenzione sulle deformazioni che il testo è riuscito ad irradiare al momento della propria ricomposizione.

***

The snow man

One must have a mind of winter
To regard the frost and the boughs
Of the pine-trees crusted with snow;

And have been cold a long time
To behold the junipers shagged with ice,
The spruces rough in the distant glitter

Of the January sun; and not to think
Of any misery in the sound of the wind,
In the sound of a few leaves,

Which is the sound of the land
Full of the same wind
That is blowing in the same bare place

For the listener, who listens in the snow,
And, nothing himself, beholds
Nothing that is not there and the nothing that is.

L’uomo di neve

Si deve avere una mente invernale
per considerare il gelo ed i rami
dei pini incrostati di neve,

e aver sentito freddo tanto tempo
per scorgere i ginepri irti di ghiaccio,
gli scabri abeti nel brillio distante

del sole di gennaio; e non pensare
a un tormento nel suono dell’aria,
nel suono di poche foglie,

che è il suono del suolo
intriso dello stesso soffio
che spira nello stesso spoglio luogo

per l’uditore che ode nella neve,
e, niente in sé, osserva
niente che non sia lì e il niente che è.

[Nota critica e traduzione sono tratte da: Gianluca D’andrea, Nabanassariana/Letture e traduzioni 2003-2007, pdf 2008.]

***

16 pensieri riguardo “The Snow Man di Wallace STEVENS – di Gianluca D’ANDREA”

  1. Sì, Nadia, è uno dei testi cruciali della poesia del secondo Novecento (così come lo è l’opera tutta di Stevens).

    Colpisce la sicurezza, teoricamente fondata, con la quale un giovane studioso come D’Andrea lo affronta, utilizzando intuizioni e strumenti desunti dal corpo stesso del testo, dimostrando un’ampia conoscenza, a monte, delle ragioni della poetica e delle scelte stilistiche del poeta americano. E, oltretutto, senza nessuna concessione di natura reverenziale al possibile confronto con studiosi e traduttori di ben più lunga e provata esperienza.

    Il risultato è una “versione” affatto nuova, che non sfigura al confronto con nessun’altra e che si risolve in una felicissima mescidatoria di effetti sonori, attraverso l’utilizzo di tutta la gamma semantica di alcuni termini referenziali, restituendo, come poche altre, il respiro profondo del testo originale.

    fm

  2. Wallace è immenso, cristallino. Mi fai un regalo ogni volta che posti qualcosa che lo riguardi. La lettura di questo “the snow man” è una piccola perla.
    Mi chiedevo soltanto il perché della scelta del tradttore nel primo verso dell’ultima terzina.
    Spesso nel tradurre si ricorre a termini lirici, forse per conservare la metrica, ma a mio avviso (modestissimo eh) wallace ha una modernità di linguaggio che non riconosco in termini come “uditore” e a seguire “ode”. Io avrei quasi preferito la ripetizione “Per chi ascolta, chi ascolta nella neve” mantenendo l’assonanza che lega “listener- listens.
    ma ecco è solo un pensiero. “The snow man” è una poesia che resta.
    grazie
    lisa

  3. Grazie del commento Lisa, credo faccia piacere anche a Gianluca che, se in linea, ti risponderà sicuramente.

    Penso, comunque, che la sua scelta sia ampiamente giustificata, a livello teorico e quale opzione di “gusto”, nella nota critica che precede la traduzione. Traduzione che, proprio in riferimento alla nota, risulta coerentissima (oltre che efficace: ma questo è solo il mio parere).

    Rimanere fedele alla “intenzione sonora” del testo originale, ha, evidentemente, comportato il ricorso a un termine “desueto”, questo sì (“uditore”), ma che quella “intenzionalità” finisce, poi, per recuperare ed esaltare.

    Domani (pardon!: oggi), se ho tempo, procurerò altre versioni del testo: sarà evidente, allora, come, anche di fronte a traduzioni veramente belle, la “sostanza” e la tenuta ritmica del testo cedono il passo ad una, in certi casi, un po’ forzata “italianizzazione” in chiave lirica.

    Piuttosto, io gli chiederi, nel caso, perché ha optato, in riferimento all’originale, per la versione di tre quartine e una terzina, di fronte a quella più comunemente diffusa in cinque terzine.

    Ciao, grazie ancora dell’attenzione.

    fm

  4. Ecco tre versioni “classiche” di “The Snow Man”.

    ::

    Si deve avere un animo d’inverno
    Per contemplare questo gelo e i pini
    Con le rame incrostate dalla neve;

    E avere avuto freddo lungo tempo
    Per guardare i ginepri irti di ghiaccio
    I rudi abeti nel brillìo remoto

    Del sole di gennaio; e non pensare
    D’alcun duolo nel gemito del vento,
    O nel suono di queste poche foglie,

    Voci di una regione visitata
    Da quel vento che sempre
    Sibila sullo stesso nudo luogo

    Per chi ascolta, chi ascolta nel nevaio,
    E nulla in sé medesimo, contempla
    Là quel nulla che è e che non è.

    (Renato Poggioli, 1954)

    *

    Bisogna avere una mente d’inverno
    per osservare il gelo e i rami
    dei pini incrostati di neve;

    e avere patito tanto freddo
    per guardare i ginepri ricoperti di ghiaccio,
    gli abeti ruvidi nel distante riflesso

    del sole di gennaio; e non pensare
    alla miseria che risuona nel vento,
    tra le rade foglie,

    il medesimo suono della terra
    attraversata dal medesimo vento
    che soffia nello stesso spazio spoglio

    per chi in ascolto, ascolta nella neve,
    e lui stesso un nulla, guarda
    il Nulla che non c’è e il nulla che c’è.

    (Nadia Fusini, 1985)

    *

    Si deve avere una mente d’inverno
    per guardare il gelo e i rami
    dei pini incrostati di neve,

    e avere avuto freddo a lungo
    per vedere i ginepri irti di ghiaccio,
    gli abeti ruvidi nel chiarore lontano

    del sole di gennaio, e non pensare
    a un dolore nel suono del vento,
    nel suono di poche foglie,

    che è il suono della terra
    percorsa dallo stesso vento
    che soffia nello stesso nudo luogo

    per l’ascoltatore, che ascolta nella neve
    e, nulla in sé, vede
    nulla che non sia lì, e il nulla che è.

    (Massimo Bacigalupo, 1994)

    *

    Si deve avere una mente fredda
    per apprezzare il gelo e i rami
    dei pini incrostati di neve,

    e aver avuto freddo a lungo,
    per scorgere i ginepri puntuti di ghiaccio,
    gli abeti irruvidirsi nel lontano luccichio

    del sole di Gennaio; e non pensare
    ad alcuna pena nel suono del vento,
    nel suono di poche foglie,

    che sono il suono della terra
    colmo dello stesso vento
    che sta soffiando nello stesso vuoto

    per chi ascolta, per chi ascolta nella neve,
    e, lui stesso niente, guarda
    niente che non c’è e il niente che è.

    (Lisa Sammarco, 2008)

    ::

    fm

  5. grazie Francesco. é interessante seguire l’evolversi nel tempo della lingua poetica dei traduttori in questo testo nonostante il sovrapporsi dello “straniamento” del poeta/traduttore alla densità del nulla/realtà.
    la Bellezza di questa poesia è proprio la contradditorietà del suo coinvolgere.
    Sono in partenza e ho pochissimo tempo, ma mi piacerebbe farne una mia versione se mi sarà possibile o magari leggerne anche altre al mio ritorno.

    intanto un enorme grazie
    lisa

  6. solo ora vedo la pubblicazione, un appunto per francesco: la traduzione che ti mandai era di cinque terzine, ci sarà stato qualche errore.
    per lisa, le scelte sono di ordine sonoro e temporale, la poesia è del 1921 e permette la scelta lirica di termini desueti per mantenere il ritmo del verso e che io ho inteso scandire con un endecasillabo “a maiore” con una forte sinalefe tra “che” e “ode” che non sarebbe stato possibile con altri termini, un caro saluto

  7. Ciao, Gianluca.

    Sistemato! E svelato l’arcano: nel passaggio dal pdf di nabanassar (da dove l’avevo tratto) al dashboard di wordpress, la macchina si è divertita a sistemare i versi secondo criteri suoi propri. E’ già successo altre volte. Solo che, in questo caso, è mancato (per miei problemi di tempo) la necessaria “revisione”.

    E’ chiaro che la domanda finale del mio precedente intervento non ha senso alcuno.

    Grazie per le precisazioni.

    A presto.

    fm

  8. Sì, il confronto tra le varie versioni permette di allargare l’orizzonte di ricezione del testo e dei suoi echi profondi: in questo, per molti versi, “tradurre” e “leggere” sono più che sinonimi.

    fm

  9. Ringrazio in ritardo (me ne scuso) Gianluca per il chiarimento che in parte avevo intuito. Il tradurre pone il traduttore in una posizione estrema, ma ricchissima dal punto di vista di lettura interiore di un testo.Poter dialogare su certe scelte è di riflesso un ulteriore arricchimento.
    grazie
    lisa

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