Pioggia – di Antonio SCAVONE

[ANTONIO SCAVONE]

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(Emilio Merlina, Last call, 2009)

Antonio SCAVONE – Pioggia

     Nel pomeriggio ha piovuto. L’acqua ha lasciato sulle piante del giardino un velo d’argento che è rimasto umido per tutta la serata, come se dovesse ancora piovere.
Gli ospiti della pensione si sono trattenuti nel patio che dà sulla strada ma non passava nessuno, non succedeva niente, per cui se ne sono stati zitti e pensierosi, evitando commenti e previsioni sulle nuvole che incombevano vaporose e opache. Poi, alla spicciolata, si sono ritirati nel soggiorno per smaltire la noia in attesa della cena e sotto i rami maestosi del platano sono rimasti la coppia col bambino e quell’uomo solitario che passa il suo tempo a leggere o a scrivere.
     – Pioverà ancora?… Carla, sto parlando con te.
     – Sì sì, ho sentito… Che ne so se pioverà ancora?!
     Carla, la madre del bambino, non sta ascoltando l’uomo che le ha chiesto della pioggia: sta guardando invece l’uomo seduto in fondo al giardino, l’uomo che passa il suo tempo a leggere e scrivere.
     – Che cosa scriverà, poi…
     – Chi?
     – Quell’uomo.
     – Quale uomo, Carla?
     – Fabrizio, ce n’è uno solo: quello che sta scrivendo, là, in fondo al giardino.
     – Se non ne puoi fare a meno, vaglielo a chiedere.
     – Certo che glielo chiederò!… Perché lo conosco e anche lui conosce me.
     Ma Fabrizio si è perso le ultime parole di Carla: si era già alzato, aveva preso il bambino in braccio e se n’era andato su in camera.
     Carla, invece, ha raggiunto quel tavolino in fondo al giardino e ha interrogato quell’uomo solitario con un “Pioverà ancora?”. L’uomo del tavolino ha sollevato lo sguardo, si è tolto gli occhiali, l’ha osservata come si guarda una persona sconosciuta e ha risposto che forse sì, sarebbe piovuto.
     – Con un tempo come questo è facile prevederlo.
     – Già, ma il difficile è sapere quando smetterà.
     – Tu non sei Vittorio?!
     – … Prego?
     – Via, non fare il misterioso.
     – Non capisco… Che mistero?
     – Non mi hai riconosciuta? Sono Carla. Non ti ricordi me?
     – Dovrei?
     – Dicevi di amarmi qualche anno fa.
     – Può essere. L’ho detto a molte donne.
     Carla ha masticato e ingoiato la risposta sferzante dell’uomo, ha sorriso e poi ha cambiato atteggiamento, assumendo un tono più confidenziale, da vecchi amici.
     – Che leggi?
     – Un po’ di tutto.
     Carla ha inclinato la testa da un lato per sbirciare il titolo sulla copertina ma l’uomo ha capovolto con lentezza il libro, come si occulta per pudore qualcosa di segreto, di intimo. Carla non si è persa d’animo, ha incrociato le braccia dietro la schiena, si è lasciata andare a un dondolìo sulle gambe, ancheggiando appena, per stimolare l’interesse dell’uomo, per farlo scoprire, parlare.
     – Scommetto che è un romanzo.
     – Sì, è la storia di due amanti che si ritrovano dopo qualche anno.
     – Ma guarda… Ce l’hai ancora con me?
     – Sicura che sia io il suo amante perduto?!
     – Amanti, poi… Non ci siamo avuti… Perché ridi?
     Ma Vittorio non ha fatto in tempo a spiegare perché ridesse: un tuono-boato, accompagnato dal classico strappo di lenzuoli che si lacerano, aveva atterrito un po’ tutti: loro che stavano in giardino, le bacucche milanesi che ciarlavano nel salotto, i friulani che rivangavano il loro passato di veci; persino le cameriere di sala si erano fermate coi carrelli della cena.
     Le luci ebbero un leggero tremolìo e il proprietario della pensione, il signor Mauro, dai capelli neri lucidi, si presentò con un sorriso da imbonitore per annunciare che la cena era prossima, cinque-sei minuti e poi tutti nella sala da pranzo. Al tuono seguì, com’era prevedibile, lo scroscio d’acqua: il libro di Vittorio si inzuppò, l’abitino fucsia di Carla si rattrappì sul suo corpo mostrandolo come se fosse nudo e tuttavia Carla esitò prima di ripararsi sotto la pensilina del patio; aspettava ancora la risposta da Vittorio ma Vittorio raccolse il libro, i fogli e gli occhiali e, con un paio di salti, si dileguò nella hall, poi su per le scale e infine nella sua camera. Dovettero chiamarla, Carla: sarebbe rimasta ancora lì, sotto la pioggia, a dondolarsi, o a meditare.
     Le due milanesi tacquero: non s’aspettavano che in un posto di villeggiatura potesse piovere a dirotto e all’improvviso come quando si è a casa, nella propria città. Si guardavano senza accennare o tentare un commento: erano rimaste basite e in momenti come questi conviene stare zitti, negarsi a qualsiasi opinione, aspettare con umiltà quel che succede. Abbassarono gli occhi, presero una rivista squadernandola a metà e se la posero sulle ginocchia come per essere pronte a leggerla sul serio non appena avesse finito di piovere e un flebile sospiro di rassegnazione fu l’unico segno della loro breve ansia. La coppia di pensionati romani, in fondo alla sala, reagì con maggiore sagacia: la moglie si ripassò il rossetto sulle labbra che si confondevano ormai con la raggiera delle rughe sul volto e il marito si alzò, venne avanti, annuì a quello che stava accadendo, come se l’avesse previsto, e sbottò in un “Càpita, alla fine dell’estate!” che non diede certezze ma servì, almeno, da contrappunto banale e faceto a quello che sembrava preannunciarsi come un evento fastidioso e inopportuno.
     La pioggia continuò ininterrottamente per tutta la sera. L’acqua veniva giù a raffiche, a scodellate, come se si fosse aperta una crepa enorme nella diga del cielo, in quella nuvolaglia nera che aveva dato l’impressione di contenere e scongiurare quella specie di alluvione. E poi il vento: impetuoso, ficcante, con folate interminabili e poderose, di un vigore che si rinnovava di continuo, come se l’aria smossa non fosse stata abbastanza smossa e dovesse pertanto rincapriolarsi su stessa, sgonfiarsi, sperdersi e poi ancora montare e scoppiare in vortici improvvisi.
     Allegri non erano gli ospiti della Pensione Sylvia: dalla sala da pranzo, dove si apprestavano a consumare la cena, guardavano attoniti le gocce di pioggia che saettavano fitte e oblique, i rami del platano che sfrondavano come in una sequenza di tango ubriaco, i globi dei lampioni che traballavano sotto gli schiaffi del vento e dell’acqua. I friulani si meravigliavano che anche lì, in Toscana, piovesse come da loro, senza avere tuttavia la protezione di montagne millenarie e rocciose, o comunque di monti che potessero attenuare o bloccare la furia degli elementi: “Gli Appennini fanno scivolare l’acqua”, dissero.
     Il pensionato romano citò a memoria un verso di Trilussa: “Er foco lo spegni co’ ll’acqua e ll’acqua co’ che la spegni?” ma nessuno apprezzò né il suo intento bonario e consolatorio, né la perspicacia della citazione, che sembrò anzi troppo tempestiva e fin troppo realistica.
     Dovette intervenire Silvia in persona, la proprietaria che aveva dato il suo nome, sia pure con la ipsilon, alla pensione. Più del marito, dell’impomatato Mauro, seppe alleviare lo sgomento dei suoi villeggianti con un “Fa sempre così quando piove: gli è che dalle nostre parti siamo un po’ esagerati”. Silvia richiuse le tendine delle finestre e aiutò, come sempre, le cameriere a servire ai tavoli.
     Entrarono nella sala da pranzo come in un ambiente ostile e inaffidabile, non riconoscendo nei tavoli e nelle sedie e nelle luci soffuse lo stesso tepore, la stessa intimità che avevano magnificato sin dall’inizio del soggiorno nella “Pensione Sylvia”. Si sedettero ai tavoli con una parsimonia di gesti e di movimenti come per non far rumore, illudendosi di mitigare con la lentezza e la calma il chiasso e l’impeto della tempesta.
     Tutti optarono per un brodino di verdure, giudicando eccessivo e forse sconveniente, con quel temporale biblico, un fumante piatto di pasta al sugo: il brodino consentiva, per la sua leggerezza, che si fosse attenti allo sviluppo dell’acquazzone, evitando di ingolfarsi in una masticazione smodata e, per così dire, irriverente. Le milanesi, infatti, ad ogni tuono, salmodiavano un O Signur tra le labbra socchiuse mentre la comitiva che veniva dalla Sicilia si guardava in giro come per cercare facce allegre con le quali comunicare, se non altro, lo stupore; i friulani erano già spenti e tristi come in un quadro di Amedeo Bocchi.
     Si risollevarono un po’ tutti quando entrò Fabrizio col bambino: sembrava un segno beneaugurante l’immagine di quel padre col figlioletto in braccio e anche Carla, che li raggiunse poco dopo, con un abitino candido come la calce e i capelli già spruzzati di gel, ottenne dalla sala un gradimento immediato e unanime. E tuttavia non bastò quella tenera e rassicurante icona di una famigliola felice per sedare l’agitazione che cominciava a condensarsi nelle mani, nelle smorfie, nelle parole non dette.
     La pioggia non finiva, né lasciava pensare che si sarebbe docilmente indebolita. Cresceva così una sensazione di malessere, un tormento pungente e senza sbocco, come se si aspettasse non la fine di quel temporale ma il séguito di un cataclisma, come se tutto dovesse ancora crescere. Eppure quella sala da pranzo della Pensione Sylvia era uno spazio protetto, confortevole, una linea di confine che separava con sicurezza i due opposti ambienti: di là, oltre i vetri, la pioggia e il vento, di qua le tovaglie linde, i bicchieri brillanti, le posate d’acciaio, le sedie con lo schienale imbottito, i passi felpati delle cameriere, i sorrisi della padrona, i fumi e gli aromi che trapelavano invitanti dalle cucine.
     Niente, niente riuscì a distinguere e a dividere la sala da pranzo dal giardino dove infuriava ormai una bufera odiosa, ossessiva: il confine sembrava labile e ingannevole, prossimo a frantumarsi, a dissolversi, ad appiattire e ricreare un solo ambiente, un’unica temibile zona di pericolo. Neppure l’entrata di Vittorio, con gli abiti asciutti ma i capelli ancora bagnati, procurò sollievo: ai più sembrò il ritardo di un distratto, di un indifferente, cioè di un cinico che non avesse a cuore altri che se stesso e, d’altra parte, cosa ti puoi mai aspettare da uno che passa il suo tempo a leggere libri, soprattutto in occasioni così estenuanti?
     Finirono i risucchi discreti dei brodini, si svuotarono i bicchieri dell’acqua minerale, si smembrarono con accorta sobrietà i panini al burro e si passò alla seconda pietanza quasi per compiacere Silvia e la sua cuoca: esili scaloppine al limone e contorno di biete lesse furono preferite a fiacchi involtini di vitello con purea di patate; la frutta restò intatta nei cestini, il vino vergine nelle bottiglie.
     Il bambino sbadigliò, sazio e assonnato, e tutti lo guardarono con benevolenza, per ricavarne e propiziarsi un segnale anche modesto e innocente di sollievo.
     – Carla, porto il bambino in camera, casca dal sonno.
     – Sì, ti raggiungo tra un po’.
     Fabrizio si allontanò dalla sala col bambino in braccio che, con gli occhi semichiusi e il ditino in bocca, ebbe il tempo di agitare la mano per salutare quelli che restavano ma quelli che restavano non ebbero la prontezza di rispondere al saluto del piccolo: la circostanza imponeva di restare tutti lì, uniti, a preservarsi come potevano da quell’inferno che si era scatenato oltre i vetri.
     “Non vorrei aver perso la cena…” domandò Vittorio, scusandosi per il ritardo ma Silvia lo tranquillizzò subito, indicandogli il suo tavolo e augurandosi che, almeno lui, avesse un appetito degno e soddisfacente. Vittorio la rassicurò prontamente come un invitato dell’ultim’ora e da ultimo cenò, sotto lo sguardo vigile degli altri ospiti della pensione e quello imbronciato di Carla che sembrava l’avesse aspettato per rimproverarlo.
     Contrapposti nei due angoli, l’uno di fronte all’altra, mentre la sala si andava svuotando, fecero dire al pensionato romano che l’aveva già vista un’immagine simile: “In un vecchio film di quand’ero giovane, con Burt Lancaster e la Joan Crawford o la Rita Hayworth, mi pare…” ma non ne rammentava il titolo e un po’ se ne dispiacque. Uno dei siciliani propose, con una naturalezza irritante, che il titolo del film, e quindi di quella situazione, non poteva essere altro che un “Tavole separate” perché le tavole dei due erano di fatto distanti e il pensionato romano si rammaricò ancora di più: confermò a malincuore che era il titolo giusto e che gli era sfuggito scioccamente per un nulla.
     Si radunarono tutti nel salone come turisti sbandati da uno sciopero improvviso in aeroporto, si disposero secondo i gruppi di conversazione che si erano spontaneamente formati, secondo le affinità che avevano scoperto in quei giorni ma si chiacchierava, in realtà, per distrarsi, per non lasciarsi irritare e spaventare da quanto continuava ad accadere là fuori, nel giardino. Le milanesi erano ormai demoralizzate, non pregavano più, si limitavano a fissare il vuoto, come quando si aspetta una sentenza e non osavano guardare al di là della vetrata: si sarebbero tappate le orecchie se avessero potuto. I siciliani giocavano a carte ma senza eccitarsi, compìti e assorti come in un club inglese, dove il gioco è un pretesto e il pretesto una fìsima. I friulani guardavano con qualche interesse le stampe alle pareti, copie di routine dei paesaggi rurali di Segantini ma non coglievano similitudini con le loro terre severe da confine. Il pensionato romano non tentò altre citazioni, inforcò gli occhiali da presbite, cavò di tasca una rivista di cruciverba e si dedicò un po’ sfiduciato alla soluzione di rebus e sciarade.
     L’unico che mostrasse una temeraria curiosità o una presenza di spirito altrettanto avventata era Vittorio: fermo davanti alla vetrata dell’ingresso osservava la pioggia come suggestionato, attratto da una percezione che non riusciva o non voleva definire, quasi avesse visto, in quello spettacolo naturale, l’anticipazione imminente e fascinosa di chissà quali segnali, coincidenze, o addirittura cambiamenti.
     Gli si avvicinò Carla, si guardarono e destarono ancora una volta l’attenzione degli altri ospiti: sembrava proprio che avessero tante cose da dirsi, che dovessero riprendere una comunicazione interrotta, o verificare se davvero erano stati conoscenti, amici o amanti.
     – Perché ti comporti così?
     Ma Vittorio non rispose, deludendo non solo Carla ma le milanesi che si erano immaginate, evidentemente, una sorpresa, una rivelazione. Quel piccolo o grande mistero sembrava ormai, e non solo alle bacucche, un ottimo espediente, una praticabile via di fuga da quella pioggia inarrestabile che spegneva ogni altro barlume di serenità.  Anche i siciliani si erano decisi a sapere, a intrigarsi e lasciarono le carte sul tavolo, nel mezzo della partita, girandosi verso i due che stavano davanti alla vetrata, al di qua di quella pioggia finissima e violenta. I friulani si avvicinarono di qualche passo, con le braccia conserte e lo sguardo attento, pronti a intervenire o comunque a mostrarsi disponibili, nell’attesa che qualcosa, qualunque cosa, li avesse sollecitati all’azione, qualunque azione.
     Persino l’impomatato Mauro, distribuendo un vassoio con bicchierini di cordiale, non si perdeva quella che sembrava l’avventura di quell’uomo e quella donna. Di avventure ne càpitano tante in una pensione di una località termale ma era qualcosa di speciale quel breve incontro a distanza di tempo tra Carla e Vittorio: scatenava ipotesi, alimentava dubbi e curiosità perché restava profondamente o scioccamente enigmatico.
     – Perché non ti sei più fatto sentire?
     Vittorio continuò a non rispondere: Carla continuò a guardarlo e i suoi occhi sicuramente dicevano molto di più delle parole che avrebbe voluto dire: erano sicuramente occhi di una donna innamorata – languidi, dolci, luminosi – ma che avevano rimosso immagini e ricordi per indugiare forse in una sommessa nostalgia, in uno sfatto disincanto.  Sornione o sbadato, Vittorio non alludeva a nessuna rivelazione, non si lasciava irretire da compiacimenti o lusinghe; riprese a guardare con quel suo incomprensibile entusiasmo l’assalto della pioggia che picchiava contro i vetri e poi, rivolgendosi agli altri che ormai pendevano dalle sue labbra, disse che una situazione simile l’aveva già letta in un romanzo, un romanzo di un autore spagnolo, con un temporale d’estate come questo… La sortita di Vittorio non ammaliò nessuno, non aprì la strada a speranze o spiragli, facendo aleggiare semmai, con un’enfasi che aumentava quella tensione, un elemento astratto e retorico come può esserlo la letteratura, capace di illudere ma non di consolare o sostenere anime in pena.
     – Perché mi hai dimenticata?
     E neppure a questa domanda Vittorio rispose; disse solo che, come nel romanzo che aveva letto, la pioggia sarebbe finita all’improvviso e che non ci si può illudere sulla variabilità delle forze della natura.
     “In fondo, le cose stanno proprio così”, aggiunse con qualche difficoltà il pensionato romano, forse perché temeva di sbagliare ancora, di essere ancora una volta impreciso, per cui lasciò che la sua opinione fosse e apparisse impersonale e sciattamente approssimativa.
     “Lei crede?” domandò una bacucca, illuminandosi per un po’. Il pensionato si rinfrancò e, sia pur esitando, rispose che tutto poteva essere: “La natura è molto più vecchia di noi, di noi uomini, voglio dire: c’era già prima di noi e noialtri che ne sappiamo delle sue leggi, dei suoi ritmi?”.
     “È vero…” replicò la donna, astraendosi per un po’ in quella che le era sembrata un’analisi pertinente ma, in qualche modo, ancora più angosciosa.
     L’altra milanese ebbe addirittura il coraggio di chiedere a Vittorio se, per caso, lui non fosse un colonnello delle previsioni meteo o un esperto della materia.
     – Quale materia, signora? La meteorologia o la lettura dei romanzi?
     Per quanto sbalordita e spiazzata dalla fumosità della questione posta da Vittorio, la seconda bacucca non poté rispondere perché, sbatacchiato dall’acqua battente, un ramo del platano rovinò pesantemente sulla ghiaia del giardino, spaccando tavolini e sedie e frantumando un lampione. Stavolta la paura si trasformò senza sussulti in quel terrore muto che blocca ogni nostra risorsa, facendoci sentire perseguitati e minacciati, abbandonati e sviliti.
     Carla afferrò il braccio di Vittorio per essere a sua volta abbracciata e protetta ma Vittorio restò immobile, tutto preso dallo spettacolo del suo romanzesco temporale. I friulani e i siciliani stavano per scagliarsi fuori, oltre la vetrata, ma furono fermati dalle grida delle milanesi: “Dove andate? Per l’amor di Dio!” e si trattennero, superati e sconfitti da quell’impulso che li aveva con un’insidiosa doppiezza allarmati e sedotti.
     Sopraggiunse Mauro che non mancò, tanto per darsi un tono, di ravviarsi i capelli lucidi e non sapendo come rassicurare i suoi ospiti, disse che avrebbe chiamato i pompieri ma che, nel frattempo, conveniva restare tranquilli e magari non pensarci. Fu più convincente, come al solito, Silvia: aveva già allertato il servizio di protezione civile della comunità alberghiera e aveva già controllato il buon funzionamento del generatore di elettricità. Nel frattempo anche Silvia invitava alla calma e aveva dato ordine in cucina di preparare una cioccolata calda per rallegrare un po’ gli animi. Alla padrona tutti dissero “Grazie” sia pure per poco perché la furia della pioggia, con la grandine che cominciava a tintinnare ovunque, faceva svanire immediatamente quel fervore che Silvia aveva saputo evocare.
     – Perché non hai voluto essermi amico?
     La domanda di Carla fu captata dalla prima bacucca che guardò Vittorio come per persuaderlo a parlare, a vuotare il sacco, a dire se tutto quello che gli altri ospiti avevano intuìto appartenesse alla vita, al destino, persino ad altre piogge, o fosse invece il risultato esagerato e deludente di uno scambio di persona, di un malinteso.
     Vittorio non se la sentì di dar ragione all’una o all’altra delle ipotesi che lo sguardo di Carla e poi quello della milanese gli avevano sottoposto: forse pensava a quel romanzo che aveva citato e che gli doveva sembrare, in questo caso, in quel momento, un modello da seguire, che gli faceva ritenere molto più naturale estraniarsi o tacere rispetto a quello che tutti ormai si aspettavano che lui facesse: ammettere, riconoscere, ricordare. In pratica, confessare. E cosa? Ed era poi questo, quello che voleva Carla? Che senso ha rivangare legami, eventi o comportamenti del passato – reale o illusorio che sia – solo per saggiarne a distanza di tempo le tracce del ricordo oppure per sfidarne pretestuosamente la mutevolezza?
     Cosa si riprometteva Carla? Di stabilire ancora una volta la fine di quella storia d’amore che non era mai cominciata o di tentarne, dopo qualche anno, un recupero più duraturo ed esaltante? E che ragione aveva quella reticenza oziosa e monotona di Vittorio nel conferire a se stesso e alle sue romanzesche divagazioni l’aura di un mistero seducente ma indefinito, incompiuto?
     E all’improvviso, come una pompa che venga serrata con forza, la pioggia svanì, si dissolse. Fu talmente repentina la fine del diluvio che nessuno parve gioirne. Perché?
     Perché d’un tratto gli ospiti della pensione sospesero ogni giudizio, ogni emozione? Che altro doveva ancora succedere?
     Vittorio si girò a guardare le milanesi, i siciliani, i friulani, i romani, Mauro, Silvia e infine Carla che aspettava ancora un gesto, una conferma. “Che vi avevo detto?”, esordì con la semplicità bislacca di un invasato, indicando al di là della vetrata il giardino ormai acquitrinoso nel quale giaceva, come una carcassa di coccodrillo, il ramo spezzato del platano. “Che sarebbe finita all’improvviso, come per un sortilegio! La natura, per quanto caotica e complessa, è certamente più naturale di noialtri, non trovate?”.
     Ma gli altri non trovarono e non capivano nemmeno l’allegria di Vittorio: la premonizione o semplicemente l’augurio che aveva percepito e divulgato si erano avverati ma gli ospiti non sapevano come intendere questo evento che, tutto sommato, non era parso così strabiliante. Carla sorrise teneramente, per fargli sentire un rinnovato interesse, sicura che Vittorio sarebbe stato finalmente sincero, ma Vittorio pensava ad altro, ancora una volta. Aprì le porte della vetrata, uscì nel giardino e respirò a pieni polmoni quell’aria frizzante che la pioggia aveva ricreato. La prima a muoversi fu Carla, poi gli altri.
     Lo seguirono fino alla vetrata, accalcandosi, in prima fila, come un reparto di retroguardia segue con qualche timore l’impavido pioniere. E ne seguirono con gli occhi i movimenti, la perlustrazione che Vittorio faceva del posto tra le pozzanghere e le foglie sparse, la contentezza infantile che animava il suo saltare tra i tavolini capovolti, le sedie sfasciate, il vento che tuttora si radunava in capricciosi mulinelli.
     “Si diverte come un ragazzo…” disse il pensionato e guardò gli altri che annuirono rincuorati. “Anch’io, quando ero un pischello, correvo da matto per le strade nelle pozzanghere quando finiva di piovere…”. Anche Carla rideva e scuoteva la testa bonariamente, biasimando con mitezza l’ennesima sortita da guascone di Vittorio.
     Lo seguirono anche quando si staccò dal platano un altro ramo squarciato dalla pioggia, quando quel ramo gli cadde addosso, quando lo abbatté a terra, quando non gli permise più di rialzarsi.
     Mauro e Silvia uscirono nel giardino, si fecero aiutare dai loro ospiti a rimuovere il ramo e a prestare i primi soccorsi ma non c’era bisogno di soccorsi: Vittorio era morto sul colpo. Non si udì un grido, non si avvertì un affanno di dolore.
     Fu un silenzio di smarrimento, fu una consapevolezza molesta: le parole non trovavano suoni per formularsi, i pensieri e le idee sembrarono impropri e ovvie e al panico provocato dalla pioggia era subentrato un sentimento indefinibile di calma e di cupezza. Restarono agghiacciati su se stessi, non riuscendo a capire o non volendo capire tutto quello che era successo e se, addirittura, fosse davvero accaduto. Tutti guardarono Carla perché sembrò che solo lei potesse finalmente sciogliere i dubbi e confermare le impressioni.
     “E ora?” chiese la più vecchia delle milanesi ma Carla non rispose, guardava davanti a sé, guardava quell’uomo a terra e senza vita. “Eravate amici? O amanti?…” aggiunse l’altra bacucca e Carla se ne stava zitta, con uno sguardo che non comunicava nulla, con un’espressione che non aveva nulla da comunicare.
     Nessuno riuscì a scuoterla, a pretendere che desse delle risposte o che fosse meno evasiva ma, in verità, nessuno poi voleva che lo fosse, che dicesse cioè più del dovuto, che confidasse segreti o storie. La fine di Vittorio sembrò l’unica e inevitabile conclusione dell’avvenimento che si era manifestato quella sera in quella pensione: una pioggia tremenda, romanzesca e crudele, comunque da dimenticare.
     Carla infine si sciolse, si girò lentamente, si passò una mano tra i capelli, si stirò con le dita gli angoli degli occhi, inspirò a fatica prima di incamminarsi incerta verso le scale, come un automa cui stiano per consumarsi le pile, come una donna che si ritrovi sopraffatta da un desiderio mancato. Fu fermata dalla mano della milanese più giovane: Carla guardò quella mano, poi gli occhi della donna e poi ascoltò quella domanda strana che le veniva rivolta: “Non deve dirci nulla? Lei lo amava ma lo lasciò… perché?”.
     Carla si mostrò turbata e infastidita da quella domanda e da quell’approccio che le chiedevano sincerità. Era Vittorio, era quell’uomo che passava il suo tempo a leggere o a scrivere a dover confessare, non lei: questo era il suo pensiero.
     Fissò con distacco la sua interlocutrice, si allontanò e scomparve su per le scale senza parlare. Deluse, le due milanesi andarono a sedersi sul divano del soggiorno tra le cose che erano rimaste uguali prima, durante e dopo la pioggia e guardavano la sala da pranzo, le porte, le tendine, le maniglie ottonate, i tappeti rossi, le stampe alle pareti. Avrebbero voluto sapere, le due donne, chi era quell’uomo che Carla chiamava Vittorio e perché non avesse confermato o negato la presumibile relazione che li aveva forse uniti qualche anno prima.
     La più giovane si rivolse al pensionato romano e gli chiese cosa ne pensasse e come valutava l’atteggiamento di Carla. L’uomo guardò la moglie che si era addormentata sulla poltrona e rispose che sui sentimenti, a volte, c’è poco da dire. “Nel senso che sono sfuggenti?” incalzò la più vecchia e lui, piegando e ripiegando tra le mani la rivista dei cruciverba, si rincantucciò nelle spalle, abbozzò un sorriso che ammiccava al destino e alla sventura e aggiunse poi che una storia d’amore non finisce mai, anche quando uno dei due… e indicò il corpo di Vittorio, là nel giardino, mentre veniva ricoperto con un lenzuolo da Silvia, assistita dai friulani.
     Nel giardino si respirava ora un’aria tersa e tuttavia gelida: i siciliani scesero in strada per fare da staffetta ai pompieri e a una pattuglia di poliziotti. Silvia spiegava a tutti – passanti, curiosi – quel che era successo e di come fosse stato imprevedibile. Il patio divenne la scena-madre di una rappresentazione cui nessuno poté dare un titolo perché nessuno volle raccontarne la storia. Le due milanesi fissavano il vuoto ma i loro occhi brillavano: inseguivano, immagine per immagine, la storia di quella sera, le emozioni provate, le parole, gli sguardi, i silenzi.
     – Giulia…
     – Che c’è, Marta?
     – Credi che quei due si siano amati, una volta?
     – Non saprei.
     – Ritrovarsi dopo tanto tempo e poi perdersi…
     – Si erano già persi una volta, però.
     – Forse era scritto tutto nel romanzo che diceva lui.
     – Tutto, cosa?
     – Tutto, Giulia. La loro relazione, il tempo passato, la pioggia di questa sera e forse anche noi.
     – Noi?!… Io e te?
     – Forse ci avrebbe chiamate vecchie bacucche.

***

8 pensieri riguardo “Pioggia – di Antonio SCAVONE”

  1. Molto probabilmente (l’autore magari potrà confermarlo) il romanzo a cui si fa riferimento nel testo è “Tormenta de verano” (1962), del (grande e ingiustamente) dimenticato Juan Garcia Hortelano. Il libro, tradotto da Luisa Orioli, fu pubblicato in Italia da Einaudi nei “Coralli”. Chi sa se è mai stato ristampato. Dubito, ergo sum…

    fm

  2. Non poteva essere altrimenti, Francesco: hai còlto benissimo il riferimento che il protagonista di “Pioggia” rende a quel grande romanzo di Juan Garcìa Hortelano che è appunto “Temporale d’estate” (Tormenta de verano), pubblicato da Einaudi nel 1962 – aveva vinto, il romanzo, il Prix Formentor nel 1961 – e tradotto esemplarmente da Luisa Orioli. Anche a costo di suggestionare o influenzare i lettori del racconto, devo dire che “Pioggia” è un “omaggio letterario alla letteratura e alla vita che la letteratura rispecchia e promuove”: il lungo virgolettato è necessario. Certe similitudini, o sarcasmi o iperboli o referenze o quant’altro c’è di empatico tra chi scrive e il proprio materiale letterario, provengono da scelte di lettura e di stile, e non da opzioni frammentarie e occasionali. Ho “volutamente” – nell’omaggio di ispirazione a Hortelano – capovolto il punto di vista del protagonista (in “Tormenta” una donna, in “Pioggia” un uomo) e ho inteso aprire un varco, un’apertura, al racconto e al raccontare le esperienze desunte o promosse dalla “lettura di romanzi e racconti”. Chi leggerà, dirà. Tu, come sempre, hai improntato il cammino.

    Un abbraccio

    Antonio

  3. In questo racconto, in particolare, ho ritrovato sotto traccia l’insieme delle sollecitazioni etiche e stilistiche (indistinguibili nella tua scrittura, visto che si tratta del medesimo respiro) che caratterizzano le tue riflessioni sulla “filosofia del leggere”.

    Particolarmente accentuata anche la “dimensione teatrale” del testo, che del resto è una costante di tutti i tuoi scritti: di un teatro riportato alla sua matrice etimologica e alla sua natura di “luogo” privilegiato dell’osservazione: dove l’azione, da una parte, e la visione/partecipazione, dall’altra, non hanno finalità di pura rappresentazione, o, su un altro versante, di ordine catartico, ma espressamente conoscitivo (i.e. etico): il disvelamento del fondo tragico su cui si staglia e prende forma la “banalità” dei gesti e delle parole (del “male”?) dell’esistenza.

    fm

  4. La coralità un po’ molliccia, annoita, però interessata a un particolare della storia di vittorio e Carla, mi fa venire in mente il modo in cui il lettore affronta la lettura di una pagina di narrativa. C’è chi bada alla storia, chi allo stile, chi ad altro ancora, seguendo un processo “naturale” per accostarsi a un testo in base a ciò che il lettore è.
    Io amo l’insieme di tutti gli elementi, segni scritti o lasciati in sospeso, psicologia dei personaggi, fluidità, vicinanza e tutto quanto possa servire a farmi entrare nella vicenda e nell’atmosfera di un testo.
    Devo dire che con i tuoi racconti, letti, credo, tutti o quasi quelli in rete,riesco nell’intento ma solo perchè, tu, autore, me ne dai la possibilità.
    C’è un denominatore comune nei tuoi scritti, spero di non scoprire l’acqua calda, la capacità non solo di descrivere una situazione, un evento, ma di saper trasmettere, attraverso la scrittura, voci suoni rumori odori luoghi sentimenti e non solo nel senso più stretto dei termini, ma anche in quel possibile non detto, in un “oltre” sospeso tra chi scrive e chi legge, tra finzione e realtà oggettiva.

    Mi ripeterò per esigenze di chiarezza, anche se già l’amico Francesco mi ha giustamente preceduta : un palcoscenico dove reale e surreale coesistono e s’intersecano al punto tale da far scaturire anche il non detto e mi soffermo, io spettatrice, al compiersi della rappresentazione all’interno della quale, leggendo-vedendo-intuendo, mi sono guadagnata la mia particina.

    Detto questo, lo so, oggi sono prolissa, anche questo tuo ci immerge in un’atmosfera quasi stagnante, lenta e un po’ opaca. La verità non è forse opaca e dura a farsi togliere i veli? La pioggia, poi, interrompendo la lentezza-noia, scroscia con un brivido sui pensieri interrogativi dei pochi turisti. Inizia Carla con la bramosia di sapere o risapere un segno della propria esistenza, vera o presunta, frutto di verità passate o di un sogno sognato o letto da qualche parte o, forse soltanto, un desiderio di venir fuori da un pantano stantìo. Una domanda che,con lo scorrere della scrittura, non trova risposta così come non c’è risposta a un temporale improvviso nè allo smettere altrettanto improvviso della pioggia.
    Rimane un corpo senza vita sotto il ramo spezzato di un platano, un corpo che,da vivo-persona-personaggio-reale-sognato, restava intenerito a godere del temporale mentre gli altri si chiudevano nel terrore, ma temevano il temporale o una eventuale risposta di vittorio?

    E tutto, poi, si risolve in una storia-accaduto che nessuno voleva raccontare. Sarebbe stato un aggiungere al già detto nel libro che leggeva vittorio? O forse non c’era proprio nulla da raccontare se non la bravura di uno scrittore che mi ha condotta fin qui, a commentare un racconto che, per quanto mi riguarda è un romanzo o un canovaccio intrecciato mirabilmente su infiniti livelli di percezione.

    Un abbraccio a te, Antonio, un abbraccio a te, Francesco.

    jolanda

  5. Chi leggerà, dirà… avevo detto commentando Francesco ma con Jolanda devo dire, come i francesi, “Chapeau!”. Al di là della battuta e, invece, nella profondità dell’analisi di Jolanda – precisa, acuta e personale, di quel “personale” che chi scrive vorrebbe sempre trovare sulla sponda di chi legge – si fa materia oggettiva, si reincarna e si condivide ciò che fa raccontare una storia. E’ come dici tu, Jolanda: una pioggia improvvisa e insensata, un amore forse mai definito o realizzato, i comprimari che tentano di entrare nella vicenda falsa-presunta-obliqua con ricordi, suggestioni, paure e un protagonista che si fa beffe di tutti, finanche di se stesso, fino a soccombere alla sua manìa o malìa (?) del suo essere fino in fondo parte integrante di una storia che, pur lasciandoci senza risposte, ci ripropone domande dimenticate, collegamenti perduti, finalità accantonate, e non solo per ciò che un romanzo o un racconto stimola e suggerisce. L’io narrante, poi, si è preso la briga di confondere le acque, di suscitare antipatie, di scatenare sconfinamenti e di indicare forse con una crudeltà inspiegabile (o con la premonizione del tragico, come sottolinea Francesco) un esito difficile da spartire perché non si presta a patteggiamenti, a comode e facili risoluzioni critiche. “Pioggia” è questo ed è anche altro: Jolanda ne ha individuato con una vigile aderenza il paradigma nascosto.

    Grazie e un saluto carissimo!

    Antonio

  6. Antonio, mi hanno insegnato che si può parlare-scrivere di un testo in un certo modo, solo se il testo è in grado di suscitare moti ,rivoltando l’anima in chi legge.

    Il grazie,dunque, è mio per te.

    ancora ciao
    jc

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