[…] Raccolta di testi, questa, ricca di “assolutismi” che assumono la valenza del simbolo. Sottace, sotto la coltre del perno erotico-esistenziale, un piacere saturnino: qualcosa cioè di composto, ma non freddo: severo, eppure bollente. L’ossimoro, nella tematica dell’opera, vive sotto la superficie del segno, ed è a fatica trattenuto da una certa reticenza. “Dire” è anche un bollettino del rapporto sentimentale di una coppia di amanti dalle istanze moderne, nonostante il linguaggio peschi nel periodo a cavallo tra Otto e Novecento. Il Dire è reciproco, tra le voci protagoniste. Lo scambio verbale è a base di definizioni, impressioni che sanno di vere e proprie poetiche sentimentali. Il tutto sorretto da ritorni a miti, come ad esempio quello di Orfeo e Euridice, inteso però in senso paradossale e moderno, laddove la “lei” del caso invita il compagno a voltarsi per attuare (come afferma Augusto De Molo nella postfazione) la poetica dell’eternazione nel canto, così da sottrarre la consorte alla routine di una vita nuovamente terrena e noiosa.
Il soggetto poetico dà la stura a molti testi. Ecco alcuni esempi: “Volevo un libro chiaro per noi: / una pagina bianca quasi pura” ; “Cova in sé la paura il mio nome”; “Tingerò d’amaranto questi versi / perché tu possa scorgerli lontani/”; “Bramerei soccorrerti ad ogni ingiuria / se non fosse che a te io grido aiuto –“ ; “Così non ho diritto alle illusioni!”; “Se è il dolore di me che ti spaventa / non ha colpa la mia poesia /”. Se il poeta aspira a una purezza bianca e quasi impalpabile, di contro questi si preoccupa di tingere i versi di amaranto, per rendere il testo “leggibile” anche a grande distanza: come dire: è forse inutile la levità su cui insisto, se poi questa sofisticata grana non riesce a giungere fino al destinatario? La risposta è senza dubbio rassicurante. Ovunque si scorge il desiderio di “tematizzare” ciò che il protagonista afferma; si scopre che “Dire” può addirittura definirsi poesia che parli di sé. Echi di molteplici autori fanno capolino, qua e là: come non scorgere in quel già citato “Così non ho diritto alle illusioni!” (ma è solo un mio punto di vista) il caro Sergio Corazzini? E come non spiare, fra le seguenti parole: “…mentre le ceneri / già si posano sulle teste tonse / ai falsi pudori quaresimali …”, una temperie che, se non proprio al Pascoli, appartiene almeno agli autori di quel suo tempo?
Libro notevole, questo del veneziano Fabio. Da leggere con interesse e con la voglia di riassaporare le musiche della nostra bella lingua italiana. (Gianfranco Fabbri)
Da: Fabio Michieli, DIRE, Postfazione di Augusto De Molo, Forlì, L’arcolaio, “Codici del Novecento”, 2008.
cova in sé la paura il nome mio:
leggero basta l’alito della sera per spegnere
il coraggio di tendere la mano
e premere il sigillo che schiude l’oltre a un sogno
nel punto dove tutto si tramuta
*
lieve, un respiro lontano si fa
eco e mistero: voce che s’innerva
se un cuore esangue dorme tra le mani:
e un sospiro di luce si fa caro
se vi illumina il volto piú profondo
del vivere e il sapore che lo sazia
*
bramerei soccorrerti ad ogni ingiuria
se non fosse che a te io grido aiuto –
ma la sabbia biancheggia arida al vento
mentre tendo le mani per difendermi
dallo schianto col tempo qui caduto
da una clessidra rottasi al minuto:
la vita che non chiesi ma divenne
consegno ora al destino che mi spetta
*
(vestigia terrent)
stringo la maschera mentre le ceneri
già si posano sulle teste tonse
ai falsi pudori quaresimali…
e fosse tutto cielo o tutto mare
l’azzurro che invade il giorno sereno
sarei lieto d’attenderne il declino:
ma le ceneri che ho nere sul capo
le ha posate il vento che ancora sparge
reliquie di chi arse ieri sul rogo,
nell’ultimo scorcio di Carnevale
*
di quante altre avide bocche hai bisogno
per distruggere il mio onore? –
un volto che si appanna alla mia vista
resta sempre sé stesso: se si impalla
è un fotogramma
obliquo che non sfonda:
ma la sostanza non muta il silenzio
e il divario s’allarga quanto il forcipe
divarica l’antico controsenso
se ad ogni verità riaffiora un dubbio
*
esiti – eppure esiste nel tuo vivere
quel tormento che ostile non ti doma –
una traccia? la trama che avviluppa
questa tua vita attorta:
e non basta piú un nome per agire:
già s’agghiaccia l’attesa se al ritorno
sul volto squamerà
la fiamma che arde nuova una passione
*
in certi giorni che non so spiegarmi
(come un sorriso logoro che stempera
la sera e si travaglia nella notte)
di questo fiore mostro tutto il corpo: stelo, petali e stame…
(di quel che resta avvolto nella carta non lo diresti un mazzo
ma l’idea che di esso ci si può fare
quando lo togli al vaso per cambiarne
l’acqua, o ne sfili fiori perché marci…
non lo diresti un mazzo quel che resta)
in altri giorni ancora in cui non so
quanto di me è lasciato al caso mostro
mille e piú volti accolti in uno solo,
carico come un cesto di Natale,
di quelli che imbandiscono le tavole
sparse di frutta secca e di profumi
d’inverno, fra gli agrumi e le carrube…
(la lama che non lacera; la febbre che non macera;
la stanza che s’illumina se un raggio la ferisce)
*
no: non ora o non piú o forse un domani
tardo a seguire l’oggi che si svincola:
ora è inutile credersi diversi
quando tutto soggiace ad un’intesa
voluta da altri – e noi a guardarli inermi
quasi fossimo larve e non piú uomini –
e non era una fuga travestirsi
ma l’ultimo dileggio a un mondo smorto
e il vuoto che mi assale sa di nebbia
quando nasconde il volto delle cose
(squallidi coralli dispersi in mare
aperto come fossero le ceneri
d’un qualche morto in piú da aggiungere a una lista
che trova solo livida pietà)
*
trovate quella parte che ho lasciata
andare tra le spire del suo vento
portatemela intatta come neve
prima che un piede posi tutto il peso
del corpo scomposto di nuova vita:
e cosí non mi resta che accettare
l’evidenza schiarita dalla luce
che rimbalza su questo volto il manto –
e fosse pure calce dura al suolo
l’attesa scongiurerebbe lo schianto?
*
quale fuoco non scalda
se simile ad altri non brucia ma vive?
quale voce non grida
se quella che qui passa sordamente non senti?
ma è un riso di sole ciò che accende
il mio volto trasognato in un volo
di sguardi rubati a quest’oscurità
e non so mai quand’è giusto finire
***
Un grazie grande al carissimo Francesco, sempre così attento alle edizioni de L’arcolaio. Ti auguro tutto il bene possibile, mio caro amico.
Anche a nome di Fabio.
Gianfranco
grazie Francesco, è un piacere essere tuo ospite
Una sensibilità intrisa di novecento che può tracciare indirizzi futuri
Grazie a te, Fabio. E a Gianfranco e Luigi per i commenti.
fm
L’ha ribloggato su asSaggi critici.