L’unico paradiso possibile (I) – Livio Borriello

Presento una scelta di frasi da Mica me – anticipata da un’acuta analisi di Viola Amarelli il 25 maggio – per dir così politicamente orientata, visto che pare ci sia qualcosa da scegliere per il bene della polis domenica prossima.
Tuttavia quel che c’è in essi di politico è questo: io voglio un mondo che accada in un altro spazio, visto con altri occhi, percepito da un altro corpo, suscitato da altri desideri, e cioè, poiché per l’uomo la realtà è ciò che riesce a vedere, percepire, desiderare, voglio un’altra realtà. (Livio Borriello)

Selezione di testi da: Livio Borriello, Micame, Napoli, Edizioni OrientexPress, 2008.

[…]

7b4556e1a1d52ec06312ed0fd82e6244

esiste l’inferno? – sì – chi ci andrà? – chi è normale, chi dice cose sensate, chi sta bene nel mondo, le persone in gamba, le belle persone, chi funziona bene, in quanto esaurito dal funzionamento, chi è fedele al partner, chi è amato. la privazione di dio, che è l’inferno, e che le persone normali patiranno, consisterà nell’inerzia totale delle molecole a cui saranno ridotte. prive di ogni moto interno, di ogni irradiazione, di ogni ubiquità quantica, queste molecole saranno condannate alla fissità, alla vacuità, all’ebetitudine e all’incoscienza eterna. mentre le mie schizzeranno dall’orbita, produrranno luce e emissioni deviate, e sopravviveranno sempre e ovunque, in una specie di equivalente degradato della coscienza, in un tentativo di dissiparsi, che è l’unico paradiso possibile

la gentilezza, eufemismo ad uso di coloro a cui fa schifo il mondo.
l’accolita dei gentili, e le loro sordide, untuose combutte!
le cose vere della vita, la nascita, la morte, l’amore, sono cose violente – non sono cose gentili

qui siamo tutti vivi, sembra. ci frequentiamo solo fra noi vivi. vivi di qua e di là, nemmeno un morto mai. vivi, cioè gente attiva, gente dinamica. nessuno dà segni di putrefazione, nessuno è rigido, nessuno ci racconta niente dell’aldilà. qui siamo tutti vivi e vegeti

dio è vivo e vegeto, ma il suo vegetare è invisibile, la sua vita è incomprensibile. solo a volte si infiltra, sottilmente, pervasivamente, nei blocchi compatti delle nostre vite, generando delle finissime ma micidiali incrinature

mi interessa che l’altro sia vivo, e che questo essere vivo sia un’essere in fuga da sé, un’incessante desistere da sé (essere vivi è fuggire da un’inerzia all’altra, e in ciò produrre ignoto, essere ignotamente)

per ottenere un buon governo, fatte le elezioni si dovrebbe rivelare che si trattava di elezioni “a perdere”: vince chi ha ottenuto meno voti, e il più votato va direttamente in galera

oggi, sono stato un ritaglio di cielo, con delle nuvole sfilacciate, e davanti una casa, poi la lamiera cromata di un’automobile, e infine una ragazza che usciva da scuola, e mi guardava (cioè guardava sé nel me che la guardava)

bisogna aspirare a una certa disumanità. c’è fin troppa umanità nel mondo. quello che manca è una costruzione dell’uomo come cosa non umana

alcuni sentimenti prodotti dall’uomo contemporaneo sono come la plastica, roba non biodegradabile, che ti ritrovi fra i piedi come i pezzetti di buste e bottiglie sulla spiaggia
(ad es. certe idee umanitarie, certo spiritualismo, o anche molti desideri)

perché penso che l. sono io? noi siamo così attaccati al nostro nome, ai suoi fonemi e grafemi… e comunque al nome ideografico che sono i nostri tratti somatici… che se perdessimo davvero il nome, l’anima cadrebbe a pezzi, anzi, riprecipiterebbe nel nulla

tutti questi universi rotanti nelle strade, questi ammassi molli e frastagliati di carne, sviluppatisi come per decompressione da una specie di punto di risucchio, di inghiottitoio, di trituratore della materia. questi scarabocchi, enigmi o microcosmi si aggirano per le strade, svolgono funzioni, eseguono atti, ma si lasciano dietro una specie di residuo insolubile.

gli eventi non accadono e non cadono, solo si scapsulano, in deiscenza, a poco a poco

l’unico io nel mondo sono io. il cane, non è un io, le signore concitate nell’auto, sessantenni, tozze, non sono un io

noi parliamo di un io, come di una cosa comune. ma ce n’è uno solo, per quanto ne sappiamo, in tutto l’universo, e in questo è il mio. attraversato però da squarci: i sospetti di altri io

un pelo, una cosa che sono ancora io fino alla sua punta, e poi non sono più. dopo la punta del pelo si estende il deserto, lunghe, estesissime zone dove non si incontra altro di me.
(poi, forse, si comincia a scorgere in lontananza uno specchio, una parola che ho scritto, un conoscente, il posteggiatore che ho pagato stamattina e in un cui recesso mnemonico deve esistere probabilmente ancora per oggi l’ultima propaggine delle mie luci e le mie ombre mobili – e nella tasca i soldi)

forse tocco il mondo solo nei desideri – forse solo quando desidero vengo a contatto della sua insostenibile e struggente stranezza

bisognerebbe esplodere indefinitamente ad ogni istante, occupare ad ogni istante tutto il possibile. bisognerebbe essere cose uniche, cose definitive, cose irrimediabili

scrivere, parlare, è già perdersi, è già esiliarsi, è già desistere da ciò che siamo

pensare, sentire, è avventurarsi fuori di sé     sporgersi dall’animalità     è già una scissione, un’alienazione. bisognerebbe arrivare a pensare col corpo, configurare il corpo in modo da esprimere pensieri

come potrebbe accadere qualcosa nella pappa bianca di neuroni del cranio?
io posso solo rallentare, addensare e sagomare ciò che accade.
un io è una resistenza, è il rallentamento del mondo nella viscosità del cervello

ogni parola è un compleanno – un punto in cui si festeggia la nostra esistenza

7b4556e1a1d52ec06312ed0fd82e6244

bisogna rendere le parole incandescenti, bisogna farne affiorare l’eccesso, ciò che le eccede – l’incomprensibile – bisogna strizzarle, sbatterle, trattarle con la chimica delle lettere finché secernano, espellano quel loro tenue umido sfolgorio

io voglio che nella struttura di queste parole, nel loro inchiostro, si infiltrino sostanze sconosciute, sostanze inassimilabili, che le sfaldino e corrodano dall’interno voglio che la sintassi sia scossa da raffiche di correnti invisibili, che la dissestino voglio che non funzionino bene, che abbiano un’asprezza, un’acidità, una ruvidezza di cose minate, corrotte

bisogna fare tutto ora – fra un istante è troppo tardi, non è più vita

fino al cristianesimo il rango sociale è stato assegnato in base alla Forza, nell’età borghese in base al Danaro, nell’attuale società mediatica viene attribuito in base al Successo. Il nuovo Signore – ritenendo rischiosa e poco remunerativa l’eliminazione fisica del concorrente, disponendo di quantità di denaro che eccedono tutte le sue possibilità – ha bisogno di una forma di appagamento più profonda e radicale: egli deve colonizzare la psiche altrui, occupare col suo nome e il suo volto lo spazio delle altrui esistenze, propagarsi nelle infinite retine, trombe di eustachio e neuroni del mondo

sogno di stanotte (10-8)
col tsertetro ben dritto, mi avvicinai a quella lubiare-tane, moc-co-illi in piedi fra i fasci controluce delle persiane. tut miarneppo. lei era tesa, piuttosto bianca, pesava qua e là e si fletteva nei punti gonfi. si stese il gozumbosio e io sempre col stmoi colmo, che tesava la pelle come frutto estrofio, cominciai il percorso più difficile, verso il centro…
non questo ploppetto di fuso, mi disse , ma esando, emendo, io a nell’azzurro….

è strano: io sto fuori posto in un posto preciso.
è qui il mistero che hanno i corpi, imperturbabilmente e inspiegabilmente capaci di generare vapori immateriali, di racchiudere in germe l’incorporeo

strano, significa lontano, inaccessibile, altro, come se io non fossi sufficiente al mondo per contenerlo, e ne traboccassero a tratti degli oggetti – e perdessi e dissipassi alberi e signori sulla spiaggia come un atomo perde elettroni

questa signora, che ha preso un po’ di provola e certe cotolette di pollo, al cui interno, in questo atto, la realtà si sviluppa sequenzialmente e coerentemente. ma se a un tratto dopo la provola si aprisse una faglia, in cui si precipitasse, e che impedisse di arrivare alla cotoletta di pollo, o si producesse uno scollamento radiale intorno ad essa che la rendesse inutilizzabile dal mondo, noi ci accorgeremmo a un tratto della vertigine su cui siamo sospesi

lontano, in fondo al mondo, ci sono io
gli altri sono i miei organi dalle strane forme
a., dalla forma di scalciante puledrina, è l’organo eropoietico, che con le sue parole, il suo lavoro, i suoi sfioramenti e ogni altro atto, produce (in questa fase) l’amore
la cassapanca avanti a me produce il contenimento delle scarpe
e schumann e battisti producono una specie di vapore, su cui è come trasportassero in tutto il corpo del mio mondo gli ormoni, i sentimenti
l’ultimo organo, sono me stesso. sono il cervello del mondo: con le mie orecchie, con la pelle, col fegato e le percezioni, io computo il reale

che si può fare con una donna
tacere, in nudità, attenti (intenti) solo alla matematica del suo corpo, delle reciproche passioni, della luce discreta, dei suoi fluidi gestuali
(così, pensare – non pensare a dio)

salvare le frasi dove batte una luce particolare

doveva essere il 1970 circa quando ascoltai we shall dance di demis uscendo la mattina da un albergo a cefalù

io sono una mia fotografia un sistema di segni attraverso cui accede un io

tutto aspira alla bellezza, perchè solo alla bellezza è concessa l’inerzia

sarebbe bello uscire dalla vita con un gesto semplice, come si leva il tappo del lavandino

effetti delle donne sul sangue. a. fa aumentare la luce. la passante di stamattina lo ha reso schiumante. b. lo intiepidisce. c. lo rende acquoso, più torrenziale. qualcuna lo fa oscuramente greve, violaceo, torbido

eros, avventura della tattilità, scoperta di altre temperature, di altre consistenze, di altri volumi – la meraviglia di un’altra corporeità, oltre la nostra
(che esista qualcosa di misteriosamente corporeo, come noi, oltre noi)

nuda, sei un misto fra una dea greca e una pasticceria

la bellezza, il luogo dove tutto è violento e incandescente, punto di polluzione e affioramento dell’ignoto

lo scopo della mia vita è diventare un pezzo di carne vagante senza senso

se sposti appena un poco le cose dal punto in cui stanno, non sono più quelle di prima, e invece di averle spostate appena un poco, è come se le avessi spinte in un burrone (le hai spostate dall’orlo di un burrone, quello dello spazio in cui non sono più loro, e le hai perdute per sempre). se ami quelle cose per come sono, le puoi solo aspettare. forse passeranno vicino a te, forse no, se sì bene, se no non c’è un’altra occasione

io al centro del parcheggio, davanti al cartellone con la scritta: mai più peli superflui

se guardo il rosa della bouganvillea, io sono nel rosa – se mi commuto impercettibilmente, senza soluzione, nel verde, io sto nel verde (inavvertibilmente, silenziosamente – mi installo nel verde). se invece lascio dilatare la percezione, sono in questa luminosità estesa, pervasiva, prodotta dalla rotazione e centrifugazione di ciascun colore (ora lascio disperdersi i recettori visivi nella luce diretta, sono in quel bagliore diffuso, dilatato, epidemico)

7b4556e1a1d52ec06312ed0fd82e6244

le linee, i contorni, i passaggi da un colore all’altro, da una superficie all’altra, sono i limiti misteriosi in cui mi scuoto, mi desto dalla pura percezione, e attivamente e coscientemente stabilisco, definisco

lo splendore della carne, l’assoluta, definitiva, divina inafferrabilità, incomprensibilità della carne – qualunque essa sia, anche quella del macellaio

dover andare al lavoro ogni mattina imprime irrimediabilmente una curvatura alla giornata, un coefficiente di curvatura, che la rende infine circolare

di notte, verso le tre, se ti sei svegliato e stai fissando il buio, a un certo punto si materializzano le cose vere

visivamente, esse hanno l’aspetto di lievi garbugli filamentosi e rossignoli, che sembrano evaporati dal lieve sobbollimento notturno del corpo; invece, dopo un po’, si rivelano essere immagini di donne desiderate

il corpo di a., così minuto e porcellanato, una bambina attraversata però dai bui misteriosi, dalla vampa del pube, dal bruciore della bocca e della lingua

i corpi che si configurano in forme, sottoposti alla luce, che li ferma in un tempo. girando la testa, e indirizzando messaggi verbali all’amica, la ragazza appena uscita di scuola non avverte sulla schiena la sferza del dio

il punto in cui ci definiamo, è quello in cui percepiamo le cose. il momento della responsabilità etica, è quello in cui portiamo la nostra percezione del mondo in una lingua, quello del passaggio dal corpo al linguaggio.

papà spiega il mio mal di pancia con i peperoni, quando si trattava evidentemente di un’infiltrazione d’infinito nell’intestino

io sono tutto una mia periferia, tranne un punto che non so al centro di dove è

la prova che dio esiste è la nostra smania di fare cose inutili

c’è qualcosa che mi getta nei sentimenti, in cui non so che fare.
meglio starei nelle azioni, o nelle fatalità, o nelle necessità biologiche, o ontologiche, o anche nelle assenze – nei sentimenti ci sei solo tu, come in un deserto – e qualunque cosa faccia, la fai nel deserto – (nessun altro sente)

quella mattina, a roma, nella pioggerellina quasi gassosa, infinitamente nebulizzata, in una luce collassata e dispersa, omogeneizzata in tutto il cerchio visivo, l’immane ammasso, il meterorite intagliato di s. pietro, grande quanto la sua insensatezza, o le ragioni impensabili per cui è stato costruito. io, che misteriosamente e indefinibilmente attraversavo la vasta pianura lastricata

un uomo è l’oggetto a più alta densità d’ignoto – più densamente ignoto.
è come un globo luminescente che si sposta fra forme più opache

dio aveva infinite case, e ogni istante ne abitava una. quella sera passò per una puttana negra, con la gonna corta, in piedi sul lungomare

il governo delle belle donne, delle donne che abbiano il culo più bello – delle donne in cui l’ordine, il rigore, l’esattezza, la matematica, si sia espressa al livello più profondo e inalienabile, quello dei corpi. un mondo governato dal puro arbitrio di queste donne, solo per il tempo breve in cui le linee dei loro corpi conservino una purezza ed esattezza matematica

scopro solo ora, a 37 anni, che ho sempre confuso toni renis e teddy reno

il fondo è oscuro, o il fondo è luminoso?

ora vivo nel presente come se fosse un passato a cui si torna da un futuro

l’incalcolabile perdita di questo secondo, o la sua impagabile acquisizione (comunque, i conti non tornano)

io che questa vita sfioro e ignoro, sul cui pelo scivolo fugacemente senza saperne davvero nulla: un uomo con la sua misteriosa, rosea, tiepida carnalità nel groviglio duro, fitto e opaco delle cose.

se dietro il legno, la realtà del legno, ci fosse il legno, si concatenasse il legno, e non la sua elusione, il suo collasso, il suo liquefarsi in una pozza di indefinibile

è come se si fossero scrostati i contorni delle cose, e fosse affiorata una loro polpa interna – lattiginosa, disgregata, incoerente – e in questo loro interminabile mancare a se stesse, in questo lieve collasso, esse consistessero più essenzialmente

effetti delle donne sul sangue. a. fa aumentare la luce. la passante di stamattina lo ha reso schiumante. b. lo intiepidisce. c. lo rende acquoso, più torrenziale. qualcuna lo fa oscuramente greve, violaceo, torbido

pensando a una donna mentre sono in bagno, estrema vicinanza, per un istante, di questa donna (della sua sostanza, pneumatica, biochimica o cromatica) e di due tubi d’acciaio

io penso che dobbiamo fare a volte cose inutili, cose antibiologiche, cose che non hanno senso per la nostra vita, per la nostra sopravvivenza, cose di cui non ci rendiamo conto. dobbiamo sbagliare, dobbiamo perderci in uno di questi attimi inutili, supremamente, arcanamente e definitivamente inutili

il tuo corpo, come la forma di minimo attrito del mondo. non c’è forse punto del mondo in cui la psiche, il fronte dell’io trovi meno attrito. le linee del tuo volto, configurate secondo le leggi della massima sintesi, eleganza e economia geometrica, incastrate una nell’altra come in un mandala, armoniche fino alla dissoluzione di ogni struttura (ma profondamente, perché naturalmente, e dunque divinamente, ordinate) diventano permeabili, perforabili

nessuno può amarci per quel che siamo, perché quest’entità è opaca, è sepolta al di sotto del mondo, o forse è spaventosa.
le cose avvengono solo fra i nostri rappresentanti, sono i nostri rappresentanti che contrattano la vita per noi, che respirano, agiscono, amano ecc. – forse noi interveniamo solo per nascere e morire, o pochi altri istanti, forse senza che ci riconoscano

7b4556e1a1d52ec06312ed0fd82e6244

al mafioso
tu mi vuoi uccidere?
ma se muoio, chi saprà mai che la seconda parte di e penso a te (quella che fa ba ba ba ba ba) non mi piaceva?

esiste un limite etico alla felicità?
la produzione di una felicità in un qualsiasi punto del mondo, non giustifica qualsiasi altro sacrificio?
non è una logica miserabile quella che non sacrifica il relativo all’assoluto?
una felicità vera non si espande e irradia naturalmente fuori di sé, non viene restituita al mondo?

ogni vera passione produce una fiammata di luce e calore che incrementa il mondo

l’amore come movimento emotivo compreso nella sfera biologica o umana, come meccanica biologica – l’innamoramento come esperienza dei limiti, come rilevazione e cognizione delle sue pareti

la tua pelle, la tua pelle che è in fondo una pelle umana e normale, mi sembra invece non so che confine perlaceo e abbagliante fra il noto e l’ignoto, fra il conoscibile e l’inconoscibile – il limite oltre cui non si sa che accada, o tutto accade esattamente e definitivamente

la mia strategia: amare più donne contemporaneamente, così che le donne si elidano a vicenda, e le sofferenze si sommino. si tratta di una strategia religiosa, non erotica

che sei tu e che sono io
io sono un sistema di interruzioni del mondo
tu sei gli spazi fra queste interruzioni

ti ho vista esistere, per un istante, esistere acquattata al di là degli occhi, al di sotto dei movimenti e le azioni e il tempo. ho visto la tua misteriosa eccedenza dal nulla, la tua inspiegabile e clandestina, la tua fiabesca apparizione fra le cose. così sei apparsa nella tua carne, nei gesti e nelle volizioni, con la stessa leggerezza, gratuità e provvisorietà degli animali nelle favole o della musica nei film

ieri, di fianco alla porta, sfiorando la porta, ci siamo guardati con l’abbandono
(come se fossimo due carni perdute nel cosmo)

io sono la reliquia dell’essenza che sono stato, e venero la mia tibia, la mia pelle, i miei sentimenti, come ordinari miracoli, come irruzioni dell’invisibile nel visibile

ero al punto in cui la luce è tanto forte, che tutto si mostra nell’apparenza della sua forma definitiva, irreversibile.

nel pallore in cui oggi     sono stese e campite le cose     la signora di fronte che stende un lenzuolo     e l’incerta fiammata dei gerani     in questo stesso pallore è il contenuto tenue delle tue palpebre incorporato in questo sistema attenuato     di differenze     e il mio desiderio come un’ossessiva tensione verso l’esterno.     il vento nei lenzuoli testimonia che il mondo accade     e il signore che si sporge del fatto che non è omogeneo, non è colmo

21.6
provenendo da una distanziata calma, la carne bianca, il bagliore attutito del suo ventre – il ventre debolmente pulsante di visceri tiepidi, castamente adiposo – la carne bianca e flagrante, immacolata, del suo ventre – mi ha ripiombato nella mia insufficienza, nella mia finitezza

i peli delle tue ascelle, segno soffice di una te soffice, lichene del corpo, sacca d’ombra. poi, saturandosi ancora, sottili antenne, estensioni filamentose, tue sporgenze nel mondo, te rampicante nel vuoto, abbarbicata nel gas; te lieve spuma, rigurgito di minerali, delicatamente radiante – avventura metafisica delle cellule stagliate nell’aria ignota

la carne della nuvola: sfatta, acquea, parenchimatosa, come un midollo dello scenario

[…]

***

Pubblicità

15 pensieri riguardo “L’unico paradiso possibile (I) – Livio Borriello”

  1. lettura piacevolissima in cui mi ritrovo come a casa.
    lo stile è essenziale e perfetto, pulito, caustico nell’inseguirsi del pensiero.
    bello davvero quest’umano inferno.

    Quanto mi piace questa parte:

    la gentilezza, eufemismo ad uso di coloro a cui fa schifo il mondo.
    l’accolita dei gentili, e le loro sordide, untuose combutte!
    le cose vere della vita, la nascita, la morte, l’amore, sono cose violente – non sono cose gentili

    qui siamo tutti vivi, sembra. ci frequentiamo solo fra noi vivi. vivi di qua e di là, nemmeno un morto mai. vivi, cioè gente attiva, gente dinamica. nessuno dà segni di putrefazione, nessuno è rigido, nessuno ci racconta niente dell’aldilà. qui siamo tutti vivi e vegeti

    dio è vivo e vegeto, ma il suo vegetare è invisibile, la sua vita è incomprensibile. solo a volte si infiltra, sottilmente, pervasivamente, nei blocchi compatti delle nostre vite, generando delle finissime ma micidiali incrinature

    mi interessa che l’altro sia vivo, e che questo essere vivo sia un’essere in fuga da sé, un’incessante desistere da sé (essere vivi è fuggire da un’inerzia all’altra, e in ciò produrre ignoto, essere ignotamente)

    per ottenere un buon governo, fatte le elezioni si dovrebbe rivelare che si trattava di elezioni “a perdere”: vince chi ha ottenuto meno voti, e il più votato va direttamente in galera

    caro Reb Stein, sempre tuo, Lucifero ;-)

  2. dedico senz’altro la quinta frase (mi interessa che l’altro sia vivo…) al furlen, in eterna fuga e desistenza dal suo posto, forse il maggior produttore di ignoto a mia conoscenza – e la prima frase, a franco arminio per comprovata competenza, e a lucifero, naturalmente, per diritto e signoria naturale.
    il mio libro ha avuto “fino a mo’ ” un qualche successo di critica – ovvero si è diffuso in varie trombe di eustachio di recensori, ma: è stato letto da 3 gatti; non mi sembra aver avuto alcun effetto sul mondo, che è cio che ovviamente si proponeva. a un anno passato dall’uscita, non mi dispiacerebbe una piccola verifica di effetti, un qualche discorso con qualche lettore, per cui ho raccolto con piacere l’invito di marotta

  3. “Le mie poesie non cambieranno il mondo”…ma lo rendono migliore..e ogni scrittura è una scrittura affidata a una bottiglia in mare…da una certa inclinazione ogni io è un mondo..cambiare sè è cambiare il mondo..poi restano le con-vivenze, la polis come dice FM, e qui ci vuole tanta, molta fiducia, un abbraccio Livio, V.

  4. non essere pessimista Livio con il numero di gatti… senti:

    Pag 42:
    il sacro, è il luogo dove la realtà si intensifica, e impone la sua incomprensibilità
    Pag 43:
    a 37 anni non esiste più una tua purezza, una tua purezza che può essere posseduta
    Pag 45:
    la poesia è un’altra densità delle cose
    Pag 46:
    un io è un assegnamento provvisorio
    Pag 51:
    sarebbe bello uscire dalla vita con un gesto semplice, come si leva il tappo dal lavandino
    Pag 53:
    nel parossistico egotismo dell’amore, si arriva a riconoscere l’ego dell’altro
    Pag 55:
    scrivere è dare la tinta all’invisibile
    Pag 61:
    io vivo per il bene della causa
    Pag 75:
    mi commuovono i suoi denti
    Pag 84:
    una ragazza in piedi sul bagnasciuga, opposta al vento, compressa nella sua ombra: fa parte dell’esistente
    Pag 86:
    la tua carne è il punto d’incaglio della mia vita
    Pag 88:
    l’io è una cosa spontanea
    Pag 93:
    la buganvillea esuberante e rosa, che rigurgita dal suo stato cromatico, ma che non può essere computata dal nostro occhio
    Pag 101:
    vorrei vedere una volta il papa seduto su un muretto con la testa bassa, e l’aria davvero disperata
    Pag 105:
    alla fine guardiamo fissi nel vuoto
    Pag 119:
    dire 2+2 fa 4 è guardarsi, scrivere è guardarsi

    fermo a questo “2+2 fa 4” uno degli elenchi delle mie sottolineature dal tuo bellissimo “mica me”

    un saluto caro

    Adelelmo

  5. adelelemo, ti nomino ad honoren quarto gatto nella lettura del mio libro…comunque ti ringrazio della tua finissima lettura e integrazione, una lettura rigorosa che ha cercato e felicemente trovato un altro libro (adelelmiano) nel libro

  6. Benvenuto, Adelelmo, debutti in un vero parterre de roi: effeffe, arminio e viola… e, dall’alto, l’occhio bene-dicente di Lucifero.

    A rivederti da queste parti.

    fm

  7. Grazie Francesco, è un bel posto questa “dimora”.

    Solo una cosa (altrimenti ci penso tutto il giorno):

    Poi – poco fa – mi ci sono svegliato pensando al refuso che c’era nel mio commento di ier sera; avevo scritto “mica me”, ne ero sicuro, anziché “micame” (con me in corsivo)

    qui dove sto io, nelle Marche del sud, “mica” è una parola in uso, può servire ad accorciare, per esempio, una frase del tipo: ”ti sbagli, non si tratta di me” in questo modo: “mica ero io “

    Livio prende questa espressione di uso comune (mica ero io – mica sono io – mica me) ma la rende unita distiguendo tuttavia il tondo di “mica” dal corsivo di “me”

    In una qualche maniera Livio conferma l’espressione tradizionale fatta di due parti (mica me), però le due parti le mette insieme e le distingue con il tondo oggettivo di mica e il corsivo soggettivo di me

    La cosa forte è che “mica” vuole dire briciola, granellino (le miche dell’oro) ma in preposizioni negative ha valore di niente, punto (“non sto mica male”)

    Livio…

    aiuto…

    perchè non ci dici qualcosa al riguardo di questa cosa qui, che sicuramente è centrale al tuo libro (se dà – come dà – il titolo al libro)…

    Un abbraccio

  8. PS

    e ancora: la conferma è doppia: c’è, nel titolo, il bianco di “mica” e l’azzurro di “me”… ma stanno insieme… e non credo proprio che si tratta di questioni di “grafica”, trattandosi di Livio

    Adelelmo

  9. PS

    scusatemi davvero, ma quanto sopra vale, ma solo in parte, perchè solo ora mi accorgo che “mica” e “me” sono entrambi in tondo ma il primo è bianco e il secondo è azzurro… dunque quanto sopra vale ma solo in parte…

    Adelelmo

  10. Anch’io ho letto il tuo libro, Livio, e mi ha molto colpito. Dunque siamo già in cinque gatti! Mi ha colpito in particolare il tuo rapporto con la donna, di cui parla anche Viola Amarelli nella sua critica. Da una parte a volte scrivi delle frasi che, lo ammetto, mi hanno un po’ irritato (le donne esistono in modo imparaticcio) , dall’altra sembri avere verso di loro un atteggiamento di grande rispetto, e a volte quasi di adorazione. Sono indiscreta, o peggio ancora frivola, se ti chiedo di spiegarmi il tuo atteggiamento? E questa misteriosa a., di cui si parla soprattutto nel capitolo La sciamana, è una donna reale o un’invenzione? Scusa le mie domande ingenue e un po’ provocatorie, ho sentito il bisogno di portele proprio perchè come ti ho detto il libro mi ha molto interessato.

  11. adelelemo, la tua lettura è stata davvero preziosa (ho stampato e inserito nel mio libro personale). sul titolo mica me, in realtà io, non amando molto la moda di conglomerare le parole (quanti titoli banali di manifestazioni ecc. si cercano di recuperare con questa tecnica un po’ facile), l’avevo messo separato… poi il destino, la grafica, i lettori pare abbiano fatto prevalere la lezione unita… comunque hai ragione, l’essenziale è il ribaltamento del sesno comune dell’avverbio mica, che così usato prende un suono strano.
    @ rosamarina
    la questione che poni non è affatto frivola, quella del rapporto fra la realtà e il libro. io infatti ho voluto (o potuto) scrivere un testo necessario, fondato nel mio corpo e la mia vita, e che tuttavia non fosse diaristico, non parlasse di me (appunto mica me). chi ho chiamato la sciamana esiste nella realtà, ma chiaramente nel libro diventa un’altra cosa, e sarebbe sbagliato volerla identificare con qualcuna, perchè nel descriverla mi sono preso tutte le libertà che mi facevano gioco dal punto di vista estetico e letterario.
    sul rapporto con la donna in generale, la questione è certo lunga e complessa.. qualcuno velatamente mi ha accusato di antifemminismo, ma non credo la cosa sia fondata. c’è ad es. nel libro un’orripilante descrizione del fallo maschile… insomma ce n’è per tutti… è rappresentata qualsiasi pulsione alberghi nel nostro inconscio, di segno negativo o positivo… comunque se c’è qualche donna in ascolto sono pronto al dibattito…

  12. Salve, scrivo per testimoniare che il libro di livio funziona, io sono la cosa che sono diventata leggendo, inizialmente ero solo il sesto gatto, e tredici delle sedici frasi sottolineate da adelelmo le avevo sottolineate anch’io (viva adelelmo) – prima ancora, prima d’essere gatto, dico, non lo so che cos’ero, forse un riflesso, di quelli che intercettano gli specchi, gli occhi, e tutti gli scrittori che si lasciano attraversare da quello che scrivono. Oggi invece non ci crederete ma sono una molletta per stendere i panni, vivo appesa a un filo, conduco un’esistenza non troppo libera, invero, ma dignitosa, e che il sole splenda o che piova a dirotto, non mi sento né triste né lieta.

  13. lallabai, esulto per te. quella di cosa è una condizione metafisica e prossima al divino, senz’altro desiderabile. ci arrivassi anch’io! in più, tu sei una cosa mobile e scrivente, questo il miracolo. naturalmente spero che nella realtà abbia anche quelle caratteristiche di purezza e assolutezza proprie del minerale, altrimenti sarebbe tutta un’evoluzione sprecata (naturalemnte tu ha scherzato dicendoti molletta…quello è uno stato cosale poco interessante, in cui ci si limita ad aprirsi e chiudersi)

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.