Scritti su Henri Michaux (II) – di Giuseppe Zuccarino

[GIUSEPPE ZUCCARINO]

Ideogramma pittorico e lingua universale (1.)

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     1. Sulla rivista “Écrits du Nord”, nell’ambito di una rubrica dal titolo Chronique de l’aiguilleur, il giovane Henri Michaux pubblica un testo piuttosto singolare, saggistico per l’intenzione, ma bizzarro e irriverente per la forma e il tono(1). La tesi di fondo da lui sostenuta è quella, in apparenza ovvia, che la sensibilità degli uomini muta notevolmente attraverso i secoli, per effetto delle innovazioni artistiche e tecnologiche specifiche di ogni epoca. Così, mentre a partire dal Rinascimento si è assistito al predominio dell’“immagine grafica”, legata all’invenzione e alla diffusione della stampa, in tempi più recenti, per effetto della fotografia e soprattutto del cinema, è prevalsa l’“immagine mimica”. Inoltre l’uomo contemporaneo, grazie allo sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione, può dire di aver raggiunto una certa “ubiquità”. L’arte è parte integrante di questi cambiamenti, sicché ad esempio “il cubismo, in pittura e scultura, nasce dallo stesso bisogno attuale di universalità e semplicità da cui è sorto l’Esperanto”. Anche in ambito linguistico, infatti, l’uomo ha elaborato attraverso i secoli una molteplicità di lingue, dialetti e gerghi, “ma adesso: ESPERANTO”(2).
     Con questo termine si indica la lingua ideata, allo scopo di favorire l’intesa fra i popoli, dal medico ebreo polacco Lejzer Ludwik Zamenhof. Questi l’ha proposta in un volume del 1887, Lingua internazionale, scritto in russo e firmato con lo pseudonimo di Doktoro Esperanto (dottore speranzoso), e successivamente in un’altra opera del 1905, Fundamento de Esperanto. Zamenhof ha proceduto riunendo una grande quantità di radici verbali (tratte soprattutto dalle lingue neolatine e germaniche) alle quali bastava aggiungere dei suffissi per stabilire la funzione grammaticale assunta da ogni termine. Ad esempio il suffisso -o indica che si tratta di un sostantivo al singolare (se fosse in causa una parola femminile, lo si farebbe precedere da -in), mentre il plurale si ottiene aggiungendo la desinenza -j; per formare l’aggettivo si utilizza invece il suffisso -a. Così, data la radice patr, si avrà la serie patro (padre), patrino (madre), patroj (padri), patrinoj (madri), patra (paterno), patrina (materno). Con lo stesso criterio si formano i verbi: per l’infinito si aggiunge il suffisso -i, per il presente -as, e così via(3). L’Esperanto parte dunque dagli idiomi europei già esistenti, e si limita a renderne più semplice e regolare la grammatica.
     Come il cubismo in arte, anche la lingua internazionale di Zamenhof figura nel testo di Michaux a titolo puramente emblematico. Egli infatti non intende sostenere che in ogni parte del globo gli artisti si stiano convertendo al cubismo, né che l’Esperanto sia destinato a diventare in breve tempo la lingua universale; si limita ad indicare una linea di tendenza, quella per cui, a suo avviso, i vari continenti sono ormai accomunati dall’esigenza di rinnovare ed ampliare i propri modi e strumenti di espressione artistica, e più in generale di comunicazione. Si tratta certo di una visione ottimistica, che tuttavia può dirsi condivisa, nei primi decenni del secolo, dalla maggior parte degli artisti e scrittori d’avanguardia. Del resto già Rimbaud, nella più celebre delle sue lettere, aveva profetizzato che, “ogni parola essendo idea, il tempo di un linguaggio universale verrà!”(4).
     Un altro aspetto che avvicina Michaux a questo più generale contesto si può individuare nel desiderio (specifico e caratterizzante dell’avanguardia letteraria) di svecchiare la lingua in uso o, se possibile, di inventarne una ex novo. Basti pensare al sonante proclama di Apollinaire: “O bocche l’uomo è in cerca di un nuovo linguaggio / Cui il grammatico di qualsiasi lingua non avrà nulla da dire / E queste vecchie lingue sono così vicine a morire / Che è davvero per abitudine e mancanza di audacia / Che le si fa servire ancora alla poesia / […] Ci vogliono nuovi suoni nuovi suoni nuovi suoni / […] E che tutto abbia un nome nuovo”(5).
     Quale esempio di attuazione pratica di questi auspici si può pensare, più che alle onomatopee marinettiane o ai testi puramente fonetici e provocatori di certi dadaisti (come Ball, Hausmann, Schwitters e Tzara), all’esperienza assai più ricca e complessa della “lingua transmentale” (zaum’) dei futuristi russi. Il maggiore tra i poeti che hanno lavorato in quest’ambito, Velimir Chlebnikov, merita di essere ricordato non solo per gli scritti creativi ma anche per i testi teorici. In uno di essi, edito nel 1920, egli cerca di illustrare le basi del suo modo di operare. Secondo lui, “la creazione verbale insegna che tutta la varietà della parola deriva dai suoni fondamentali dell’alfabeto, che corrispondono ai semi della parola. È a partire da qui che la parola si costruisce”. La coniazione di nuovi vocaboli, però, non può avvenire a caso, giacché la zaum’ prevede due presupposti: “1. La prima consonante di una parola semplice governa l’intera parola: comanda al resto degli altri suoni. 2. Le parole che incominciano con una stessa consonante, sono unificate da uno stesso concetto”. Così, una volta stabilito il campo semantico a cui si può ricondurre ogni singola lettera, sarà possibile formare nuovi termini e collegare diversamente quelli già esistenti. Anzi, “se risultasse che le leggi dei corpi semplici dell’alfabeto sono identiche per l’intera famiglia delle lingue, allora per tutta la relativa famiglia dei popoli si potrebbe costruire una nuova lingua mondiale”. Dunque la zaum’ non vuole essere solo un metodo di creazione verbale utilizzabile a fini poetici, ma ha pretese assai maggiori, “è, in germe, la lingua universale del domani”(6). Come si vede, le ambizioni o le utopie dei poeti d’avanguardia non hanno nulla da invidiare a quelle di linguisti-filantropi come Zamenhof.
     Ma torniamo a Michaux e ai suoi tentativi di invenzione linguistica. Leggendo il suo primo libro, Qui je fus, del 1927, ci imbattiamo in alcuni testi che comportano almeno in parte l’impiego di una lingua inesistente. Ecco ad esempio come si presentano i primi versi della poesia Le grand combat, che riportiamo nella versione originale: “Il l’emparouille et l’endosque contre terre; / Il le rague et le roupète jusqu’à son drâle; / Il le pratèle et le libucque et lui baruffe les ouillais; / Il le tocarde et le marmine, / Le manage rape à ri et ripe à ra. / Enfin il l’écorcobalisse. / L’autre hésite, s’espudrine, se défaisse, se torse et se ruine. / C’en sera bientôt fini de lui; / Il se reprise et s’emmargine… mais en vain / Le cerceau tombe qui a tant roulé”(7).
     Il discorso sulla lingua impiegata da Michaux in questo testo appare subito complesso: è ovvio che non si tratta del normale francese, ma neppure di un idioma totalmente alternativo ad esso. Più ancora del permanere di alcuni vocaboli “usuali”, lo testimoniano la struttura sintattica, del tutto regolare, e l’insieme dei valori fonetici, perfettamente congruenti con quelli della lingua di partenza. E tuttavia la maggior parte dei termini impiegati (in questo caso si tratta soprattutto di verbi) resta senz’altro irreperibile su qualsiasi dizionario. Ma la stranezza maggiore consiste nel fatto che il senso generale della poesia è inequivocabile, e tale sarebbe anche se non vi fosse il titolo ad indicarlo in maniera esplicita. Un critico vicino a Michaux, René Bertelé, ha usato per testi come questo la formula di “esperanto lirico”(8), formula che a nostro avviso è fuorviante. Nulla infatti permette di attribuire all’autore di Le grand combat e di altri scritti affini la volontà di proporre una lingua utilizzabile in modo generalizzato, e neppure quella di produrre coniazioni verbali volte ad ottenere un effetto specificamente “lirico”; l’abbondanza di neologismi va ricondotta semmai a un intento di deformazione espressiva o umoristica attuato nei confronti del francese. In maniera più opportuna, Marina Yaguello accosta Michaux a Rabelais e Joyce per l’impiego di una sorta di gergo che, nonostante le apparenze, non interrompe affatto la comunicazione col lettore: “Il linguaggio continua a produrre significato, ma non costituisce più un codice. Ci si avvicina al linguaggio ‘privato’, con le sue modalità espressive, ludiche, estetiche”(9).
     In una conferenza del 1936, lo stesso Michaux ha segnalato il rilievo assunto, nell’ambito della ricerca poetica del primo Novecento, da questa forma di sperimentazione, basata su vere e proprie invenzioni linguistiche. Tra gli autori che hanno percorso tale strada egli cita, oltre a se stesso, Joyce, Fargue, Péret e Jolas. Pur riconoscendo a Joyce una posizione di preminenza, Michaux sembra diffidare del suo metodo di creazione verbale: “Ha inventato, o meglio ha composto, migliaia di parole, parole da professore e da linguista. L’irlandese, il francese, l’inglese, il latino, il tedesco, vengono utilizzati a questo scopo”. Ad un simile lavoro sulla lingua, di cui è facile percepire la natura erudita, Michaux ne contrappone un altro, che consiste nel forgiare “parole dirette ed evocatrici, intuitive, senza ricordi etimologici”(10): una tecnica più modesta, dunque, ma forse più radicalmente inventiva.
     Che si tratti per lui di tentativi che meritano di essere proseguiti è dimostrato dal fatto che testi (in versi e in prosa) con ampia presenza di neologismi compaiono, isolati o a gruppi, in altre sue opere, quali La nuit remue (1935), Voyage en Grande Garabagne (1936), Plume précédé de Lointain intérieur (1938) e Tranches de savoir (1950). Occorre tener conto poi di un’altra forma di creatività linguistica tipica di Michaux, quella che consiste nell’ideazione di fantasiosi nomi propri: di personaggi umani, di popoli, di animali, di piante, di luoghi. A ciò si aggiunge infine l’episodica comparsa di parole deformate o inesistenti nei vari libri dedicati alle droghe. Tutti questi procedimenti, ciascuno dei quali richiederebbe un’analisi specifica e approfondita(11), attestano con grande evidenza tanto l’interesse dell’autore per la plasticità della lingua quanto l’insoddisfazione che egli avverte nei confronti dell’uso standardizzato che di essa viene fatto comunemente.

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     2. Nel 1927, l’anno di uscita di Qui je fus, Michaux, che da qualche tempo si dedica, oltre che agli scritti letterari, al disegno e alla pittura, realizza alcuni lavori grafici piuttosto singolari. Si tratta di una serie di segni che, a prima vista, parrebbero desunti da un alfabeto immaginario; titoli come Alphabet e Narration, dovuti all’autore stesso (cosa insolita, perché egli non titolava quasi mai i suoi disegni e quadri), confermano del resto questa impressione(12).
     L’idea di elaborare i caratteri di una lingua inesistente non è, in ambito artistico, così strana e isolata come potrebbe apparire. Ricorda Michel Butor che, “per rispondere alla sfida portata dalla scrittura straniera, a volte i pittori decidono di inventarne apertamente una, stavolta straniera per tutti, il che permetterà di introdurre nel quadro una zona di disorientamento decisamente controllata. Dipingeranno il fatto di non saper leggere, dunque il potere magico della scrittura per l’analfabeta. Così nella Primavera (1914), De Chirico svolge un manoscritto coperto di segni che fanno pensare a quelli delle ‘Claviculae Salomonis’. Il fatto che vi si trovino vestigia di lettere occidentali, nonché la disposizione per righe, ci obbliga ad attribuire loro una lettura da destra a sinistra. Kandinskij rivaleggia spesso con la scrittura […]. In Successione, del 1935, ci mostra ventidue gruppi principali, accompagnati da accenti e punteggiature, su quattro righe orizzontali tracciate con chiarezza. […] La sensazione che abbiamo è proprio quella di una pagina di scrittura”(13).
     Michaux, parlando retrospettivamente dei suoi “alfabeti”, ha segnalato l’importanza che hanno rivestito per lui: “In mancanza di meglio, traccio una specie di pittogrammi, o piuttosto dei tragitti pittografati, ma senza regole. Voglio che i miei tracciati siano il fraseggio stesso della vita, ma duttile, deformabile, sinuoso. Intorno a me, scrollano il capo, imbarazzate, persone che mi vogliono bene… per loro mi fuorviavo… invece di scrivere, semplicemente. Ciò che per me corrispondeva a un bisogno estremo, naturale quanto quello d’acqua e di pane o di dormire, per chi mi stava intorno non corrispondeva a niente. Ne vedevano soprattutto il risultato, timido, incerto. […] Fallimenti. Non totali (qualcosa di embrionale… forse per dopo)”(14).
     E in effetti l’idea è destinata a ricomparire, in varie forme. Nel 1943 Michaux pubblica il volume Exorcismes, accompagnando con sue illustrazioni alcuni dei testi. In uno di questi, Alphabet, si parla di un individuo che, all’avvicinarsi della morte, guarda “come per l’ultima volta gli esseri, in profondità”; il suo sguardo glaciale li riduce “a una sorta di alfabeto, ma un alfabeto tale che sarebbe potuto servire nell’altro mondo, in qualsiasi mondo”. I due disegni relativi a questo brano sono strutturati in riquadri, in ognuno dei quali campeggia una raffigurazione schematica e stilizzata di un essere umano o di un animale. Si tratta dunque, più che di astratte lettere alfabetiche, di pittogrammi, che ricordano vagamente i geroglifici egiziani(15).
     Che questi disegni non costituiscano un fatto episodico (nello stesso periodo, del resto, Michaux ne produce altri simili), ma si spieghino con un ritorno di interesse per il problema della nuova lingua è suggerito da una circostanza che risale a qualche anno prima. Nella lista dei libri dello stesso autore che compariva in Plume, nel 1938, venivano indicati anche i titoli dei volumi “in preparazione”, tra i quali figurava il seguente: Rudiments d’une langue universelle idéographique contenant neuf cents idéogrammes et une grammaire(16). È vero che l’opera annunciata non ha mai visto la luce, ma ciò non toglie che il suo argomento coincida davvero con un progetto, o un sogno, ricorrente nell’immaginario dello scrittore.

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     3. A riattivare in Michaux il bisogno di esprimersi con segni non alfabetici ha contribuito, per sua stessa ammissione, il lungo viaggio da lui compiuto in Estremo Oriente. Questa esperienza, narrata in Un barbare en Asie, lo ha posto di fronte ad un mondo in cui comunicare attraverso i tratti (in quei paesi scrittura e disegno sono strettamente apparentati) costituisce un fatto del tutto spontaneo. “Anch’io sono stato in Giappone. Menomato chi, laggiù, non sa significare con dei segni. Dei segni grafici. Menomato, riparto menomato. Choc e vergogna”(17). È da un testo postumo che ci viene il migliore chiarimento di ciò a cui l’autore si riferisce; vale la pena di citarlo con ampiezza: “Il mio battello fece scalo in un porto giapponese […]. Entrai in un bar. Una ragazza – è l’uso, laggiù – venne a sedersi accanto a me, solo per farmi compagnia. Piuttosto allegra, in quel luogo pubblico. Io, un blocco barbarico. Lei, tutta grazia e gentilezza, dirigendo su di me un infantile, instancabile sorriso. Imbarazzato, avvertivo un titillio di affabilità.  Dopo aver tentato (inutilmente) le parole e abbozzato (con difficoltà) dei gesti esplicativi, il desiderio di comunicare ritornava fra noi come un grande spazio vuoto. Lei, divertita, per sapere da dove venissi, da quale battello, attraverso quale itinerario, si mise a farmi dei disegni, semplici, che probabilmente anche un bambino, almeno al suo paese, avrebbe potuto capire, chiedendomi di dirle con lo stesso mezzo grafico quante ore o giorni sarei rimasto, ecc., ecc.  Mi tendeva la matita perché potessi rispondere. Nell’istante in cui cominciò a tracciare le linee, tratti significativi e che non avrebbero dovuto essermi estranei, tratti davvero universali, ricevetti come un colpo di sbarra di ferro sulla nuca […]. Quell’istante finiva col disarcionarmi senza pietà dalla mia cultura verbale. Non ero che un sottosviluppato. Una ragazza ignara delle scienze mi aveva appena dato una lezione. […] Senz’ombra di vanità, come se la cosa andasse da sé, con la facilità di una seconda natura, di un’educazione estesa a tutti, aveva eseguito i tratti voluti. Era come lo scattare di un riflesso. Mi ero imbattuto in una civiltà del disegno, e più precisamente in una civiltà della rappresentazione tramite il grafismo”(18).
    Forse è stato proprio questo episodio a spingerlo, dopo il ritorno in Francia, a riprendere con maggiore energia il tentativo di trovare dei segni semplici, quelli che la ragazza giapponese sembrava conoscere alla perfezione e che potrebbero costituire le basi di una lingua visiva accessibile a chiunque.
     Ma ancor prima di giungere in Giappone c’era già stato l’incontro, in Cina, con la scrittura ideografica, che sembra aver esercitato su Michaux un effetto, al tempo stesso, di fascinazione e di delusione. In questa scrittura, infatti, lo ha colpito lo straordinario amore per i particolari, ma anche l’assenza di caratteri semplici, riconoscibili. “La lingua cinese, che avrebbe potuto essere universale, non ha mai varcato, fatta eccezione per il Giappone e la Corea, le frontiere della Cina, e anzi viene considerata la più difficile di tutte. Il fatto è che non ci sono neanche cinque caratteri su ventimila che sia possibile indovinare a prima vista, all’opposto dei geroglifici egiziani, i cui elementi, se non l’insieme, sono facili da riconoscere”(19). Questa osservazione ci aiuta fra l’altro a capire perché le illustrazioni dell’Alphabet di Exorcismes, pur essendo legate al progetto di una “lingua universale ideografica”, risultino, come si è detto in precedenza, più simili alla scrittura geroglifica che agli ideogrammi dell’Estremo Oriente. Sarà solo più tardi che, arricchito da altre esperienze, Michaux tornerà a guardare con occhi diversi alla maniera cinese di rapportarsi al segno.
     Vale la pena di ricordare il brano che conclude le annotazioni di Un barbare en Asie relative alla Cina, e che appare dapprima fuori contesto, giacché parte dall’osservazione di un gruppo di bambini occidentali intenti a giocare. “Il primo piacere che i bambini traggono dall’uso dell’intelligenza è ben lungi dall’essere il giudizio o la memoria. No, è l’ideografia. Mettono un’asse di legno per terra, e l’asse diventa una nave, convengono che è una nave, ne aggiungono un’altra più piccola, che diventa passerella o ponte. […] Il segno è lì, evidente per chi lo ha accettato, e che sia il segno, e non la cosa, è proprio questo a renderli felici. La sua maneggevolezza affascina la loro intelligenza, perché le cose reali sono molto più ingombranti. Nel caso di cui parlo, era evidente. Quei bambini giocavano sul ponte di una nave. È curioso che questo piacere del segno sia stato per secoli e secoli il grande piacere dei Cinesi, e il nucleo stesso del loro sviluppo”(20). Per Michaux, infatti, i bambini sono istintivamente portati all’ideografia, e la migliore dimostrazione di ciò ci viene dall’esame dei loro schizzi, realizzati quando ancora non sono in grado di disegnare nel modo che gli adulti giudicano corretto: “Il bambino avanza nel mondo delle masse che ovunque si esprimono, avanza, arrischia un fragile segno. La prima testa da lui disegnata, così leggera, di un’intelaiatura così fine! Quattro esili fili, un tratto che altrove sarà gamba o braccio o albero di nave, un ovale che è bocca così come occhio, e questo segno è il tentativo più giovane e più vecchio dell’umanità, quello di una lingua ideografica, l’unica lingua davvero universale, che ogni bambino in ogni parte del mondo reinventa”(21). Come si vede, l’autore è pronto a imparare da chiunque, giacché si tratta per lui non soltanto di trovare la via verso una forma di rappresentazione grafica che soddisfi le sue esigenze espressive, ma anche di compiere un passo avanti in direzione di una possibile lingua universale dei segni.

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     4. C’è un’altra lezione della Cina che Michaux assimilerà subito e senza riserve: quella della pittura. Di essa lo colpisce la capacità di cogliere gli aspetti essenziali della realtà e di evidenziare in maniera efficace il movimento. “La pittura cinese è più che altro di paesaggio. Viene indicato il moto delle cose, non la loro consistenza e il peso ma, per così dire, la linearità”(22). Quest’arte riesce a semplificare le apparenze del mondo visibile senza perdere nulla della loro sostanza e vitalità: “La pittura cinese sembra la natura stessa, non perché i quadri la riproducano in modo illusionistico, ma proprio al contrario perché il pittore deve coglierne le armonie profonde, essenziali. Stare tre mesi sulla montagna e dipingerla con tre soli tratti di pennello. Il primo precetto d’un trattato sulla pittura, Il giardino del granello di senape, è il seguente: ‘Delle cose, degli esseri, cogliete il movimento vitale’”(23).
     Il viaggio in Cina ha offerto a Michaux la spinta che gli mancava, inducendolo a praticare il disegno e la pittura con sempre maggiore convinzione e secondo modalità diverse da quelle correnti in ambito occidentale. “È la pittura cinese che penetra in me in profondità e mi converte. Dal momento in cui la vedo, sono definitivamente conquistato dal mondo dei segni e delle linee. Le lontananze preferite alla vicinanza, la poesia dell’incompletezza preferita al resoconto, alla copia. Ecco che i tratti gettati sul foglio, volteggianti, come colti dal movimento di un’improvvisa ispirazione e non tracciati in modo prosaico, laborioso, esaustivo, da funzionario, mi parlavano, mi seducevano, mi trasportavano. Questa volta la causa della pittura era vinta”(24).
     Michaux non è certo l’unico artista della sua generazione ad aver subito con forza questo particolare influsso. Basti pensare ad André Masson, la cui produzione reca il segno evidente della scoperta della pittura cinese e giapponese. In un testo dal titolo Une peinture de l’essentiel, egli stesso ha spiegato i modi del suo avvicinamento all’arte orientale, dapprima tramite i libri illustrati e poi (durante il soggiorno in America) in modo più diretto, grazie alle visite al museo di Boston, che vanta una ricca collezione di opere cinesi. Proprio come Michaux, Masson vede in quest’arte una “suprema espressione dell’essenziale”, e non manca di rilevarne la componente segnica: “Si sa quanto la scrittura, in Cina come in Giappone, sia legata all’esercizio della grande pittura. Non vi è esempio – ed è inconcepibile – di un pittore eminente che non sia anche un grande calligrafo […]. Più precisamente: quel che vi è di ammirevole nell’ideografia cinese è proprio il fatto che è pittorica”. Egli contrappone alla visione occidentale dello spazio, inteso come fisso e idealmente delimitato da una finestra o cornice, quella del “pittore cinese, che ha familiarità con l’infinito” e dispone le sue forme liberamente, conferendo loro fluidità e respiro(25). Non a caso, dunque, in tutta una fase della sua pittura Masson farà ricorso alla tecnica (desunta dagli antichi artisti cinesi) della macchia di colore prodotta sul foglio o sulla tela quale stimolo per creare nuove immagini, e realizzerà una serie di quadri popolati da segni ideografici di sua invenzione, segni che, pur essendo privi di significato dal punto di vista linguistico, risultano assai simili, per aspetto e per eleganza formale, a quelli che appaiono nelle opere calligrafiche dell’Estremo Oriente.
     Partendo verosimilmente dagli stessi modelli, anche Michaux giunge all’impiego di queste due tecniche. Ecco come racconta la sua scoperta della macchia: “In che momento ho smesso di disegnare col pennello? Prima di usare l’inchiostro senza problemi, passa del tempo. Finalmente un giorno vado giù deciso. Lo faccio sgocciolare, a scatti, dalla bottiglia aperta. E che si sparga pure, adesso […]. Questo sporco flutto nero che sguazza e demolisce la pagina e il suo orizzonte, attraversandoli in modo cieco, stupido e intollerabile, mi obbliga a intervenire. Ai moti di collera che suscita in me, mi riprendo, lo riprendo, lo divido, lo lacero, lo caccio via. La grossa macchia bavosa non la voglio, la rifiuto, la disfo e la sparpaglio. Ora tocca a me! I gesti ampi che faccio per sbarazzarmi delle pozze concorrono naturalmente a esprimere grandi disgusti, grandi esasperazioni; sono espressivi. Bisogna far presto. I cupi pseudopodi che in pochi istanti escono dalle macchie gonfie d’inchiostro mi costringono a vederci chiaro subito, a decidere al momento”(26).
     La descrizione evidenzia l’emergere di un fattore sostanzialmente estraneo all’idea occidentale di pittura, ma tipico invece di quella cinese e giapponese: la velocità di esecuzione. Di questa rilevante peculiarità dell’arte dell’Estremo Oriente si è accorto un altro artista francese, Georges Mathieu, che l’ha segnalata sul piano teorico e l’ha posta alla base del proprio operare: “Dal punto di vista fenomenico, l’atto del dipingere sembra rispondere […] alle seguenti condizioni: 1° primato concesso alla sveltezza di esecuzione, 2° assenza di premeditazione delle forme e dei gesti, 3° necessità di un secondo stato di concentrazione. […] Alla mente occidentale tutto ciò sembra strano. D’altronde non bisogna stupirsi che esista una simile incomprensione in Occidente. La responsabilità di tutto ciò è da attribuirsi alle tradizioni di sette secoli tramandateci dai Greci. L’introduzione della rapidità nell’estetica occidentale mi pare sia un fenomeno di capitale importanza. Naturalmente è derivata dal fatto che la pittura si libera sempre più dai riferimenti: riferimenti alla natura, ai canoni di bellezza, a un abbozzo preliminare. La rapidità significa dunque abbandono definitivo dei metodi artigianali della pittura a favore di metodi di creazione pura”(27). Anche se Michaux potrebbe sottoscrivere, in linea di massima, queste affermazioni, occorre segnalare da un lato la sua minore propensione ad un’arte che sia per principio “astratta” e dall’altro la sua accentuazione dell’idea di movimento: “Sono uno che ama il movimento, il movimento che spezza l’inerzia, imbroglia le linee, disfa gli allineamenti, mi libera dalle costruzioni.  Movimento come disobbedienza, come rimpasto”(28).

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     5. A dimostrazione di ciò, nel 1951 egli pubblica uno strano volume che s’intitola appunto Mouvements(29).  Comprende sessantaquattro pagine illustrate e un testo poetico che in qualche modo le commenta. I disegni presentano delle figure, perlopiù antropomorfe (anche se non sempre riconoscibili come tali, poiché ridotte a pochissimi tratti o macchie), colte nei movimenti più diversi. Esse appaiono isolate l’una dall’altra e disposte in modo simmetrico, sicché di solito in ogni pagina compaiono tre o quattro file, ognuna composta da tre o quattro figure.  L’origine dell’opera viene spiegata da Michaux nella postfazione al volume, in cui si legge: “Non so troppo bene cosa siano, questi segni che ho fatto. Qualcun altro, a distanza, avrebbe potuto parlarne meglio. Avevo coperto con essi milleduecento pagine, e non vi vedevo altro che flutti, quando René Bertelé se ne impadronì e, procedendo a tastoni e riflettendo, vi scoprì una specie di sequenze… e il libro che vedete è più opera sua che mia. Ma i segni? Ecco: mi si spingeva a riprendere di nuovo le mie composizioni di ideogrammi, già molte volte riprese da vent’anni a questa parte e abbandonate in mancanza di un’effettiva riuscita, obiettivo questo che sembra in effetti far parte del mio destino, anche se solo per adescarmi e affascinarmi. Provai di nuovo, ma a poco a poco le forme ‘in movimento’ eliminarono quelle pensate, i caratteri composti. Perché? Mi dava maggior piacere il farle. Il loro movimento diventava il mio. […]  Ero posseduto dai movimenti, tutto teso da quelle forme che mi arrivavano a gran velocità, e ritmate. Un ritmo, spesso, dominava la pagina, a volte varie pagine di seguito, e più segni venivano (certi giorni quasi cinquemila) più vivi erano”(30).
     Michaux dunque collega i suoi nuovi esperimenti agli alfabeti o pittogrammi in cui si era cimentato in precedenza, pur non chiamando in causa l’idea della lingua universale. Per contro, è ben chiara la contrapposizione tra questi segni inediti e quelli su cui si basa la normale comunicazione: “È proprio perché mi hanno liberato dalle parole, queste compagne appiccicose, che i disegni sono slanciati e quasi gioiosi, che i loro movimenti sono stati per me facili da fare, anche quando sono esasperati. Perciò io vedo in essi – nuovo linguaggio, che volge le spalle a quello verbale – dei liberatori”(31). Le figure che ora Michaux produce con così grande facilità e abbondanza non sono parole, ma neppure semplici disegni; sono piuttosto, come dice il testo poetico che le accompagna, “segni per ritrovare il dono delle lingue / o almeno la propria”(32). Questa lingua sarà fatta ormai di tratti che, sotto il profilo visivo, cominciano a somigliare agli ideogrammi orientali, e che sono pittorici in quanto (proprio come la pittura cinese) sanno ridurre le apparenze del reale alla loro essenza, essenza fatta non di stasi ma di movimento, di “desiderio cinetico”(33).
     Il contesto entro cui si situa questo tentativo di Michaux viene chiarito da un altro scritto, uscito pochi anni dopo in rivista col titolo Signes(34). In esso, l’autore esordisce notando che la natura e gli uomini sono difficilmente decifrabili, proprio per il fatto che esibiscono un proliferare di segni. Ma come in un “teatro autentico” tale molteplicità viene ridotta ponendo sul volto degli attori una maschera, cioè un unico segno identificativo, così avviene nella lingua scritta quando si ricorre alla pittografia. Il discorso di Michaux non è, come si potrebbe pensare, riferito a civiltà antiche o collocate in un altrove esotico, bensì, almeno nelle intenzioni, ispirato all’attualità: “La maschera e il segno pittografico hanno in comune un’ammirevole rigidezza. Ecco, a quanto sembra, il materiale che ci occorre in questo secolo duro, non più parole costruite sulla base liquida dei suoni ma segni precisi, di cui occorra essere il meccanico e non il violinista”. Lo dimostrano scienze come la matematica o la chimica, che non saprebbero rinunciare all’impiego, rivelatosi estremamente vantaggioso, di segni convenzionali non costituiti da parole. “Dal momento che in quest’epoca di ingegneri occorre una lingua nuova, perché non pensare ad una che sia interamente costruita per essere un utensile fatto di segni (e non, al tempo stesso, flauto e utensile), con legature polivalenti, che consentano sovrapposizioni precise e vasti sviluppi, senza essere ingombrata dai significati antichi?”.
     Come spesso accade in Michaux, non appena si crede di aver capito come andrà a concludersi il ragionamento, ci attende una brusca svolta. Nella frase citata pareva di sentir parlare un futurista d’inizio Novecento, oppure un linguista speranzoso di creare un nuovo idioma artificiale, ma ciò che segue sposta il discorso su un terreno assai diverso: “È strano che i segni appaiano in pittura. Certo non per creare una lingua universale, anzi non è neppure sicuro che si tratti proprio di segni. Rappresentano piuttosto l’ossessione segnica”. Gli esempi forniti sono quelli di due artisti che, per quanto diversi fra loro, praticano una pittura orientata in tale direzione: Giuseppe Capogrossi e Georges Mathieu. Il terzo esempio non può che essere costituito dal Michaux di Mouvements. L’autore ribadisce che in quell’opera si trattava per lui di rappresentare dei gesti, anche se “gesti interiori, quelli per cui non abbiamo membra ma desideri di membra, tensioni, slanci”. Pur allontanandosi spesso da un’immagine riconoscibile della forma umana, i tratti da lui dipinti raffiguravano movimenti, cosa che Michaux riconosce adesso come un limite:  “Tutto questo era forse un sottrarsi di fronte al segno, a ciò che esso ha di ricco, di fisso, di comunicabile, giacché permette di ricevere e anche di dare. Il segno, senza la rappresentazione dell’uomo, il segno ‘di situazione’, ecco ciò che non avevo neanche iniziato a trovare. Che emozione sarà quando, essendo giunti i tempi al momento sperato, e avendo acquisito l’abitudine di pensare per segni, ci si scambierà dei segreti con pochi tratti ‘al naturale’, simili a un pugno di fuscelli”. In questo testo, dunque, Michaux si mostra affascinato dal problema del segno, ma incerto nel giudicare la natura dei tentativi propri e di altri pittori. Infatti quelli che essi producono non sono esattamente pittogrammi e neppure ideogrammi; alludono forse a una nuova forma di comunicazione visiva, ma solo in quanto ne manifestano il desiderio, desiderio il cui appagamento deve necessariamente essere rinviato ad un futuro incerto e remoto.
     Un’impressione analoga viene suscitata da un’altra opera di Michaux, Parcours, edita nel 1966: non si tratta di un libro, ma di una cartella che riunisce dodici acqueforti(35). Anche qui, come in Mouvements, i segni, benché assai più fitti e numerosi, sono disposti sui fogli in modo da formare righe o colonne, in una grafia che allude di volta in volta agli “alfabeti”, agli ideogrammi, ad una sorta di “aste” rielaborate, a pittogrammi di corpi umani in movimento. È sempre in causa una scrittura che si cerca, e che anzi sembra invocare, per poter assumere una funzione non solo estetica ma anche comunicativa, la collaborazione del lettore.

[…]

[Tratto da: Giuseppe Zuccarino, Percorsi anomali, Pasian di Prato (UD), Campanotto Editore, “Le carte francesi”, 2002]

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NOTE

(1) Chronique de l’aiguilleur (1922), in H. Michaux, Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1998-2001 (d’ora in poi abbreviato in Œ. C. e seguito dal numero del volume), I, pp. 9-15.
(2) Per le citazioni, cfr. ibid., pp. 11-13.
(3) Su tutto ciò, cfr. U. Eco, La ricerca della lingua perfetta, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 348-354.
(4) A. Rimbaud, lettera a Paul Demeny del 15 maggio 1871, in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1972, p. 252 (tr. it. in Opere, Milano, Mondadori, 1975, p. 455).
(5) G. Apollinaire, La victoire, in Calligrammes. Poèmes de la paix et de la guerre (1913-1916), in Œuvres poétiques, Paris, Gallimard, 1956, pp. 310-312 (tr. it. La vittoria, in Opera poetica, Milano, Guanda, 1976, pp. 543-549).
(6) V. Chlebnikov, I nostri fondamenti, tr. it. in “Il Verri”, 31-32, 1983, pp. 65-70. Ai due fascicoli 29-30 e 31-32 di questa rivista, interamente dedicati alla zaum’, rimandiamo per un inquadramento generale dell’argomento. Di Chlebnikov, cfr. anche il volume Poesie (tr. it. Torino, Einaudi, 1968; ried. 1989).
(7) Le grand combat, in Qui je fus, in Œ. C., I, p. 118. I versi vengono così “tradotti” da Ivos Margoni: “Lo imparoglia e lo indosca giù per terra; / Lo raga e lo ropetta fino al dragolo; / Lo pratella lo libucca gli sbaruffla le uoglie; / Lo stoccarda e lo smarmina, / Lo managgia a straparì e a straparà. / Infine, lo scorcobaliscia. / L’altro esita, s’espalverina, si disfassa, si torsola e rovina. / Fra poco sarà finito; / Si ripresa e s’immargina… ma invano / Il cerchio che ha girato tanto cade” (La grande lotta, in H. Michaux, Lo spazio interiore, Torino, Einaudi, 1968, p. 21).
(8) Cfr. R. Bertelé, Henri Michaux, Paris, Seghers, 1946; 1988, p. 12.
(9) M. Yaguello, Les fous du langage. Des langues imaginaires et de leurs inventeurs, Paris, Éditions du Seuil, 1984, p. 131.
(10) Cfr. Recherche dans la poésie contemporaine, in Œ. C., I, cit., p. 976.
(11) Al riguardo si può rinviare al volume collettivo Passages et langages de Henri Michaux, Paris, Corti, 1987, e in particolare ai saggi di Jean-Claude Mathieu, Michelle Tran Van Khai, Pierre-Jean Founau e Marie-Claire Dumas.
(12) I due lavori sono riprodotti nel catalogo Henri Michaux. Peindre, composer, écrire, a cura di Jean-Michel Maulpoix e Florence de Lussy, Paris, Bibliothèque nationale de France – Gallimard, 1999, pp. 36-37.
(13) M. Butor, Les mots dans la peinture, Genève, Skira, 1969 (tr. it. Le parole nella pittura, Venezia, Arsenale, 1987, pp. 164-165). Numerosi altri esempi di caratteri inediti, ideati dagli artisti per le loro opere, sono ricordati o riprodotti in P. Albani e B. Buonarroti, Aga magéra difúra. Dizionario delle lingue immaginarie, Bologna, Zanichelli, 1994 (libro che costituisce un utile testo di riferimento per tutti i temi trattati nel presente saggio).
(14) H. Michaux, Émergences-Résurgences, Genève, Skira, 1972; 1993, pp. 13-14 (tr. it. Emergenze-Risorgenze, in H. Michaux, Sulla via dei segni, Genova, Graphos, 1998, p. 10).
(15) Cfr. Alphabet, in Œ. C., I, cit., pp. 785-786 e, per le illustrazioni, pp. 931-933.
(16) Cfr. R. Bellour, Introduction, in Œ. C., I, p. XLIII.
(17) Émergences-Résurgences, cit., p. 16 (tr. it. p. 11).
(18) H. Michaux, Japon 1929, in Parenthèse suivi de Faut-il vraiment une déclaration?, Paris, L’Échoppe – La maison des amis des livres, 1998, pp. 23-26 (la data contenuta nell’incipit – il testo non ha titolo – sembra dovuta a un errore di memoria, perché il viaggio dell’autore in Giappone è avvenuto in realtà nel 1932).
(19) Un barbare en Asie (1933), in Œ. C., I, cit., pp. 365 (tr. it. Un barbaro in Asia, Torino, Einaudi, 1974, pp. 128-129).
(20) Ibid., p. 386 (tr. it. p. 158).
(21) Enfants (1938), in Passages (1950), in Œ. C., II, p. 302. L’autore dedicherà in seguito ai disegni infantili un testo più ampio, Les commencements, Montpellier, Fata Morgana, 1983, poi ripreso, col titolo Essais d’enfants, dessins d’enfants, in Déplacements, dégagements, Paris, Gallimard, 1985, pp. 53-80 (tr. it. Disegni di bambini, in Sulla via dei segni, cit., pp. 31-46).
(22) Un barbare en Asie, cit., p. 364 (tr. it. p. 128).
(23) Portrait du Chinois (1937), in Œ. C., I, cit., p. 541.
(24) Émergences-Résurgences, cit., p. 16 (tr. it. p. 11).
(25) Cfr. A. Masson, Une peinture de l’essentiel (1956), in Le rebelle du surréalisme. Écrits, Paris, Hermann, 1976, pp. 170-176 (tr. it. Una pittura dell’essenziale, in “Arca”, 17, 1994, pp. 12-18).
(26) Émergences-Résurgences, cit., pp. 55-59 (tr. it. pp. 18-19).
(27) G. Mathieu, D’Aristote à l’abstraction lyrique (1959), cit. in G. Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi. Dall’Informale al Postmoderno, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 191-192.
(28) Émergences-Résurgences, cit., p. 65 (tr. it. p. 19).
(29) Mouvements (ripreso nel 1954 in Face aux verrous), in Œ. C., II, pp. 435-441 e pp. 531-599. Già nel 1944 l’autore aveva realizzato degli “alfabeti” che anticipano l’esperienza di Mouvements (cfr. Henri Michaux. Peindre, composer, écrire, cit., p. 101).
(30) Ibid., p. 598.
(31) Ibid., p. 599.
(32) Ibid., p. 441.
(33) Ibid., p. 440.
(34) Signes (1954), in Œ. C., II, pp. 429-431. Le citazioni che seguono sono tratte da questo breve testo.
(35) H. Michaux, Parcours, Paris, Le Point Cardinal, 1966; tre delle acqueforti sono riprodotte in Henri Michaux. Peindre, composer, écrire, cit., pp. 158-159.

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1 commento su “Scritti su Henri Michaux (II) – di Giuseppe Zuccarino”

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