C’è il senso di una costante e dolorosa propensione all’accoglimento dell’improvviso mutarsi e sfiorire degli eventi, in questa raccolta di Giacomo Cerrai, così pregna di interrogazioni sospese e di ombre sinuosamente ingannevoli. L’avvertimento di un vicino scivolamento verso un crepuscolo, verso l’aprirsi di una strada che indica l’interdizione e la confutazione di ogni speranza possibile conduce il poeta a tracciare un discorso dilaniato da una dolente ansietà che imprime alla lingua un ritmo sempre mosso e nervoso, dove la rilevazione di un male onnipresente sa pure trovare la forza di scorgere una paradossale dolcezza anche nella stessa disperazione (ad esempio allorquando s’intravedono lacrime che “allargano cerchi senz’eco / su quella stessa superficie, / come mine di profondità / pietose”). Una poesia tersa e pensosa, attraversata da un respiro che si esprime con il riflesso di vibrazioni intensamente drammatiche, già consapevoli dell’esperienza di una perdita irreparabile, il cui spettro si mostra dietro ogni passaggio, come un’interna e incancellabile ossessione. (Mario Fresa, dalla Nota introduttiva)
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Mi succede sempre, le rare volte che ho la possibilità di leggere nuovi testi di Giacomo Cerrai (l’estrema parsimonia dell’autore nel mostrarsi è la naturale, diretta conseguenza di una precisa opzione, una scelta di carattere etico che investe il rapporto con la parola e si traduce in quel rigoroso e imprescindibile lavoro sulla lingua e le sue possibilità espressive che ne caratterizza tutta la produzione poetica e critica): mi succede, dicevo, di pensare, con crescente convinzione, che la sua sia, ormai, una scrittura indispensabile. (fm)
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[Qui altri testi di Giacomo Cerrai presenti sul blog]
Testi
Ritenevi tra le dita arricciata
una pagina in una
piccola spirale…
«c’è qualcosa che incanta – dicendo –
come se lo sguado smarrisse
inizio e fine».
Sospeso il dire quanto l’accomodarsi
in file quiete di libri
gli oggetti casalinghi
in perimetri a lungo calpestati
d’una scatola.
Era – il fatto irrilevante –
un vuoto difficile da colmare,
la replica impossibile d’un gesto,
quello stesso stridere di giunture era
la nostra riluttanza ad inchinarci.
Dimostravi un’essenza non vera,
come la ricerca di un sollievo,
come la vicenda di un sillabario antico,
unica azione e spazio la casa
e il vento che girava foglie morte…
*
Il gelo portava un’assuefazione
come il troppo sangue,
ingrigito alla distanza
in troppe – rapide – immagini.
«c’è una violenza – sillabai – in svendita;
forse approfittando…», e in fondo
l’oleosa quiete si muove in onde
che non turbano
gli angoli acuti della scatola,
il sottofondo di fràfràfrà
che non cessa mai.
Sollevavi gli occhi – ricordo –
da una liturgia assorta
di giornali.
Articolando, le parole precipitavano
nella memoria breve
d’un pomeriggio indistinto,
appena profferite.
Non sortii effetto alcuno,
non fece sipario
l’evocazione di un male deprezzato.
*
La metamorfosi della luce
percorre i muri, sgranando
ore e minuti più di quanto possa.
C’era un vanesio fermarsi
su imperfezioni delle cose
o polvere di polvere,
come se le cose si sgretolassero
perché prive di messaggi,
pur lasciando un’impronta
sui rimpianti.
C’è un elettrico irritarsi dell’ombra,
nel rendere imperscrutabili gli sguardi,
le offese silenziose o furtivi
movimenti labiali: «la tua assenza,
la tua assenza» spinge ai denti
il rimprovero, lo fa plausibile
ai canini.
L’io agisce, si alza, sbuffa,
attraversa il proscenio
d’un moto incontrollato,
poi plana nel contegno d’uomo.
Lei ride amara,
premendo su tasti scuri.
*
Il crepuscolo incipiente sconsiglia
perlustrazioni.
Oltre opachi coni di luce, all’ascolto
dei vetri il vibrare del’ultimo tuono
si china la testa.
C’è una divinità che non ascolta,
spoglia gli alberi e il giorno,
spoglia la vita stessa.
Si nasconde in noi e non ci prega.
Se conti i secondi tra silenzio e ombra
capisci che lentamente s’allontana.
È la stessa decadenza della voce,
un tetano che serra le mascelle,
nulla che possa impedire,
senza la quiete del dopo,
il sorpassare d’una soglia.
Sul tardi, il trattenersi d’un gesto blando
ha la sua scrittura in inutili corsivi.
*
L’acume di che parli si spinge
oltre le braccia incrociate
in spazi indifendibili, oltre
i nodi delle piante puntute,
i confini proprietari dei giardini.
Risponde per me il merlo
beffeggiatore (1)
fugge a innocui rumori,
divaga, irride
a falsi movimenti
colti appena dalla fòvea gialla.
L’acume, come
un notturno metallico
che trapassa il timpano,
spinge ancora più lontano
chi fugge,
con il gorgoglìo acquoreo
di chi affonda,
le spalle voltando alla superficie.
Il ferro delle parole non giunge,
non giunge implorazione
né blandizie.
Lacrime allargano cerchi senz’eco
su quella stessa superficie,
come mine di profondità
pietose.
[(1) W. Faulkner, La paga dei soldati: in realtà F., nelle sue magnifiche descrizioni d’ambiente, parla di un tordo beffeggiatore (Mimus polyglottus, engl: mockingbird) e non di un merlo.]
*
Il tempo trascorso non è enumerabile,
l’oscurità non è giunta
per lunghe filze di minuti
o scatti di meccanismi occulti.
Il buio accade, si prosciuga
di lune come la bocca stessa,
di suoni come disperdersi nel petto
di qualche vibratile onda.
Loro sono dune lunghissime
sotto l’esaurirsi di tempeste,
sotto il ridefinirsi,
ai frangenti d’ombra,
d’un altro giorno anonimo.
C’è una natura,
in loro in noi,
che non permette esiti finali.
C’è un’esecuzione incessante
di maschere, una costante anomia
del cuore.
La quiete è terreno incolto,
si attraversa trattenendo il fiato
un deserto
che il vento delle promesse
spazza…
***
caro Francesco, ti ringrazio davvero infinitamente. Avevi ragione quando mi hai scritto “una parola ti sorprenderà”. Non solo mi ha sorpreso e lusingato, mi ha anche atterrito perchè richiama senza appelli ad una etica nel fare poesia che so essere ineludibile nella tua visione, nella tua “disciplina” come l’ho chiamata una volta.
un abbraccio
G.
La vena di Giacomo si conferma quella di una trattenuta elegia, di un pudore, come osservano Matrio fresa e FM, che è la cifra dell’autore; nei testi qui un omaggio sommesso al miglior crepuscolarismo ma soprattuto una maestria tecnica che, concordo, ha raggiunto l’acme, un abbraccio, V.
Sono felice di questo post e mi dispiace essere così di fretta. non vedo l’ora di sistemare tutto per tornare a leggerlo con calma ed esprimere la mia stima per il lavoro di Giacomo e per la sua persona.
ritorno.
un abbaccio, n.
acc…Mario Fresa, ovviamente..-);
Ribadisco che, per me, quella di Giacomo Cerrai è una delle scritture poetiche più belle (interessanti e colte: inter-esse + cultum) che sia dato leggere. E ha anche, al di là di tutto, un valore intrinsecamente *ecologico* e *apotropaico*: serve a tenere lontana la marea montante di spazzatura in versi che tracima dalla rete e dalle quintalate di libri, assolutamente inutili, che si continua a pubblicare, in una sorta di orgiastica corsa all’accumulo di “a capo prima della fine del rigo”, senza pudore e a sprezzo di qualsiasi senso del ridicolo.
Peccato, però, perché il nostro rimane, nonostante gli sforzi, un paese di analfabeti felici: tutti scrivono, nessuno – o pochissimi – legg/e/ono.
fm
Concordo pienamente con l’ultimo intervento di Francesco. La scrittura di Guido Cerrai è una delle più interessanti che si possano leggere. Ho avuto modo di apprezzarlo in “Vicino alle nubi sulla montagna crollata” grazie alla mediazione di Enrico Cerquiglini e da allora lo leggo e lo seguo sempre con piacere. Com’è rara la parsimonia tra i poeti, sommersi da migliaia di raccolte all’anno…
Un caro saluti
C’è un espressionismo austero, nei versi di Giacomo, che non si discosta da quello, più franto e metafisico, di Francesco. Sul valore apotropaico di certe scritture non posso che concordare. Oggi, incontrando a pranzo un amico, ci siamo interrogati sul grande invito di Epicuro: “Vivi nascosto”. La natura ama nascodersi, come a volte la bellezza di certe scritture ed esperienze vitali.
Un abbraccio a entrambi, Marco.
Tutto ciò che viene covato nell’ombra, se è veramente autentico, quando emerge al giorno deve lasciare sul volto della luce una traccia indelebile del suo passaggio.
La luce di questo poemetto è materiata d’ombre. Un corpo unico con esse.
fm
Anche io sento una somiglianza fra questa scrittura e quella di Francesco.
Il che, per me, è un merito non da poco per entrambi.
Da custodire.
Francesco t.
Siete proprio sicuri???
Il giorno in cui riesco a scrivere un testo come “Il tempo trascorso non è enumerabile” ne riparliamo…
Grazie, comunque. Io il libretto l’ho letto una trentina di volte, e ne sono uscito sempre con qualcosa di nuovo, di inatteso: col senso della vera poesia addosso.
fm
una promessa è un piacere da mantenere.
La quiete è terreno incolto,
si attraversa trattenendo il fiato
un deserto
che il vento delle promesse
spazza …
Un tempo presente che appare indefinito nel computo totale di un’esistenza che s’intaglia di assenza e privazione attraverso i giorni e le ore, richiamando passato e presente all’appello di una rassegnata memoria che è quiete apparente e consapevole della sua stessa caducità ed incompiutezza.
Attimi di vita strappata ed intagliata nel ricordo della (di lei) voce che entra nel “racconto lirico” come una lama, come un lacerante suono nella mente e che supera gli occhi che si fermano sulla polvere degli oggetti di un sempre carico di sensi/segni nel procedere quotidiano.
Un esistenzialismo espresso in modo razionalmente meditativo ed al contempo con la massima cura nell’evoluzione lirica del verso, indica con precisione la visione di una strada senza sbocchi, un cammino temporale frastagliato d’oggetti e ricordi che non tradiscono abbandoni nostalgici e melensi, bensì una presa di coscienza netta e decisa seppur dolorosa, di un’impossibilità d’essersi compiutamente se non nella propria incorrotta solitudine.
Un fare poesia che va oltre la massa, oltre gli abbandoni, le sovrastrutture, il debordare d’intimismi e di affanni, una poesia intima sì ma precisa, dignitosa, matura, sferzante, ritmica … una poesia diversa, non inquadrabile in schemi poetici esistenti, che la rende unica, originale, pura.
Quanto all’accostamento con Francesco Marotta, beh, per mio limite mi viene difficile paragonare la poesia di due voci sia pure dello stesso tempo, mi piace invece scoprirne singolarmente le distinte manifestazioni; mi limito quindi a cogliere in essi solo somiglianze “deontologiche” nella postura e nel rispetto per la poesia stessa e per la conoscenza in senso lato, che ne fanno un faro per i piccoli – come la sottoscritta – che sappiano di essere tali, armandosi di buona volontà.
un abbraccio caro a Giacomo e Francesco e complimenti sinceri a Mario Fresa per la bellissima lettura del lavoro di Giacomo qui proposta.
n.c.
Complimenti a te: un commento veramente bello e centrato.
Un abbraccio.
fm
p.s.
Lascia stare i “piccoli” e i “grandi”: non esistono: soprattutto i secondi…
p.s.: per me è importante ricordarmelo sempre. un bacio. ;-)
devo ringraziare gli amici intervenuti, tutti molto acuti (rima non voluta) e anche generosi. A Viola, che già altre volte ha richiamato un certo crepuscolarismo, ho risposto per altra via che purtroppo il crepuscolo è finito e siamo già a notte fonda, di questi tempi. Questo ci porta, in un certo senso, al discorso del valore apotropaico, che non so se è mio, ma comunque è di molta poesia contemporanea (o forse della poesia e basta). Il punto è che io stesso non sono convinto, io stesso non ho ancora chiaro se le ombre siano da esorcizzare o se al contrario sia necessario entrarci dentro con tutti i piedi. Certo, un bisogno in questo senso ce l’ho, di andare un pò più dentro, almeno per quanto riguarda le mie personalissime ombre. In quanto a quelle che allunga la marea montante di cui parla Francesco Marotta, credo che serva da parte di tutti un lavoro onesto e un buon esercizio della critica, forse la cosa che manca di più.
un abbraccio a tutti e grazie ancora
Giacomo
oops, il mio commento si è incrociato con quello di Natàlia. Aggiungo quindi i miei ringraziamenti anche a lei, che dice cose molto gentili, e molto interessanti. “Deontologico” è un bel complimento :), grazie Nat!
….
C’è una natura,
in loro in noi,
che non permette esiti finali.
C’è un’esecuzione incessante
di maschere, una costante anomia
del cuore.
La quiete è terreno incolto,
si attraversa trattenendo il fiato
un deserto
che il vento delle promesse
spazza…
Poesie di una essenzialità che ossigena e che suscitano in me sentimenti di gratitudine e consolazione.
Se è vero che i versi di un poeta parlano in qualche modo di lui allora posso dire che questa sera è stato bello passare di qui ed incontrare Giacomo … grazie di cuore.
Con profonda stima
Anto
Da un mondo di “senza voce” siamo passati ad un mondo – alla fine non meno silenzioso – in cui tutti, potenzialmente, possiamo averne una, letta più che udita ormai. Sgomenta questa marea di pensieri che ci investe da ogni punto del mondo, incessante. Ma ci sono voci, tante voci, come quella di Cerrai, che ancora parlano, ci parlano, tentano di parlare per dire qualcosa. E non è poco.
poesia che spiazza, che lascia parlare le cose, gli oggetti intorno, gli spazi del dialogo di voce-persona. grande capacità ritmico-espressiva.
complimenti anche a Mario Fresa per la sua lettura e il suo darsi agli altri; e come no a Francesco.
un abbraccio
come non sentirsi persi in questo marasma di voci? mi chiedo se c’è il pericolo che la parola perda forza. se siamo già arrivati al punto di non ritorno. forse no, c’è ancora speranza se in mezzo alla marea dilagante si riconosce una voce vera e la parola. è il caso di Giacomo che “tomo tomo chiatto chiatto” (magnifiche poesie che più le leggo e più mi sembrano belle) lotta con l’io e si fa poesia. mi pare che qui nelle ombre ci sei entrato dentro con i piedi, hai raccontato il deserto. un caro saluto e complimenti per questo lavoro. antonella
ripasso di qui per ringraziare anche le due Antonelle, Ivan, Alessandro per i loro commenti. Dalla marea o dal marasma, ripeto, non è facile uscire. Il mezzo stesso favorisce un information overload che è inversamente proporzionale all’esiguità del pubblico della poesia. Se ne esce forse, ripeto ancora, con un duro lavoro critico e selettivo da cui non è detto, ci mancherebbe, che personalmente speri di uscirne bene.
un abbraccio a tutti.
G:)
p.s. non posso dimenticare di ringraziare Roberto Matarazzo che di questo libretto ha ben curato la parte iconografica
Caro Francesco, sono molto felice di rileggere in questo spazio i bellissimi testi di Giacomo, un poeta autentico e singolarmente ritroso (ma questa è la logica conseguenza di una scelta altamente etica, così come tu osservi).
Spero, in ogni caso, che questa plaquette sia un primo “assaggio” per un prossimo, più denso capitolo della sua poesia.
Un saluto e un abbraccio a tutti,
Mario
P.S. Vorrei solo ricordare, per completezza d’informazione, che la casa editrice che ha pubblicato la raccolta di Giacomo è L’Arca Felice.
la poesia e l’acutezza di Giacomo sono un capitale da non sperperare…
l’ultimo testo, quello sul “tempo trascorso” sono la sintesi, l’esempio pratico…
un caro e affettuoso saluto,
roberto
molto bello
se mai un giorno dovessi affidarmi a qualcuno per una lettura prima di editare chiamereei sicuramente natalia
un caro saluto
c.
leggo e “scopro” solo adesso i versi di un così autentico poeta come Cerrai e ne sono felice. Respiro profondamente e mi riconcilio con la poesia che -quando c’è- mi permette una salutare ossigenazione dei sensi e del cervello.
Sempre GRAZIE a Francesco di cui condivido le polemiche affermazioni e constatazioni e complimenti a Mario Fresa, Roberto Matarazzo e a tutti gli intervenuti per i loro acuti commenti
lucetta
ogni tanto ripasso di qua…e quindi ringrazio anche Red (caro amico), Carmine e Lucetta, e naturalmente Mario, mio prefator cortese.
ciao