Modalità di lettura-scrittura in Derrida

Giuseppe Zuccarino

Tout se réfléchit dans le medium ou le speculum de la lecture-écriture…

(J. Derrida, La double séance)

Porre il problema del rapporto, o dei diversi tipi di rapporto, tra le posizioni teoriche di Jacques Derrida e la letteratura significherebbe già discostarsi, almeno in parte, dal punto di vista dell’autore. Questi, infatti, non ha mai inteso assumere gli ambiti letterario e filosofico, e i loro modi di discorso, come semplicemente delimitati o delimitabili. Ai suoi occhi non si tratta dunque, e per esempio, di fare dei testi letterari un oggetto eventuale dell’interrogazione filosofica, ma piuttosto di riflettere in primo luogo sulla linea di demarcazione che si ritiene separi le due aree culturali. Come si legge in un testo derridiano abbastanza recente, «la filosofia si trova, si ritrova allora nei paraggi del poetico, anzi della letteratura. Vi si ritrova poiché l’indecisione di questo limite è forse ciò che più la provoca a pensare. Vi si ritrova, non vi si perde necessariamente come credono, nella loro tranquilla credulità, coloro che presumono di sapere dove passa questo limite e vi si trattengono paurosamente, ingenuamente, benché senza innocenza, privi di ciò che si deve chiamare l’esperienza filosofica: una certa traversata interrogante dei limiti, l’insicurezza quanto alla frontiera del campo filosofico – e soprattutto l’esperienza della lingua, sempre tanto poetica, o letteraria, quanto filosofica».

     Non dissimile è la situazione in cui la scrittura derridiana viene a trovarsi nei riguardi della critica letteraria. La frequenza con cui Derrida chiama in causa opere comunemente ascritte alla letteratura non deve di per sé indurre a credere di potergli frettolosamente attribuire un’inclinazione a porsi nel ruolo del critico (altrettanto assurdo, del resto, sarebbe rappresentarselo come un filosofo intento ad esemplificare le sue dottrine estetiche). A complicare le cose, sta già il fatto che nei suoi libri non si riscontra una differenza di principio tra le strategie di lettura che regolano l’approccio ai testi ritenuti letterari e quelle che intervengono nel trattamento dei testi filosofici: e questo è appunto ciò che fa sì che – per limitarci a segnalare un fenomeno dei più vistosi – in certi volumi derridiani si possa passare, senza radicali soluzioni di continuità sul piano linguistico e teorico, da Husserl ad Artaud, da Platone a Mallarmé, da Hegel a Genet, per non ricordare che alcuni, a prima vista singolari, accostamenti. Ma, su un piano più generale, occorre precisare fin d’ora che per Derrida non si tratta in alcun modo di fondare o sviluppare una qualche metodologia che possa andare ad aggiungersi a quelle in uso presso la critica letteraria, ma semmai di interrogare e porre sostanzialmente in dubbio le categorie, i procedimenti e le stesse condizioni di possibilità che presiedono ad ogni discorso che si voglia semplicemente condotto sulla letteratura.

     Se dunque non sarà né utile né corretto andare alla ricerca, in questi testi, di dichiarazioni di principio che costituiscano o impostino qualcosa come un metodo critico, ciò non impedisce però di cercarvi qualche altra cosa, cui Derrida non si è mai sottratto, vale a dire una tematizzazione, diretta o indiretta, delle modalità di lettura di volta in volta adottate. Così, se non c’è testo derridiano che non si dia apertamente come lettura di altri testi (quasi a dimostrare l’inattendibilità di qualsiasi discorso che si pretenda autonomo e non si riconosca attraversato incessantemente dalle tracce di scritture allotrie), è altrettanto costante il richiamo alla necessità di vigilare con estrema attenzione sulle disposizioni teoriche, e persino sui minimi strumenti concettuali e terminologici, cui si fa ricorso nella pratica della lettura.

     Se vogliamo segnalare un primo esempio di questa attitudine autoriflessiva, possiamo rivolgerci ad un’opera del 1967, De la grammatologie. In questo densissimo lavoro – la cui forma espositiva, in certe parti quasi trattatistica, si pone in singolare contrasto con l’andamento assai più mosso e libero che sarà proprio di molti dei libri derridiani successivi – si tenta di porre su nuove basi la considerazione del linguaggio, evidenziando l’essenziale complicità che lega la nostra cultura, fin nelle teorizzazioni linguistiche e antropologiche in apparenza più avvertite, al tradizionale privilegio ostinatamente concesso alla voce rispetto alla scrittura e alla scrittura fonetica rispetto alle altre possibili forme di notazione. Questo atteggiamento, partecipe di ciò che viene qui denominato «logocentrismo», nel senso appunto di un logos che si intende (che si ascolta) come parola vivente, di cui la scrittura sarebbe solo un’esteriorizzazione secondaria e accidentale, viene ricondotto da Derrida a quella metafisica della presenza che a suo avviso domina, pressoché incontrastata, la storia del pensiero dell’Occidente. Secondo la nuova prospettiva formulata in questo libro, la possibilità stessa del linguaggio deve cessare di essere posta in connessione con la presenza e con la parola pronunciata nel presente vivente, ma va vista consistere piuttosto in quell’originario movimento di scrittura (archi-écriture) che Derrida indica, economicamente, con il termine di différance. «Il gioco delle differenze – chiarisce altrove l’autore – suppone in effetti delle sintesi e dei rinvii che vietano che in alcun momento, in alcun senso, un elemento semplice sia presente in se stesso e rinvii soltanto a se stesso. Tanto nell’ordine del discorso parlato quanto in quello del discorso scritto, nessun elemento può funzionare come segno senza rinviare a un altro elemento che, esso, non è semplicemente presente. Questa concatenazione fa sì che ogni “elemento” – fonema o grafema – si costituisca a partire dalla traccia, in esso, degli altri elementi della catena o del sistema. Questa concatenazione, questo tessuto, è il testo, che non si produce se non nella trasformazione di un altro testo. Niente, né negli elementi né nel sistema, è in nessun luogo né mai semplicemente presente o assente. Non vi sono, da parte a parte, che differenze e tracce di tracce».

     Queste teorie linguistiche restano attive nella seconda parte della Grammatologie, che è dedicata quasi per intero ad una lettura di Rousseau, incentrata soprattutto su uno scritto breve e apparentemente marginale, l’Essai sur l’origine des langues. Un passaggio, in particolare, deve richiamare la nostra attenzione, proprio perché affronta direttamente il problema del modo di rapportarsi ai testi, e non solo a quelli rousseauiani. Dopo aver condotto a riconoscere la funzione, al tempo stesso complessa ed essenziale, esercitata in Rousseau dalla parola e dal concetto di «supplemento», Derrida prosegue osservando che, in generale, «lo scrittore scrive in una lingua e in una logica di cui, per definizione, il suo discorso non può dominare in modo assoluto il sistema, le leggi e la vita propri. Non se ne serve che lasciandosi in qualche modo e fino ad un qualche punto governare dal sistema. E la lettura deve sempre mirare ad un certo rapporto, inavvertito dallo scrittore, tra ciò che questi padroneggia e ciò che non padroneggia degli schemi della lingua di cui fa uso. Questo rapporto non è una certa ripartizione quantitativa di ombra e di luce, di debolezza o di forza, ma una struttura significante che la lettura critica deve produrre».

     Se dunque il testo cessa di apparire come omogeneo, e in esso si tratta di discernere i momenti che ne confermano la solidarietà con la tradizione della metafisica dai momenti che sembrano annunciare una concettualità di tipo nuovo, occorre però rimanere coscienti del fatto che gli uni non si danno senza gli altri. Accade infatti frequentemente che sia il testo stesso a fornire gli strumenti che permetteranno di individuare i suoi limiti teorici: è quanto si verifica, secondo Derrida, non solo nel caso degli scritti di Rousseau, ma anche – per citare un altro esempio sempre esposto nella Grammatologie – in quello del Cours de linguistique générale di Saussure, i cui presupposti di tipo logocentrico e fonocentrico appaiono, per così dire, contestati dall’interno, in quanto coesistono con il riconoscimento del carattere «differenziale» del funzionamento semiologico.

     Ma se il testo non si mostra più come univoco e interamente padroneggiato da chi lo scrive, e risulta invece strutturato in modo plurivoco e conflittuale, l’evidenziazione di tale realtà non costituisce l’esito di un procedimento di tipo descrittivo, ma si propone piuttosto come un’autonoma operazione testuale. «Produrre questa struttura significante non può evidentemente consistere nel riprodurre, attraverso il raddoppiamento riservato e rispettoso del commento, il rapporto cosciente, volontario, intenzionale, che lo scrittore istituisce nei suoi scambi con la storia cui appartiene grazie all’elemento della lingua. Senza dubbio questo momento del commento raddoppiante deve avere il suo posto nella lettura critica. A non riconoscerne e rispettarne tutte le esigenze classiche, il che non è facile e richiede tutti gli strumenti della critica tradizionale, la produzione critica rischierebbe di farsi in un senso qualsiasi e di autorizzarsi a dire più o meno qualsiasi cosa. Ma questo indispensabile parapetto non ha mai fatto altro che proteggere, non ha mai aperto una lettura. E tuttavia, se la lettura non deve accontentarsi di raddoppiare il testo, essa non può legittimamente trasgredire il testo verso qualche altra cosa, verso un referente (realtà metafisica, storica, psico-biografica, ecc.) o verso un significato fuori testo il cui contenuto potrebbe aver luogo, avrebbe potuto aver luogo, al di fuori della lingua, cioè, nel senso che noi diamo qui a questa espressione, fuori della scrittura in generale».

     In questo brano Derrida sembra assumere il commento come una particolare forma di lettura, che presenta il vantaggio di mantenere un rapporto ravvicinato con il testo, ma al tempo stesso appare limitata dal suo attenersi alla presunta intenzionalità assoluta delle scelte linguistiche dello scrittore, e ancor più dal suo porsi come semplice «raddoppiamento» speculare del testo esaminato. Se la prima delle riserve avanzate da Derrida appare prevedibile, ove si consideri che a suo avviso le opzioni terminologiche e concettuali dell’autore non possono ritenersi se non in parte come volontarie e coscientemente controllate, la seconda argomentazione, estremamente condensata ed ellittica, risulta meno chiara. La critica derridiana non verterà comunque sull’effettivo darsi del commento come mera replica del testo, ma semmai sul carattere illusorio e metafisico di tale volontà di reduplicazione. Ciò che tuttavia sorprende maggiormente è il fatto che non vengano avanzate, nei riguardi della procedura commentatoria, obiezioni più gravi, e che anzi al rilievo dell’insufficienza del commento tradizionale si accompagni il riconoscimento della necessità del suo impiego almeno parziale, onde evitare il rischio dell’arbitrarietà. Eppure, per chi aveva preso le distanze, nella prima parte dell’opera, dall’idea onto-teologica di Libro, avrebbe dovuto essere agevole riconoscere la prossimità anche storica del commento rispetto a tale idea, e dunque il carattere tendenzialmente sacralizzante del metodo e dell’atteggiamento commentatorî. […]

(Leggi l’intero saggio qui…)

***

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9 pensieri riguardo “Modalità di lettura-scrittura in Derrida”

  1. Davvero importante questo testo di Zuccarino, illuminante direi. Bellissimo questo passo, tra glia altri : “In un altro saggio, Passions, Derrida torna a collegare – in maniera ad un tempo più generale e più personale – il discorso letterario e il segreto: «Forse ho voluto soltanto confidare o confermare il mio gusto (probabilmente incondizionato) per la letteratura, più precisamente per la scrittura letteraria. Non che io ami la letteratura in generale né che la preferisca a qualunque cosa, e per esempio, come pensano spesso coloro che non sanno distinguere in fin dei conti né l’una né l’altra, alla filosofia. Non che io voglia ridurvi tutto, e soprattutto non la filosofia. […] Ma se, senza amare la letteratura in generale e per se stessa, amassi qualcosa in essa che soprattutto non si riduca a qualche qualità estetica, a qualche fonte di godimento formale, questo sarebbe nel luogo del segreto. Nel luogo di un segreto assoluto. Lì sarebbe la passione». Questo segreto, chiarisce il filosofo, la letteratura ha il potere di dirlo senza intaccarlo, anzi un testo è letterario proprio in quanto non sarà mai possibile asserire di averne colto o esaurito il segreto, giacché l’autore o il lettore – lo vedevamo a proposito del blanchotiano Instant de ma mort – resta sempre libero di proporne un’altra modalità di lettura. Ciò vale, a ben vedere, per ogni testo, anzi per ogni traccia in generale, ma di questo processo la letteratura offre una testimonianza che Derrida non esita a definire esemplare”.

  2. Grazie della lettura, Ivan. Cogli uno dei passaggi nodali del testo, uno spunto molto significativo di riflessione: la dinamica dello “spazio residuale” e il suo rapporto con l’approccio critico – il luogo dove l’unica chiave ermeneutica possibile – commenter – si rivela nell’omofonia che denuncia, insieme, l’oggetto e il limite (i.e.: l’oggetto come limite): comment taire.

    fm

  3. Salvato, in attesa di avere un pc che funzioni,l’altro è andat…in fumo! Grazie per questo lavoro, davvero molto importante, come ha colto con acuta attenzione Ivan Crico. E’ un filosofo a cui dedico molto del mio tempo, lo leggo e studio da un po’ d’anni. Un saluto a tutti. ferni

  4. questo è uno di quei casi nei quali mentre sottoscrivo il giudizio di I.Crico (“davvero importante questo testo”), devo senz’altro mettere un po’ le mani avanti, perché credo di essere proprio inadeguata rispetto la sua complessità e ricchezza.
    E siccome devo anche ammettere che mi sfugge un po’ il nodo della decostruzione (“che non è” – ahimé troppo facile :)-” neppure un atto o un’operazione”),

    per cercare di riprenderlo mi sono affidata alla immagine della “tela”, del testo che “nasconde al primo sguardo, al primo venuto, la legge della sua composizione” (cioè la sua “tessitura”),

    così che la lettura (critica) deve appunto cercare di coglierne i fili, anche e soprattutto quando si intuiscano più trame e ordito sovrapposti;
    e questa analisi non è mera osservazione, non deve essere “riproduttiva, ma produttiva” (epperò “non ha capito nulla del gioco chi si sentisse ad un tratto autorizzato ad esagerare,cioè ad aggiungere qualsiasi cosa”),
    come a dire, qualche filo dentro ci scappa, qualche altro viene deformato dalle dita o dalla lente del lettore, ma questo fatto, quando non arbitrario (cioè quando non riguardi “qualsiasi cosa”) è dato per fisiologico, o connaturato alla fisiologia dell’opera
    (analogo, in un certo senso a quello che succede con la fisica quantistica, l’osservazione – la lettura- “modifica” il moto della particella).

    Più avanti, il tutto viene ulteriormente spinto, dal momento che, parlando della questione con De Man, si arriva a dire della tela che “autodecostruisce” la propria tessitura (“la decostruzione viene in un certo modo attuata dai testi medesimi”);
    più avanti ancora c’è quel bellissimo passaggio – molto ironico- che riguarda le “divinità finite” – ma “nonni” pag.18 è un refuso? Se così nn fosse cmq ottimo :), nel quale si ribadisce per es. che “non si può inventare nulla a proposito di Joyce”.

    Così se, oltre a riprendere questo nodo della decostruzione, cerco di farlo mio tirandone per quanto riesco e con le pinze :)le fila ,
    allora il testo mi si prefigura come uno spazio di curve integrali,
    nel quale ogni integrale (ogni lettura critica) rappresenta il testo a partire dalle variazioni che contiene;
    la non arbitrarietà o indefinitezza dell’integrale garantita dalle condizioni al contorno del testo o ad esso inerenti (possono ad es, essere quei “momenti che confermano la solidità del testo con la tradizione della metafisica”, o anche quelli che “annunciano una concettualità di tipo nuovo”)

    Questo spazio di curve di livello (del testo), risulterebbe uno spazio completo (anche se non esaurito ), giustificato al proprio interno, inoltre non trasgredirebbe il testo , “verso un significato fuori testo”.

    Questo, al momento,
    per il resto (sul segreto ecc..), ancora mi riallaccio al rilievo di I.Crico e di Fmarotta.

    Ciao!

  5. Grazie della tua lettura, Margherita.

    Cercheremo di tirare (del)le somme, sul rapporto critica/commento, con la pubblicazione del terzo segmento analizzato da Giuseppe Zuccarino: Michel Foucault.

    fm

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