Raggiunto dalla / ruota non ne sarà schiacciato / perché la vettura dell’eterno / non si placa ma si rima su / questo foglio che concede un / punto al giocatore che non dispera.
Lorenzo Pittaluga, L’enigma della voce (I)
(Inediti 1992-1994, a cura di Marco Ercolani)
Musica
E ritrovi spenti falò
di comete e astri morenti
ancora l’orchestra ultima –
tra suono e visione – una
nota del suo volto che credevi
azzerato nello sguardo verso
te.
Gruppo unanime del plauso
alla dimenticata rondine che svola
sulla testa dei coristi.
Centri un qualunque rumore
e ne trai episodio ordinato
al senso.
Dai anima al perdurare
di questa estrosa rapsodia
adunando più voci per comprendere
regine e adeguare lo spirito dell’angelo
alla lenta canzone.
Né muore né vive lei – l’ultimato
fonema che si schiude in controllata febbre
Il vento
Traversi il fortilizio come
fosse dovere la menzogna
e il plagio rapinoso di un rossore
in cui pieghi – errante – il lucore
del viso di lei aperta al tuo
cielo zigrinato in docili dolori.
E poi l’idea si fa anima corpo occhio
piede – anima del cammino.
Il luogo preciso del soccorso
dove batte un nome e il dominio
della foresta: i fusti del querceto
Sono presenza nota – già voluti al tatto.
Nascoste fra le piaghe di un tormento
appena percettibile – lei guida
la tua mano – tocca le tue labbra
e ne medica i contorni inariditi.
Nasce, immaginoso, un noto
stilema, un segno che si fa
ti guarda – a te destina la parte
migliore – ti chiama – si fa per te
ambrosia inebriante. Al colmo delle grazie
ti ridona la consolazione – riporta a te
la sua carezza.
Un angelo?
Solca e traversa il suono
di inverosimili campane
mettendo piede negli inverni
inaccessibili ai vinti per
loro ignavia. E’ forte:
ammazza topi e zanzare
per trovar posto nel mondo –
azzera l’orologio e rimette
all’essere la sua condotta.
Questo angelo impiega eclissi
per cambiarsi d’abito e farsi
pedina – barocco soldatino
armato della carta su cui
imprime il segno che conduce
al domani. Raggiunto dalla
ruota non ne sarà schiacciato
perché la vettura dell’eterno
non si placa ma si rima su
questo foglio che concede un
punto al giocatore che non dispera.
Il congedo sarà dolce e lieve –
sangue avremo versato ma il tuo canto…
Labirinto
Partecipe del tuo bisogno
immola petali e vuota
calici mentre – statuaria
e visibile – la dea ripiana
ogni ossessione nel gesto
ed empie il tuo cuore di
una caparbia volontà di
riscossa. Già qui – mista
all’attimo – la vita di dicembre
che deve dedicare al respiro
il suo fiore. Ci sarà – nella
pupilla di lei – una baluginante
bugia dove le perse cause
completeranno orbite scure
di solitudine e di presagio.
Sta nella sua vetrina la
parola che troppo svela – sia
costretto alla gogna il musico
che suonò viola e chitarra negli
innumeri monasteri della noia –
Quindi un brivido , un sortilegio,
e – vigoroso nel labirinto – ricomincia
un canto.
Perché, per fare una poesia
Perché, per fare una poesia,
mica ci attacchi la lingua
al sugo delle parole che scrivi
o leggi… o le parole parlate
le parlate sognate e conosco
quanto vale l’affare: dei due
si conosca lei che mi dice
“mi scrivi una poesia?”
Ma io la poesia me la parlo,
me la porto a letto, ci faccio
la frittata, un pollo, una romanza,
un tè a due o un vino dolce solo per me, ma io la poesia
mica… mica la considero
più bassa della torre EFFE,
ma io il mio prestigio,
il mio prestito,
questa poesia pantera questa poesia
balera. E adesso basta.
Di libertà
Arida – nel motivo
dolente di un vinto
sistema di zanzare
e notti unite – lenta
come fu lenta – sul
finire della sua
scrittura testamentizia –
la lira che suonò
il momento di Lorenzo
dove – voce turbinante –
degnò – uno degli
untori – a tingerlo
della sua peste.
Tra le cose un libro –
un libro immedicabile
come il pane di questo
rumoroso rimorso.
Di libera libertà
se ne parlò mai fra
le sfere del giglio
rorido – bianco – chiaro.
Eluso al tempo.
Vetro
Consumo le età
ne depongo
estreme – le impressioni
meno stabili, più incongrue.
Quel che è.
Quello a cui sei partecipe
volendo infrangere
muro farsi vetro
farsi memoria dell’evento
rimane.
Estati poggiate
su cirri bianchi
quando anche più
prevista – la pioggia
assale i finti viaggiatori
perduti in camere
dove fitto rimane
un nembo di fiati.
I due – intanto – sorvegliano
con clemenza il lutto presagìto
le spoglie il cadavere
di chi si è amato
giace su piccoli legni
indovinata l’essenza – l’integrità
del sogno dove amore imparo e vivo.
***
“e – vigoroso nel labirinto – ricomincia / un canto”. Credo che “L’enigma dell’oracolo” di De Chirico sia il luogo misterioso in cui attendere la voce, in cui ricominciarte il canto. Grazie dell’immagine, Francesco. Grazie di continiuare, per noi, per me, l’esplorazione dell’archivio Lorenzo. I lettori si accorgeranno che non tutte le poesie, necessariamente, sono prove memorabili. Ma io sento come memorabile la volontà che ha dettato questi versi, il bisogno del poeta di obbedire a un comando imperioso e inflessibile.
Marco
Il poeta, di solito, dispone di un “laboratorio” nel quale prova e riprova la “solubilità” dell’enigma della voce, riconoscendo – perché ne ha uso e possesso – gli strumenti e la loro capacità di risuonare, la tonalità e l’estensione dei timbri utilizzati.
In Pittaluga, invece, si ha la sensazione di un rapporto capovolto, a parametri rovesciati: è l’enigma stesso che si fa voce attraverso la corporeità/soggettività senziente del poeta, usata come cassa di risonanza e conduttore per manifestarsi – ma nella sua assoluta, pura “insolubilità”.
Ha volte, leggendolo molto attentamente come sto facendo da un bel po’, ho l’impressione che lui abbia piena consapevolezza di tutto questo: una consapevolezza che dissemina nei testi sotto forma di ictus, di rifrazioni, di accumuli ingiustificati, di accenti distorti: quasi a voler dar conto delle modificazioni che il medium corporeo subisce, accompagnandolo o opponendo resistenza, nell’attrito di forze divergenti che lo attraversano.
Cosa ne pensi?
fm
Metti in luce un nodo molto importante, sul quale ancora c’è molto da riflettere: il poeta che prova la solubilità dell’enigma nel suo laboratorio è un poeta che parte dai suoi mezzi, utilizza i suoi timbri, poi magari fa delle full immersion che lo sviano, lo inquietano, lo contraddicono, ma fondamentalmente traccia a se stesso la sua strada. Ma il poeta che dissemina di ictus, rifrazioni, accenti distorti, la sua poesia, come Lorenzo, è un autore che subisce l’attrito delle emozioni a un grado alto di ustione, ne è vittima, è poeta solo in quanto con le parole trova, cerca di trovare, spiragli nel buio sempre più fitto, è la poesia che lo parla, lo usa, finché lui la lascia fare. Sarebbe questo, io credo, il modo giusto per essere poeta, ma è molto pericoloso perché si rischia la dépense, il traboccamento, l’andare oltre. Il puro enigma.
Cosa scegliere? A volte, io credo, un andirivieni dolente fra il laboratorio consapevole e l’officina alchemica inconsapevole.
Marco
Pittaluga sa di avere due teste, quella fisica e un’altra che gli è spuntata nascendo, e nella superba composizione “Perché, per fare una poesia”, si ribella ( alzandone i toni, ingigantendoli dal basso, ballando sul niente del sugo, ribadendo che lui la spacca, la rovescia, la beve) a questo stato di natura sua, come uno che affoga s’attacca al fango.
Sa che non ha scampo, ma la sua aspirazione a una normalità, a una qualunque normalità calma, viene epressa qui come un “a solo” magistrale. Io ci sento la Musica.
Cristina Annino
Ribellione. Titanismo. Voglia di normalità.
Intuizioni esatte, Cristina.
Un grazie da lui. Da quella Musica sghemba che ormai neppure lui può più contraddire. “L’integrità del sogno dove amore imparo e vivo” resta integro sogno, per sempre.
Marco
Grazie per i tuoi interventi, Cristina. Le tue letture lasciano la stessa inconfondibile impronta rivelatoria dei tuoi versi.
E grazie sempre a Marco, che ci ha fatto conoscere questo autore che ormai in parecchi amiamo.
fm