Sinfonia

Antonio Pizzuto

“Occorre guardare questa «Sinfonia» con occhio nuovo, perché essa non è sorta dal passato, ma soltanto dopo il passato e non ha alcun elemento comune con le opere che sono state pensate e scritte prima”.

Antonio Pizzuto, Sinfonia (1927), cura, introduzione e note di Antonio Pane, S. Angelo in Formis (CE), Lavieri Editore, “Collana Arno”, 2009.

I

EROICA

     Come è, durante la notte, delle fontane nelle piazze deserte, così, nella solitudine, scrosciavano le acque sotto le boscaglie, mentre i falchi roteavano in alto, stridendo.

     Poi il monotono incanto fu rotto. Da tutti i margini della foresta apparvero torme di selvaggi cavalieri, dalle sciabole corte e ricurve. Scendevano pel pendio della verde montagna nella vallata. Giunti nella pianura, i loro piccoli cavalli si tuffarono nell’acqua a bere. Nei bivacchi eravi pure qualche donna e dei lattanti. Accesero i fuochi e l’alone di vapore levantesi dagli spiedi tremolava nell’aria limpida sotto il sole. Le anguille, infilzate vive, si torcevano arrostendo. Saziata la sete e la fame, essi si abbatterono nel riposo. All’alba erano già ripartiti.
Altre torme seguirono, giorno per giorno. Alcune, raggiunta la valle, non si soffermavano. Raddoppiavano, invece, l’andatura, come fossero inseguite. Le retroguardie si volgevano di frequente indietro a guardare in alto, verso la sommità della montagna, se dalle bocche spalancate delle boscaglie apparissero gli inseguitori. Vi erano facce esterrefatte, macilente, dagli occhi iniettati di sangue, dalle labbra livide tra le barbe arruffate o sotto radi baffi rossastri. Le compagne cavalcavano sulla stessa groppa, le gambe nude. Gli sguardi dei più erano di uomini dimentichi di tutto: provenienza, vicende, meta. Nel risalire le valli, nei guadi, nelle soste, pareva si abbandonassero al capriccio dei loro tozzi quadrupedi dalle criniere biondicce e incolte. Gli aridi occhi ardevano di terrore o di cupidigia: sguardi di assetati in cerca di una sorgente.
Una notte una di queste tribù soggiacque a tanta stanchezza che sui corpi addormentati strisciarono indisturbati i grossi rospi delle prode. Ma li incalzava un impeto cieco di proseguire, oltrepassando le valli sterminate una dopo l’altra, risalendo sempre il corso del fiume maestoso. Trasportato dalle morbide ondate, si vide, in un tardo e livido pomeriggio, venir giù nella corrente il cadavere gonfio di un decapitato. Dalle due rive le colonne di cavalieri levarono grida e clamori di scherno o di materna pietà.
Apparve, infine, nella pianura il grosso della fiumana migratrice: il popolo a piedi, turbe di ogni età e condizione avanzanti lentamente fra le soldatesche veloci. Due cose segnavano ormai la direzione ai venienti: i carcami che scendevano sempre più frequenti lungo il fiume, ed erano gonfie carogne di cavalli e di cani, pertiche su cui rimanevano attorcigliati maceri virgulti di pergole o di ortaggi, otri gonfiate in forme di grotteschi fantocci, resti di ogni genere capaci di galleggiare; e, alti nel cielo, gli stormi gracchianti degli uccelli predatori. Nella marcia lenta e tenace i sopraggiunti accendevano i fuochi sulle stesse ceneri lasciate dagli altri accampamenti e a poco a poco si disegnavano le viottole e le radure nell’erba calpestata e nella terra smossa dagli zoccoli. Talvolta al tramonto si levava dalle colonne in marcia, risonante nelle vallate, un canto solenne e vibrante. Qualche mischia sanguinosa, subitamente insorta, inchiodava per sempre, tra gli avanzi dei pasti, uno, due soldati; e subito i corvi calavano a scavarne le orbite, il naso, le labbra alle fiumane delle formiche e dei vermi. Ma, a guardare dall’alto, tutto era ancora bellezza calma e rigoglio, poiché l’invasione lasciava una traccia sottile, appena percettibile, nella distesa lussureggiante delle valli brillanti sotto il sole.
Le ultime falangi, le più eterogenee e indisciplinate, varcarono la pianura molti e molti giorni più tardi. Eranvi ragazzi avidi, che si slanciavano a predare sui caduti e li rotolavano, disillusi e irritati, nei flutti. La stanchezza e l’indolenza appesantivano i più e per costringerli a riprendere il cammino non di rado furono adoperati gli scudisci. Molti, però, rimasero per sempre sul campo e per gran parte della notte, dopo la partenza dell’ultimo nucleo, durò il lamento lacerante di qualche infante dimenticato o scivolato giù da una sella, finché le bestie scendenti dai boschi a dissetarsi non lo fecero tacere.

     «Egli ama precederci perché predilige la solitudine, non per esplorare la via. E veramente, poiché seguiamo l’esercito, che cosa avrebbe da esplorare e a qual fine? E perché, poi, non mi chiede una scorta, ma, tanto spesso, con una brusca galoppata, quasi ci fugge e lo ritroviamo poi immobile accanto al suo cavallo, con lo sguardo sperduto a contemplare la pianura deserta dall’orlo di un precipizio?»
«Forse, Sire, cerca quello che tutti noi, credo, andiamo cercando con tanta sete: una polla di acqua viva, come la descrive il nostro elegante poeta…»
«Oh, no. Debbo credere non lo sappiate che non bevve mai nell’acqua vivente? Tu che lo educasti – dove sei? avvicina – non avrai certo mancato di divulgarlo a tutta la corte perché tutto il regno lo sapesse. Più volte io gli feci trovare nel suo proprio letto le più acerbe frutta e mai ne volle. Io mi ponevo con costui – te ne ricordi? – dietro le fessure apposta praticate. Quando entrava, fingeva di non vederle. Si affacciava alla finestra a respirare l’aria notturna. Quelle, o sospiravano, o con piccoli gemiti lo richiamavano mormorandogli “Vieni, mio bel principe”. Allora, tranquillamente, e con quel suo benevolo sorriso, egli si avvicinava. Guardava quei corpi appetitosi senza trasalire. Come mai si può fissare il sole di mezzogiorno senza socchiudere gli occhi? Le prendeva per mano, fossero due, fossero tre, una alla volta, e le faceva rialzare. Esse allora levavano piccoli gridi di resistenza. Ma egli cessava di sorridere e con mano ferma, risolutamente, le conduceva alla porta e le rimandava con una cortese parola, senza pentimenti. Poi ritornava alla sua finestra e non si muoveva di là per quanto attendessimo.»
«Tuo figlio, Sire, è uno scettico: tu sai la mia profonda conoscenza del cuore umano. Egli professa dottrine filosofiche imparate qui stesso, durante gli anni in cui tu ve lo tenesti per educarsi. Sono dottrine assai lunghe a spiegarsi, ma tendono all’annullamento del mondo mediante l’allontanamento dei sessi. Quando vedeva una donna egli la sfuggiva con orrore e mi confidava, spesso, (era allora sedicenne) che esse non lo turbavano e mi esponeva quanto i maestri di qui gli andavano insegnando. Un giorno lo accompagnai da questi maestri e, in sua presenza, li interrogai sul loro insegnamento. Contrapposi alle loro dottrine le mie, finché, vinti, mi proclamarono di non aver mai discusso con un uomo tanto sapiente, offrendomi di rimanere con loro per la fortuna della gioventù. Respinsi dicendo che il mio Re mi aveva affidato l’educazione di Suo figlio e che non avrei abbandonato il compito se non per riprendere la mia carica di grande ufficiale della Corte e di gran Maestro dell’esercito, pel bene del mio Sovrano…»
«Ed egli?»
«Chi?» «Il principe nostro.»
«Naturalmente confessò che non poteva sostenere oltre la disputa. Allora…»
«E’ là, lo vedete? Egli ci fa segni. Cessa le tue chiacchiere e svegliali, questi cavalli che camminano dormendo. Guarda dove è rimasta la colonna. Andrebbero più veloci se procedessero a piedi.»
«Il sole è cocente, Sire, e la via erta. Or ora comandai al mio aiutante di accelerare l’andatura.»
«Che hai trovato?»
«Guarda.»
«Io guardo, ma non scorgo nulla di importante: non una casa, non una villa, non un uomo. Che vedi tu?» «Guarda meglio, Sire. Dappertutto vi sono i segni della battaglia. Di fronte a te, dietro le alture, si leva il fumo. Là si incendia e si saccheggia. Vi erano le ville estive dei grandi dignitari dello stato. Alla tua sinistra, sulle cime delle colline, dovremmo vedere, a quest’ora, accampamenti di nostri. Ne scorgi tu?»
«Sono deserte.»
«Io vidi rotolare giù tronchi d’alberi e massi. Se i nostri non sono riusciti ad occuparle, hanno sorte terribile. Essi trovano ostacolo a ripiegare. Altri nemici calarono forse in agguato alle loro spalle.»
«E’ certo.»
«A destra, infine, laggiù, dove il fiume fa gomito, lo scintillìo dell’acqua si smorza a tratti, mentre una nuvola offusca il sole. Anche là vi è forse carneficina, e forse la corrente ci reca incontro cadaveri e cadaveri di popolo nostro.»
«E’ vero. Che faremo? Tu hai udito il principe. Hai un piano da attuare subito per accorrere in aiuto?»
«Sire, tu lo sai, non abbiamo qui che quattrocento uomini di cavalleria. E’ truppa stanca e non reggerebbe ad una galoppata fino al tramonto per raggiungere le colline.»
«Ebbene?»
«Io osservo, anzitutto, che il principe Jarag ha fatto soltanto congetture. Conosco bene il suo pessimismo. Egli è rimasto quale tu me lo affidasti fanciullo. Tutto è nero per lui e al nulla la sua fantasia dà vita e forma. Quelle fumate di laggiù sono segni di saccheggio? Ne dubito. Possono essere tante, tante altre cose e bisogna andar cauti nelle ipotesi, scegliendo sempre le più semplici e naturali. E poi, se vi è incendio e saccheggio, ciò implica che la vittoria è dalla nostra parte. Quanto al fatto che non si scorgono ancora sulle alture i nostri soldati, quello che possiamo concluderne è che le previsioni non si avverano mai e che l’esercito procede meno velocemente di quanto era presunto. Il rotolare giù di tronchi d’albero e di massi e le macchie sul fiume ci dicono, infine, ben poco. Anzitutto, chi muove alla conquista deve sapere che dovrà pagare il suo tributo di vittime. Tralascio di osservare che tali fatti possono non avere relazione con l’avanzata dei nostri e che, spingendoci avanti, avremo, con ogni probabilità, di che spiegarceli agevolmente come eventi fortuiti e, perché no?, come apparenze senza costrutto di fatti semplici e naturali. Non ci sembra di vedere, di nottetempo, presso i letti, persone in agguato che erano solo le nostre vesti? Comunque, gli eventi confortano i miei sistemi di guerra che i capi, cioè, debbono seguire e non precedere le truppe per aver tempo di giudicare, libertà di intervento nell’impiego delle riserve per l’azione decisiva e scelta del punto in cui impegnarla.»
«Ho fiducia in te. Ma accorriamo. Che tutti proseguano al galoppo.»

(Pag. 19-23)

***

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3 pensieri riguardo “Sinfonia”

  1. Pagine, queste, che ci parlano di una storia della prosa che si è fermata in alcune lampeggianti e nascoste figure della nostra letteratura. Grazie a chi, per noi, sospende l’attenzione su questa ferita aperta.
    Marco

  2. Un’edizione critica, splendidamente curata e annotata, di un autentico “capolavoro dimenticato”: uscita da una “piccola” casa editrice che ha, tra l’altro, il merito incancellabile di aver (ri)portato in Italia uno dei giganti della letteratura europea del novecento: Arno Schmidt.

    Le grandi, intanto, continuino pure a pubblicare le loro cazzate…

    fm

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