Omaggio a Eric Rohmer (II)

Stefania Conte

Elemento essenziale della vita del Celta è l’avventura, come ricerca dell’ignoto, come corsa senza fine dietro l’oggetto sempre in fuga del desiderio. Questo sognava San Brandano al di là dei mari, questo domandava il cavaliere Owenn alle sue peregrinazioni sotterranee. Questa razza vuole l’infinito: ne è assetata, lo insegue a ogni costo, al di là della tomba, al di là dell’inferno. (E. Renan)

La quête e il racconto morale: il Perceval di Eric Rohmer

(La prima parte qui…)

II. Perceval le Gallois: ripartire da Chrétien

     Il romanzo medievale nasce come genere ibrido, sfruttando i risultati dei generi coevi come epica, lirica, cronache, arti d’amore per creare un nuovo tipo di discorso.
     Se l’amore è tema obbligato, le vicende amorose si svolgono interamente nel mondo della corte dei cavalieri di Artù e si dipanano in duelli e tornei che sviluppano temi e motivi della tradizione epica con senso tutto nuovo.
     Gli eroi del romanzo cortese non combattono più solo per la collettività, per gli ideali tipici della canzone di gesta. Il loro sistema di valori riflette il mutato ambiente delle corti, dove le virtù cavalleresche sono impensabili fuori dalla dimensione mondana, e la nuova società della Tavola Rotonda, più che sulle imprese guerresche e feudali, si definisce nella raffinatezza dei modi, nell’amabilità dei rituali, nella centralità della figura femminile.
     I cavalieri ora cercano nelle prove che segnano il loro destino una maturazione individuale che li renda degni della gloria.
     Tematica guerriera e riflessione amorosa, intrecciandosi, danno luogo ad un nuovo modo di vedere che sfocia naturalmente in un nuovo genere di espressione. L’ottosillabo a rima baciata, ricco di enjambement, è lo strumento di questo discorso fluido e continuo, fatto per essere letto ad alta voce alle corti dei castelli, ad un pubblico d’élite, da clercs e trovatori orgogliosamente consapevoli del proprio statuto di “autori”.
     Tra questi primi artefici del romanzo francese medievale spicca, insuperata, la figura di Chrétien de Troyes, forse chierico, forse araldo d’armi, legato alla corte di Maria contessa di Champagne attorno al 1162 e poi a quella di Filippo d’Alsazia conte di Fiandra dal 1168 al 1191.
     Nei cinque romanzi composti da Chrétien tra il 1170 e la morte, sopravvenuta nel 1190, si consacra in maniera definitiva la fortuna della materia di Bretagna, legata inscindibilmente ai nuovi rituali amorosi e mondani della cortesia e a una raffinatissima arte del narrare.

Questo sostrato celtico, avviato nel 1136 dall’Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, e arricchito di fabulae e meraviglie nel volgarizzamento di Wace, il Roman de Brut dedicato ad Eleonora d’Aquitania, trionfa nel romanzo cortese grazie alle sue straordinarie potenzialità narrative, alle possibilità di atmosfera e di mistero, alla sua capacità di aprirsi alle sorprese e al rischio dell’esistenza, di farsi “racconto”. Il materiale arturiano che dà l’avvio a questo ciclo epico-fantastico-cortese attinge a una ricchissima tradizione di leggende e di storie a diffusione orale, caratterizzate dal meraviglioso, dal viaggio iniziatico, da un rapporto costante con l’Altro Mondo.
     Tra le mani di Chrétien de Troyes questo viluppo di narrazioni si fa incarnazione originalissima, in cui il poeta fonde i propri concetti etici con l’imitazione dei poeti latini, l’eredità delle chansons de geste e dei romanzi antichi con una quantità di motivi mitici e folklorici. Come lui stesso, poeta consapevole dell’importanza del fatto artistico, sottolinea, per fare un buon roman ci vuole una matiére (storia) legata da una bele conjointure (intreccio) che le dia un sen (senso): il suo spirito laico e mondano gli permette di armonizzare elementi disparati, di conciliare profonde antinomie, come amore individuale e dovere sociale, senza ricorrere alla sublimazione della morte o alla contemplazione di Dio: l’armonia è raggiungibile qui, nella pratica consapevole e costante della vita.
     L’ultimo conte di Chretien, Le conte du Graal, rimasto incompiuto a causa della morte dell’autore (come ci testimonia Gerbert de Montreuil, uno dei suoi numerosi continuatori ed epigoni), è un testo suggestivo e misterioso che con i suoi mille quesiti sospesi ha dato luogo ad una infinita serie di rifacimenti ed ha alimentato uno dei miti più antichi e fecondi della letteratura occidentale: le vicende del Graal e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Il mistero del Graal, che nelle continuazioni del romanzo diverrà la sacra coppa in cui Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il sangue colato dal costato di Cristo trafitto dalla lancia di Longino, è in Chretien tutto implicito e mai spiegato; egli lo definisce une sainte chose e ne sottolinea la natura preziosa durante la descrizione della processione mistica cui Perceval assiste, descrizione in cui ogni dettaglio vira verso l’eccezionalità e la magia. L ’incompiutezza del testo scelto da Rohmer per questa sua immersione nell’alto Medioevo non può non richiamare alla mente le dichiarazioni da lui rilasciate all’uscita dei Contes Moraux: “Non riesco mai a terminare i miei racconti, perché alla fine tutti hanno ripercussioni multiple, come un’eco”.

     Spesso il regista parla attraverso il non detto, dice per non rivelare, maschera e dissimula, enigmatico come i suoi personaggi; nelle interviste rilasciate dopo l’uscita di Perceval egli mette in rilievo soprattutto le sue scelte tecniche e formali: pare utile allora partire da lì, dalle sue intenzioni più dichiarate, per poi sondare i movimenti sotterranei della sua poetica in questo film misterioso.
     Ciò che egli rileva subito nelle note sulla messa in scena del film è l’importanza del testo di Chretien, un testo cui il cinema secondo lui può restituire una diffusione che non ha più perché non più direttamente accessibile al lettori.  Nella sua traslatio Rohmer rifiuta le traduzioni del romanzo disponibili in libreria, brutte versioni in prosa che cancellano tre quarti della sua vivacità e ne rendono comunque più ardua la lettura; egli preferisce mantenere gli ottosillabi a rima baciata, più vicini alla letteratura popolare e alla lingua parlata di quanto sia la prosa, così “scritta”, attraverso la quale il lettore francese conosce il Perceval. Per rendere la lingua comprensibile a un vasto pubblico il regista è a malincuore costretto a tradurre, ma solo a metà, solo quel che occorre spiegare in maniera letterale, evitando neologismi estranei al Medioevo e obbedendo a una duplice esigenza de littéralité et de compréhensibilité che salvaguardi la bellezza fresca, semplice e a portata di mano che è propria dell’arte medievale. Man mano che procede nell’adattamento dei 9234 versi dell’opera, Rohmer scopre che più stretta è l’adesione al testo, più questo guadagna in comprensibilità immediata; l’edizione è controllata e confrontata alle altre con rigore filologico, mentre gli arcaismi conservati non sembrano causare difficoltà all’ascolto.
     Come sottolinea nelle note di sceneggiatura: “Se una parola non è conosciuta, la cosa sta sempre lì per spiegarla.  Qui, il discorso è uno dei più concreti che mai si siano tenuti al cinema, western compresi, che infatti si riferiscono a codici tecnici, sociali e morali più complessi e più allusivi di quelli della cavalleria. Le nozioni astratte si riducono a quelle di “avventura”, “onore”, “tradimento”, “pentimento”. Gli altri sostantivi utilizzati designano, senza eccezione, atti, oggetti materiali, sentimenti provati nel momento stesso in cui vengono nominati e traducibili attraverso le loro manifestazioni”.
     Così, quando si parla di un “destriero” questo trotta davanti a noi, quando qualcuno si confessa “dolente”, sta piangendo e quando chiede “mercé”, è la sua mano a domandare la grazia”.
     Una recitazione che traduce gestualmente in simultanea rende comprensibili gli ottosillabi arcaizzanti, mentre nella resa dei cerimoniali, ove lo scritto sia lacunoso, il dialogo viene colmato dall’ausilio iconografico. Il legame testo-immagine è in effetti così riuscito da lasciare ben poco di oscuro, e la rima baciata intesse di continuità versi la cui musicalità ritmata e arcaica incanta all’ascolto e si imprime nella memoria. L’esperienza di questo film si fa vera e propria fascinazione sonora che recupera l’affabulazione antica in modo originale.

     Per il testo del film Rohmer non si limita ad attingere dalle parti dialogate, ma si serve delle parti descrittive e di narrazione trasponendole in maniera efficace e ambiziosa: sceglie di farle dire da personaggi che possono essere sia comparse che stanno sul luogo dell’azione come una sorta di coro, sia dagli stessi protagonisti. La soluzione drammaturgica, per stessa ammissione del regista, è completamente inventata, personale. Privo di interruzioni, il discorso che il personaggio enuncia passa dalla terza persona (con cui egli parla di sé come distanziandosi) alla prima persona, talvolta sottolineato da gesti o da cambiamenti di posizione (frontale e di profilo). I personaggi si descrivono fisicamente e descrivono il loro comportamento anche quando sono preda delle più forti emozioni: ad esempio Biancofiore, raggiungendo Perceval nella sua camera, dice di sé “lei piange” nel momento in cui sta effettivamente piangendo.
     Questa modalità di presentazione del testo avvicina i personaggi del conte ai più tipici protagonisti dei film rohmeriani, costantemente impegnati a spiegarsi, autoanalizzarsi, discutere e rappresentarsi.
     Osserva Rohmer in un’intervista: “Far parlare qualcuno alla terza persona sullo schermo è molto azzardato, ma credo che gli spettatori, dopo un po’, non ci facciano più caso. D’altra parte questo testo in versi, costellato di numerosi “disse”, conferisce all’opera un tono narrativo molto bello”.
     Il coro e i protagonisti narrano spesso cantando accompagnati dalle musiche di Guy Robert, professore al conservatorio di Pantin e specialista di musiche medievali. I commentari tratti dalle descrizioni del testo sono salmodiati su musiche dei secoli XII e XIII, a creare dei veri e propri recitativi i cui protagonisti sono i narratori, ora contadini, ora scudieri, ora coristi; in questi intermezzi essi additano e preparano le scene a venire, aiutati da carrellate trasversali che loro stessi indirizzano mentre ammiccano allusivi allo spettatore, e gli strumenti che suonano sono tutti dell’epoca: un liuto, una cennamella, un ribecco, una chitarra moresca.
     Le musiche sulle quali essi cantano il procedere della storia sono adattate da Robert, che trae i suoi temi dai motivi dei trovieri, con prestiti dai trovatori e dai Carmina Burana, senza concedersi anacronismi; le arie sono state riadattate al ritmo degli ottonari, e per la Passione finale si è ricorsi a una rielaborazione dello sviluppo polifonico-precoce del Gregoriano su temi noti della liturgia e dell’organum: anche qui l’alto professionalismo e il rigore di Rohmer spiccano, assieme alla lunga meditazione delle sue scelte stilistiche. La bellezza della musica, raffinata ma accessibile, decanta la convenzione dello scenario e lo rende più accettabile per lo spettatore.
     Proprio la presa di posizione bipolare nelle persone che enunciano i dialoghi si specchia in un’altra più clamorosa alternanza della mise en scène: l’alternanza stilizzazione-realismo.
     Rohmer dichiara a Ça cinéma: “All’inizio volevo girare in scenari naturali ma mi è parso impossibile rappresentare, ad esempio, un cavaliere davanti a un albero, perché l’albero che avrei avuto non sarebbe mai stato quello che poteva essere nel medioevo. Sarebbe stato un albero fotografato, e confondere la visione fotografica e quella medievale mi urta, anche se è prassi corrente al cinema”. Il rifiuto di qualsiasi rifacimento attualizzante fa optare il regista per una mise en scène che volta deliberatamente le spalle al consueto realismo cinematografico, una mise en scène teatrale ispirata dalla scenografia medievale, ma anche attenta alla lezione del moderno teatro a scena circolare; d’altra parte, come egli stesso sottolinea, “il cinema moderno deve temere più le proprie banalità che una influenza esterna del teatro”.
     La scelta di Rohmer lo espone a critiche ed incomprensioni certe, tuttavia egli qui prosegue orgogliosamente il progetto avviato con l’adattamento da Kleist. La distinzione dei generi e la loro specificità non viene messa in discussione, e il fatto che il cinema possa esplorare senza pericoli il dominio del teatro non prova che siano la stessa cosa. Già negli anni Cinquanta, parlando dei film di Renoir, Rohmer aveva sottolineato come, se si vuole captare la natura, prima di tutto bisogna rivestirla d’artificio, e rilevava: “Bisogna arrivare al vero attraverso il falso” pur considerando il realismo di base (non ingenuo!) come principio fecondante del cinema.
     Ecco allora spuntare come scenografia nel Perceval castelli finti di cartone dorato e stilizzati alberi metallici, preferiti dal regista ai veri castelli medievali francesi ripresi nella loro versione del 1978: meglio essere onesti falsificando spudoratamente che fintamente realistici e fotografici, per raggiungere lo spirito, l’essenza di un tempo così altro e lontano. Per una sorta di eccesso di amore verso una certa realtà, il regista ammette di aver proceduto in senso contrario a un convenzionale realismo, cercando di arrivare a una cosa attraverso il suo negativo.
     “Le parole ci sono, è vero, ma è la visione che conta. Una visione simbolizzata. Da quello che si vede trapela cioè il rifiuto del naturale. Lo spazio si organizza come in un quadro medievale, in modo simbolico”. La visione cui Rohmer si costruisce su uno scenario unico in cui si situano le differenti scene dell’azione. Lo studio di ripresa degli esterni consiste in uno spazio di ripresa piuttosto vasto, sorta di lizza in cui si svolgono i tornei e le evoluzioni dei cavalli.  Attorno a tale recinto si trovano, come altrettante “mansioni”, gli scenari stessi, alcuni dei quali utilizzati a vari scopi: una sola foresta, un solo prato, una sola roccia, un solo castello che muta esclusivamente negli emblemi del portale, un po’ nello spirito dei Misteri medievali dove scenari fissi raffiguranti il cielo o l’inferno restavano in scena e si spostavano a volte su rotelle. L’interno è costruito sul piano di una chiesa romanica, con abside e cappelle laterali dipinte e adornate in modi diversi a seconda delle scene, e attraverso la differenza di angolature prospettiche e di illuminazione si crea una varietà di scenario che è più apparente che reale.
     Ecco le dichiarazioni del regista: “I miei castelli sono dorati, gli alberi delle mie foreste sono disegnati e modellati, i miei costumi preziosi. Questo Medioevo nuovo è quello delle miniature degli artisti del XII e XIII secolo. Tutto è stilizzato. Ho consacrato molto tempo alle ricerche iconografiche ma non è stato facile rendere al cinema questo mondo. Abbiamo dovuto reinventare tutto. Per questo tutto il film è stato girato in studio. Con alberi ad altezza d’uomo, questi castelli dalle torri alte appena una stanza, queste porte monumentali sotto cui uomini e cavalli passano appena, con questo scenario semplificato al massimo ma rappresentato in tutta la sua ricchezza, spero di aver ritrovato lo spirito degli artisti del Medioevo”. Se gli sfondi e i castelli sono irrimediabilmente finti, sono vere, pesanti le lance e le spade, le cotte di maglia da 18 chili, i cavalli e i finimenti, i tornei e gli scontri; realtà e convenzione si sfidano e s’intrecciano, l’astrazione del décor fa scintille con la concretezza degli oggetti.
     Rohmer stesso osserva come, nel romanzo, i costumi siano riferiti con grande minuzia, mentre l’evocazione dei paesaggi resti fondamentalmente allusiva, vaga. Per questo nel suo adattamento la resistenza e il peso dei tessuti sostengono un ruolo importante; pur rappresentando un intralcio per gli attori, anzi proprio per questo, è essenziale che cotte e spade siano vere, in modo da costituire un grosso apporto di autenticità per le immagini. Lo scopo del cineasta è qui manifesto: “Credo che, nel cinema, ci si possa permettere una stilizzazione a patto che sia controbilanciata da una rigorosa adesione alla realtà. In questo sono seguace di Bazin che faceva osservare come, nella Passione di Giovanna d’Arco, si vedesse un pezzo di terra in uno scenario totalmente astratto. “È’la terra”, diceva Bazin, “che fa diventare tutto questo cinema”. Ritengo che, in questo film dagli scenari completamente artificiali, in cui nessun fremito interviene a vivificare la natura e in cui l’aria non circola tra le foglie, occorreva introdurre oggetti resi perfettamente evidenti dalla consistenza materiale e, in particolare, dal peso”.
     I colori dominanti nella scenografia sono l’oro, il blu e il rosso , le albe e i tramonti sono ricchi di suggestione, le stoffe e i corpi traboccano, fisici e compatti, dallo schermo, per la prima volta così sensuali e vicini, quasi palpabili proprio perché si stagliano sull’artificio dei fondali dipinti.
     La rappresentazione spaziale ideata dal regista per il film dilata la scena in senso orizzontale facendo inarcare la profondità sui tragitti ellittici del protagonista.
     In una conversazione con Bernard Marie, Rohmer esplicita dettagliatamente le sue originali scelte prospettiche: “Lo spazio romanico, quello delle miniature o dei bassorilievi, è uno spazio curvo a due dimensioni. Le forme si piegano sempre ai contorni della cornice, che si tratti della calligrafia della lettera iniziale o del tutto sesto del timpano. Tale curvatura del piano verticale contro cui urta il realismo fondamentale della ripresa fotografica, l’ho trasposta sul piano orizzontale. È la terza dimensione che ho cercato di “curvare”, ma in modo dinamico, non più statico. Sul suolo dello studio, di forma ellittica e con pareti tappezzate da un immenso “ciclorama” raffigurante l’orizzonte, i diversi tragitti possibili sono incurvati. In questo spazio non euclideo la curva diventa il percorso più breve da un punto all’altro”.
     Lo spazio, nel conte come nei film di Rohmer, è centrale: il movimento è il motore stesso del racconto. Il romanzo medievale tende a contrarre la narrazione in una serie di momenti privilegiati, è costituito di tempi e spazi forti, e tempo e spazio sono azioni essi stessi. Allora la cronologia o il ciclo delle stagioni non hanno significato proprio, sono pura funzione del racconto. Le distanze in Perceval vengono superate in pochi secondi, in un unico piano e senza stacchi, creando un contatto col fiabesco e il simbolico e le carrellate risolvono i salti cronologici che la narrativa cortese sottende: “Quando un personaggio va di castello in castello, non utilizza il mezzo teatrale che consiste nell’abbassare il sipario e mutare scenario, né il procedimento cinematografico ordinario del cambiamento di piano e della “dissolvenza”. Lo si vede, al contrario, percorrere realmente la distanza tutta simbolica che separa i differenti elementi dello scenario. In tal caso vediamo persino Perceval, in un sol piano, abbandonare un castello all’alba, penetrare nella foresta e, in capo ad alcuni secondi, raggiungere un altro castello al tramonto. Quest’assenza di realismo nella rappresentazione delle distanze spaziali o temporali sembra dover essere ben accettata dallo spettatore del film. La convenzione che ho adottato è agli antipodi di quella di certi film espressionisti, in cui gli attori evolvono ricurvi tra muri convessi o concavi. In Perceval è arbitrariamente incurvato solo quello che si sposta e si muove: cioè i percorsi e certi gesti. Le forme e gli atteggiamenti restano naturali”.
     A questo si aggiunga che Rohmer ha ridotto le inquadrature a due modalità: la ripresa centrale, in piano americano o totale, e la panoramica; proprio quest’ultima rende efficace la scelta dello scenario, suggerendo uno spazio convenzionale e ristretto, ripetitivo e financo asfittico, in cui i movimenti dei cavalieri sono prevedibili, obbligati, circolari, forse inevitabili, come un destino, sempre dietro a nuove visioni…
     Quest’universo circolare e favoloso, che pare uscito da un racconto infantile, si realizza come scenario ridotto, luogo circoscritto in cui Rohmer, come già nei Contes moraux, ambienta le sue scene morali primarie: anche qui l’azione è sempre protetta, circondata, lontana dal rumore della società. Quindi la scelta di uno spazio bidimensionale non risponde solo a preoccupazioni di tipo filologico di fedeltà allo spirito medievale, e i fondali non sono tali solo in omaggio alle antiche miniature: i movimenti interni del personaggio, le tappe della sua formazione (a volte, nei Contes, regressione) hanno modo di dispiegarsi senza ingerenze esterne.
     La rottura con la norma abituale del rispetto geografico dei luoghi è qui rovesciata, poiché non si sa dove si è veramente, ma il ruolo di resistenza ontologica affidato ad uno spazio preesistente, anche se ricostruito in studio, persiste; pure il ricorso ad un’illuminazione il più possibile naturale non è possibile nello spazio chiuso ove sono girate le scene del Perceval: Almendros, il direttore della fotografia, deve ricorrere a riflettori cercando di evitare le ombre multiple.
     Sebbene non sia interessato ad evidenziare la componente magico-esoterica di origine celtica presente nel conte di Chretien, Rohmer adotta nel film alcune soluzioni originali per rispettare il partito preso del testo e le meraviglie in esso presenti; poiché questi trucchi rappresentano inedite deroghe al realismo rohmeriano, è interessante prenderne atto. Per le apparizioni e sparizioni del castello si è ricorsi a dissolvenze incrociate; per quelle della Demoiselle laide è stato usato un vecchio trucco di Mélies, con la cinepresa inchiodata a terra a riprendere il paesaggio vuoto, e poi la ragazza in movimento, con tagli e raccordi in sede di montaggio. Per il Graal invece è stato ripreso il trucco usato in Guerre stellari per le spade-laser utilizzando una superficie molto riflettente, il Transflex, combinata con una proiezione frontale con il Graal illuminato da una lampadina interna. Infine, l’oca ferita le cui gocce di sangue sulla neve evocano in Perceval il ricordo di Biancofiore viene rappresentata come disegno animato, un unicum in cinquant’anni di carriera del regista, un omaggio al rispetto della lettera, del significante.
     Anche per gli attori, la maggior parte non professionisti, la via seguita è quella della “forzatura” della mise en scène: secondo la volontà di Rohmer essi sono dei dicitori che, catturati dal loro testo, finiscono per impersonare ciò che si erano semplicemente proposti di dire. Dialogando con Jacques Le Goff poco dopo l’uscita del film il regista ammette:  “Il tipo di recitazione risponde più a una certa idea di cinema che a un’idea di Medioevo. Cioè, il mio personaggio recita una recitazione di Perceval. In fin dei conti ho teatralizzato la storia, non ne ho fatto una traduzione romanzata, perché corrisponde a un’idea di messa in scena cinematografica che m’interessa e che ho appreso da un regista generalmente poco amato dal pubblico: Renoir. Forse sono stato un cattivo discepolo, ma mi consola vedere che fil m come Le déjeuner sur l’erbe sono opere che, proprio perché impiegano commedianti che “fingono”, e non possono considerarsi quindi interpreti di primo grado, sono difficilmente accettate dal pubblico. Riconosco che Perceval recita in questo modo, mentre Galvano no. Galvano recita in modo esplicito ed è più convenzionale”.
     Nonostante questa voluta ricerca di naturalezza, il rispetto per il testo originale ha richiesto che le otto settimane necessarie alle riprese del film fossero precedute da sei mesi di lavoro con gli attori, impegnati a pensare ed assimilare il testo in modo da renderlo contemporaneo e quotidiano al massimo. Per Fabrice Luchini, colui che interpreta Perceval, i preparativi sono durati addirittura un anno, con lezioni di scherma, equitazione, letture e prove in 8 mm; egli è, nelle parole di Rohmer, l’unico a possedere l’originalità, la tragicità, la comicità del personaggio, la sua spontanea ingenuità e profondità mistica. Sicuramente nei suoi occhi stupefatti e nel suo continuo lanciarsi alla ricerca di avventure caracollando da un castello all’altro c’è tutta l’impazienza e la freschezza del futuro cavaliere di Chretien, preda delle sue illusioni.
     Il nutrito cast femminile di giovani in cui Perceval si imbatte (Arielle Dombasle, Pascal Ogier, Marie Rivière), e la natura teatrale della mise en scène, già preludono alla futura serie di film che Rohmer realizzerà negli anni Ottanta. Se il punto di riferimento per i Contes era la letteratura e i protagonisti erano maschili, il nuovo ciclo si chiamerà Comédies et proverbes in omaggio ai testi teatrali di De Musset, svilupperà situazioni e dialoghi apparentemente più banali e quotidiani che lasciano implicite le complessità prima evidenti, con protagoniste femminili che non avranno però il privilegio di fungere da voce narrante centrale. Il Perceval getta dunque i semi della produzione a venire, in cui i personaggi invece di narrare le proprie storie si occuperanno di mettere in scena se stessi, di vivere, e l’ironia avrà maggiore spazio, assieme alla messa in gioco dei corpi.
     Il partito preso del testo non impedisce a Rohmer di intervenire sui circa 9000 ottonari operando un drastico taglio, ciò che egli chiama les choix souvent douloureux, motivato da ragioni economiche di budget limitato, ma non solo: il suo adattamento sopprime una parte delle avventure di Galvano. Il conte di Chretien, non finito e strutturato in due grandi blocchi narrativi interdipendenti che narrano le avventure di Perceval e Galvano, dedica a quest’ultimo circa 4000 versi. Le due parti hanno in comune l’ambientazione nel regno di Artù e un singolo episodio, quello in cui i due si incontrano sulla neve e Galvano riesce a convincere Artù a seguirlo nell’accampamento del re; vengono omesse da Rohmer le ultime due avventure di Galvano: quella della damigella accompagnata dal cavaliere Gregoreas che ruba il cavallo a Galvano, e quella di Galvano prima vittima dell’Orgogliosa di Nogres, poi nel Palazzo delle Meraviglie e alle prese con la prova del Guado Periglioso.
     Proprio il fatto che il romanzo intrecci due storie in montaggio parallelo ha interessato il regista nella scelta dell’adattamento, poiché la forma bipartita del conte gli è parsa così moderna da annunciare certi romanzi fiume del secolo XIX di Romains o Dos Passos.

Il confronto implicito tra le due forme di quête si sviluppa in due diversi registri ironici, che marcano la differenza di attitudine dei due personaggi: tanto Galvano è cortese ed educato, abile nell’uso del linguaggio (negli antichi racconti gallesi veniva chiamato dafod aur, lingua d’oro), tanto Perceval è impulsivo, ingenuo e incapace di utilizzare in modo appropriato il codice linguistico. Tuttavia il percorso di Galvano è sostanzialmente statico, il cavaliere resta uguale a se stesso pur affrontando prove che lo vedono vittorioso. Egli non possiede la fresca energia di Perceval, il suo valore spirituale e non può eguagliare la sua rapida ascesa né la gustosa comicità delle scene in cui il giovane valet è protagonista. Sono significative in questo senso le leggere modifiche che Rohmer ha apportato al testo di Chretien, rilevanti proprio perché è noto il valore di resistenza da rispettare che questo assume per il regista. Questa la suddivisione della sceneggiatura pubblicata nel 1979 sull’Avant-Scène-Cinéma:

     1. “I cinque cavalieri”.
Un mattino di primavera il giovane Perceval, uscito dal castello dove vive con la madre vedova, incontra cinque cavalieri che prima crede dei diavoli, poi scambia per Dio e i suoi angeli. Tenuto all’oscuro dell’arte cavalleresca dalla madre che ha già perso il marito e due figli, il ragazzo, per ora privo di “nome”, guarda inebetito l’equipaggiamento dei cavalieri. I contadini che conoscono il suo stato d’ignoranza temono che questo incontro gli cambi la vita. Rientrato al castello sua madre è costretta a rivelargli la verità e non riesce a dissuaderlo dal proposito di recarsi da Re Artù per ricevere le armi. Prima di cadere affranta dal dolore per la sua partenza, la donna dispensa a Perceval un piccolo sermone sulla condotta da tenere con le damigelle e sull’amore, sulla compagnia dei valent’uomini, sulle preghiere da rivolgere a Dio in chiese e monasteri, che termina col racconto della Passione di Gesù.

     2. “La Fanciulla che dorme”.
Perceval, durante il cammino verso la corte di Artù si imbatte in una ricca tenda che scambia per una chiesa.  All’interno vi sorprende una fanciulla che dorme, ed equivocando sugli insegnamenti materni pretende di baciarla contro la sua volontà, le strappa con la forza l’anello e si rifocilla con disinvoltura del suo cibo. Quando l’Orgueilleux de la Lande torna e scopre le tracce del passaggio di Perceval non crede che la fanciulla piangente se la sia cavata con così poco danno. Decide perciò di condannarla al digiuno e alla povertà più assoluta fino a che l’onta non verrà lavata.

     3. “Artù, la Fanciulla che ride e il Cavaliere Vermiglio”.
Perceval giunge alla corte arturiana, e dinanzi al castello incontra il Cavaliere Vermiglio, che ha appena sfidato il re sottraendogli la sua coppa d’oro. Il ragazzo decide che ne vuole le armi ed entra a cavallo nella sala del re, che trova muto di dolore per l’oltraggio subito. La giovanile irruenza con cui chiede di esser fatto cavaliere provoca le risa di una fanciulla che non rideva da sei anni, che il siniscalco Keu furioso schiaffeggia. Il buffone di corte aveva infatti profetizzato che la ragazza avrebbe riso solo al cospetto del signore di tutta la cavalleria. Nel frattempo Perceval sconfigge il Cavaliere Vermiglio infilzandolo con un giavellotto, e dopo aver vestito la sua armatura parte promettendo vendetta per la fanciulla offesa.

     4. “Gornemant de Goort”.
Durante il suo percorso Perceval si imbatte nel castello di un valent’uomo, il valvassore Gornemant de Goort, che gli offre ospitalità e gli insegna arti e comportamenti della cavalleria. Qui si completa la prima formazione del ragazzo, che prima di congedarsi dal suo maestro riceverà preziosi ammaestramenti: il rispetto della vita dell’avversario vinto che chiede grazia, la discrezione nel parlare, l’aiuto a dame e orfani, l’assiduità nelle chiese per la salvezza dell’anima.  E oltre questi, non ripetere in ogni momento i consigli della madre: quell’ingenua semplicità sarebbe ovunque creduta follia.

     5. “Biancofiore”.
Separatosi dal suo ospite per ritrovare la madre e vedere s’ella goda di buona salute dopo il grosso dolore che le ha causato, Perceval si imbatte nella città assediata di Beaurepaire. La bellissima castellana Biancofiore gli offre ospitalità per la notte e gli chiede di combattere il suo oppressore Clamadieu des Îles: le difese della fortezza sono ormai stremate dal lungo assedio e la resa è prossima. Perceval riceve la sua seconda iniziazione, quella amorosa; forte dell’energia del nuovo sentimento sconfigge in successione il siniscalco Anguingueron e il suo signore Clamadieu, inviandoli a rendere omaggio ad Artù.

     6. “Il Re Pescatore e il Graal”.
Nonostante il suo amore per Biancofiore, Perceval parte per ritrovare la madre e confortarla. Mentre è in cammino incontra il Re Pescatore, reso paralitico da una ferita, che pesca dalla sua barca. Questi lo invita al suo castello, che sorge all’improvviso dal nulla quasi magicamente. Qui il ragazzo si vede offrire un banchetto suntuoso, durante il quale gli vengono mostrati alcuni oggetti preziosi portati ripetutamente in processione da valletti e fanciulle: la lancia che sanguina, il Graal, un vassoio d’argento. Perceval trattiene ogni volta la curiosità e non pone domande, memore dell’ammonimento alla discrezione di Gornemant de Goort, che osserva alla lettera.

     7 .“L’Orrida Fanciulla”.
Il mattino seguente il castello è deserto e Perceval riparte senza aver visto nessuno. Appena passa il ponte levatoio il maniero scompare. D’improvviso dinanzi a lui si para minacciosa l’Orrida Fanciulla, che gli rimprovera di non aver domandato cosa fosse il Graal e a chi servisse: ha sbagliato per eccesso di prudenza. Se avesse parlato, il re sarebbe guarito. Così si è condannato a vagare per lunghi anni senza poter raggiungere la casa materna se non dopo la morte della madre.

     8. “L’Orgueilleux de la Lande”.
Incamminatosi nella foresta, Perceval incontra una damigella piangente vestita di stracci a cavallo di un ronzino. È la fanciulla che ha baciato sotto la tenda e che egli stesso vendica sconfiggendo in duello l’ Orgueilleux de la Lande. Perceval lo invia alla corte di Artù e quest’ultimo, meravigliato dalle sue tante prodezze, parte alla ricerca del valoroso cavaliere sconosciuto dalle armi vermiglie.

     9. “Le tre gocce di sangue”.
La corte arturiana ha eretto le tende su una prateria al limitare di una foresta. L’indomani mattina la neve ha ricoperto il campo, e Perceval giunge su quella spianata. Un’oca selvatica ferita lascia tre gocce di sangue sulla neve che gli ricordano Biancofiore : egli cade in uno stato di sognante incoscienza. Due cavalieri di Artù, Sagremor e Keu, tentano con modi rozzi e sbrigativi di condurlo al campo. Vengono entrambi disarcionati. Allora il cortese Galvano con gentilezza riesce a trarlo dai suoi pensieri e condurlo dal re. Perceval viene riconosciuto e lodato; ha vendicato la Fanciulla che ride e si allontana verso nuove avventure. Galvano invece viene accusato da Guingambrésil di “felonie” e sfidato ad un combattimento davanti al re d’Escavalon.

     10. “La Fanciulla dalle piccole maniche”.
Durante il viaggio Galvano giunge dinanzi a un castello ove si svolge un torneo. Non vi partecipa per preservarsi per il proprio scontro: deve difendere il proprio onore a Escavalon. Una fanciulla lo deride e la sorella minore lo difende ricevendo uno schiaffo. Il cavaliere accetta allora di combattere in seguito alle preghiere della Fanciulla dalle piccole maniche che invoca giustizia: vince il torneo e parte per Escavalon.

     11. “La rivolta della città”.
Giunto alla città, Galvano raccoglie l’ospitalità del signore di Escavalon che ignora la sua identità e intreccia un legame amoroso con la sorella di questi. Viene però riconosciuto come uccisore del padre della ragazza, e la popolazione inferocita corre all’assalto della torre; i due si salvano solo grazie al giovane signore di Escavalon, che fa prevalere i doveri dell’ospitalità secondo il codice della cavalleria. Lo scontro viene rimandato di un anno.

     12. “Il Venerdì Santo”.
Sono passati cinque anni e Perceval non ha ancora trovato il castello del Graal. Ha abbandonato Dio, non è più entrato in una chiesa e non ha più pregato. Il giorno del Venerdì Santo incrocia un gruppo di pellegrini in processione che gli parlano della morte di Cristo e lo indirizzano a un eremita per potersi confessare. Giunto dall’uomo, Perceval in ginocchio gli racconterà l’avventura del Re Pescatore, e conoscerà l’origine del suo peccato: aver abbandonato la vecchia madre, morta per il dolore. Entrato nella cappella il cavaliere rivive interamente la Passione identificandosi con Cristo. Quindi riparte e si allontana a cavallo, solo.

     Rispetto al testo di Chretien, Rohmer elimina l’incontro di Perceval con la cugina, originariamente situato dopo la processione del Graal e la scomparsa del castello del re Pescatore, la quale gli rivelava la morte della madre e gli chiedeva il suo nome, sostituendolo con l’incontro con la Demoiselle laide, dapprima collocato nel momento successivo in cui Perceval raggiungeva l’accampamento di re Artù. La Demoiselle, a differenza della cugina, non gli rivela, bensì gli predice la morte della madre; questa notizia, nel Perceval di Rohmer, verrà data al valet dall’eremita, mentre il suo nome Perceval lo conoscerà solo una volta interrogato da Galvano che vuol condurlo all’accampamento. Nessun cenno, nella traslatio del regista, alla spada magica consegnata dal re Pescatore a Perceval.  Questi cambiamenti al racconto originale sono lievi ma significativi. Il regista nelle note sulla mise en scène lo chiarisce: “A tutte le persistenze della vecchia tradizione celtica, sicuramente ricche di significato, si è data minor importanza rispetto a quello che è sembrato essere l’apporto originale del poeta champenois: il ritratto di un carattere coerente, che vive un’esperienza di trasformazione ed evolve in rapporto ad essa. Sono rimasto meno colpito dal Graal e dalla sua mistica quête, che dal cavaliere in persona e dal suo comportamento in questa avventura.  Meno dalla magia che dalla morale, meno dal racconto esoterico, che dal romanzo di formazione”.
     La triplice iniziazione che il giovane Perceval affronta rappresenta la progressiva educazione di un nice; nel suo ultimo conte Chretien sceglie di mettere in scena non più eroi già cresciuti, imbevuti di ideologia cortese che devono solo interiorizzarne la portata, bensì un ragazzo selvaggio e irruento che attraverso un faticoso apprendistato diventa cavaliere, conosce l’amore e infine la Fede.
     Nella sua versione del Perceval Rohmer sceglie di slegare la presa di coscienza della propria identità da parte del valet dalla rivelazione della propria colpa, dei due atti mancati (il soccorso negato alla madre e il non aver chiesto a che serve il Graal). Questa colpa verrà allora annunciata a Perceval dall’eremita solo alla fine del film e la sua identità, simbolo del compimento della sua educazione e svincolata dal peso dell’errore, si svelerà nell’incontro con Galvano, realizzazione compiuta del perfetto cavaliere mondano, a testimoniare una solida continuità di percorsi. Galvano è l’alternativa razionale alla mistica e all’istintività di Perceval, che grazie alla modifica introdotta da Rohmer può continuare la sua ricerca della verità e di se stesso svincolato dal senso di colpa e dal dovere di espiazione.
     L’apprendistato di Perceval si realizza attraverso un giusto equilibrio di esperienza e uso della parola, come testimonia l’esemplare episodio dell’incontro con Gornemant de Goort: il suo insegnamento è teorico e pratico, poiché egli procede per domande e dimostrazioni ripetute. Il ruolo centrale che riveste il linguaggio nel conte spiega come mai Rohmer abbia scelto di adattare proprio questo testo; inoltre il tema della caduta e della salvezza dell’eroe, impegnato in una quête solitaria che si traduce in viaggio epico ed etico (la sovranità del destino come incrocio geometrico di traiettorie e incursioni del caso), già si delineava nell’estivo vagabondaggio urbano di Jess nel primo lungometraggio di Rohmer, Le signe du lion. Al di là dalle apparenze quindi, la forma e i temi del racconto di Chretien, apparentemente così distante, si pongono in sostanziale continuità con le costanti di poetica del regista.
     Famoso per la logorrea dei suoi personaggi più “contemporanei”, nell’apprendistato di Perceval Rohmer trova l’ambiguità del significante tesa all’estremo tra suono e senso; l’esperienza del mondo per il giovane cavaliere si realizza anzitutto attraverso il dialogo, nell’opposizione domanda-risposta che mostra i limiti e le ambiguità del linguaggio, ma la stessa struttura si ritrova disseminata anche in tutte le opere di ambientazione moderna del regista.  L’opacità della parola, la sua natura duplice e ingannevole fonda letteralmente la poetica rohmeriana, sostenendo il movimento attrattivo-repulsivo tra i due poli sessuali che percorre tutta la sua filmografia: anche nei film storici come Perceval questa tensione si manifesta in modo evidente, come conflitto tra libertà individuale e costrizioni sociali, codici morali. D’altra parte il regista nei suoi film non fa mai appartenere la Grazia alla parola: il miracolo, se si verifica, appartiene allo stato pre-linguistico della visione, che permette di accedere al mistero della realtà in modo diretto e intuitivo: così accade a Delphine nel Raggio verde, così accade al senso mistico dell’esistenza del giovane Perceval.
     Le differenze stilistiche tra le serie ambientate nella Francia e i film di ambientazione storica creano una distanza più apparente che sostanziale; in realtà il cinema di Rohmer sfugge continuamente ad una collocazione precisa nella Storia, alla datazione delle forme che inscena, proprio nel momento in cui finge di affidarcisi. Con le sue parole: “I miei film sono puri lavori di fiction, non mi dichiaro un sociologo, non compilo statistiche… Mi interessa solo mostrare come sono i giovani oggi, ma anche come avrebbero potuto essere se fossero vissuti quindici anni fa o centinaia di anni fa, addirittura gli eventi dei miei film potrebbero realizzarsi nell’antica Grecia, perché sono cose che cambiano poco. Per me è interessante ciò che rimane permanente ed eterno e che non cambia”.
     La vicinanza tra i film appartenenti alle serie più note e quelli fuori serie appare evidente accostando Perceval a Le notti della luna piena, opera del 1984 in cui proprio Luchini-Perceval recita nel ruolo di Octave. In questo film l’atto del vedere devia sempre i protagonisti dalla verità di ciò che accade suggerendo false piste, e un cattivo uso del linguaggio si rivela perdente per i loro scopi; in particolare qui Luchini, che in qualità di Perceval, a causa di un silenzio inopportuno e un’attesa troppo prolungata, aveva fallito la conoscenza del Graal, non raggiunge l’obiettivo (l’amore di Louise) per eccesso di domande ed abuso di parole. La legge della comunicazione è fondamentale, e Perceval la apprende a sue spese: bisogna sapere quando è il caso di chiedere e quando invece è opportuno tacere. La straordinaria verve comica del racconto di Chretien risiede proprio nella serie di gag che s’ingenera a causa dell’incomprensione degli ammaestramenti ricevuti, e Luchini è abilissimo nel rendere il suo sbalordito cavaliere metà allucinato metà stupefatto come un bambino. Il suo continuo domandare, la successiva presa alla lettera dei consigli e il suo silenzio ostinato fanno tutt’uno con la cecità del personaggio, dapprima intransitivo e preda dei suoi desideri, poi più attento agli altri e infine incline alla carità.
     La ricerca del Graal permette a Perceval di prendere coscienza che molte sono le cose da apprendere, e la lenta ascesa alle vette dell’eroismo e della mistica è costellata di imprese e situazioni al limite della parodia. Solo così, attraverso questa sapiente combinazione di comico ed epico, il Dio di Gloria estraneo e astratto che egli conosce al principio del racconto può trasformarsi in Cristo in Croce, debole e umano, con cui lui si identifica in una sorta di sogno cosciente al termine del film.
     Ecco allora qual è la grandezza del Conte du Graal e la straordinaria finezza psicologica di Chretien, nei motivi di una scelta: “I grandi momenti di cinema, in Chaplin e Keaton, sono forse quelli in cui comicità e serietà, che non smettono mai di muoversi parallelamente, si incrociano, si intersecano. Lo stesso succede per Renoir, con maggior sconcerto e intensità”. La comicità del testo evoca altresì per Rohmer un inedito paragone: “Ho detto che c’era del Buster Keaton in Perceval o, più esattamente, che c’è in Buster Keaton qualcosa del cavaliere. Ma il comico di Buster Keaton è più buffo perché di ordine essenzialmente fisico, mentre in Perceval proviene solo dal testo”.
     In quest’archetipo di racconto morale, secondo le dichiarazioni del regista, il finale (come sempre nei suoi film) resta aperto sull’immagine, vicina a molte pellicole di Chaplin, dell’eroe che si allontana da solo su una strada che si perde all’orizzonte, lasciando allo spettatore il compito di giudicare se la quête del Graal cominci o se sia finita.
     Per il giovane Perceval, profondamente umano nelle passioni e negli errori, vincente e perdente a un tempo – e per l’autore Eric Rohmer, finalmente – l’esperienza non è rimandata o elusa, come accade ai protagonisti dei Contes moraux, bensì sofferta e vissuta, accettata completamente, come compimento di un destino.

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Tratto da Zibaldoni e altre meraviglie, Anno Quinto (2007), Terza Serie, del 24 Ottobre 2007.
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1 commento su “Omaggio a Eric Rohmer (II)”

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