Le acque verdi dell’Isonzo, oltre gli argini, scorrono a poche centinaia di metri da casa mia, a Pieris. Fin da piccolo, in pochi minuti, potevo raggiungere di corsa i grandi, aridi greti di ciottoli bianchi dove qua e là, timidamente, spuntavano i fiori gialli di topinambùr. Il verde intenso di quelle acque ed il biancore silenzioso di quelle distese senza fine, che mettevano ancora più in risalto l’azzurro sfolgorante del cielo, iniziavano a diventare, così, i colori della mia anima. Quel paesaggio, conosciuto in ogni sua impercettibile mutazione, nell’oro dei tramonti come nelle nevi sui salici, per me diventava un varco verso l’invisibile, il mondo dei morti, la corrente a cui affidare le mie domande senza risposta. La mano che si posava sul mio cuore per portare pace. Per anni ho continuato, quasi ogni giorno, a camminare lungo le sue rive franose, i boschetti, i greti dove le notti d’estate mi addormentavo con gli occhi perduti in un’infinità buia e meravigliosa che non voleva, o non poteva ancora, spiegarmi il perché del mio essere lì a contemplarla.
A quel tempo, per me, non esisteva nulla all’infuori dell’amore per l’arte e la natura. Erano passioni rapinose e totalizzanti. Dipingevo fin da piccolo, scrivevo poesie e andavo in cerca, sempre, di nuovi libri che mi facessero sognare, oltrepassare con la fantasia il grigiore in cui mi sentivo imprigionato. Vivevo difatti in un piccolo paese, in una zona ai margini dei grandi eventi culturali, abituata, rassegnata direi, praticamente da sempre ad essere tenuta in disparte da tutti coloro che nei secoli qui avevano governato. La gente che ci viveva (allora mi pareva ma, in parte, sbagliavo) non sembrava per nulla interessata alle cose che interessavano a me e, così, vivevo in una situazione di solitudine psicologica, ma anche fisica, quasi totale. Da una parte desideravo dunque distaccarmi in ogni modo da quel mondo che mi appariva limitato, soffocante, privo di slanci ideali, mentre, dall’altra, quella natura continuava ad esercitare su di me un’attrazione fortissima che mi impediva di andarmene. Soltanto lì – pur sentendomi sempre come un esiliato nel mondo – riuscivo in qualche modo ad essere me stesso. Così, pur essendo nato in una famiglia dove non si è mai parlato in italiano (penso di averlo sentito per la prima volta a scuola), per anni ho avuto come una specie di rigetto verso tutto ciò che riguardava il dialetto e la cultura locale. Volevo emanciparmi e, per far questo, diressi ogni mio interesse verso autori come Leopardi, Nietzsche, Schopenhauer, Baudelaire, Rimbaud e poi Char, Saint-John Perse, RilKe, Celan e tanti altri capaci di mostrarmi il mondo da altri, inediti punti di vista. Non volevo, soprattutto, accettare supinamente le cose come mi erano state insegnate; non volevo vivere secondo regole ispirate dal comune buon senso senza aver capito prima se avessero davvero un senso, se non fossero, cioè, il frutto di quelle scorciatoie che sono di solito le paure o i preconcetti. Nell’attesa di trovare qualcuno che mi comprendesse o meglio, più semplicemente, con cui poter parlare, mi abituai così a scrivere e dipingere come uno che lancia le sue richieste di aiuto nel mare del tempo e non sa né dove arriveranno, se arriveranno, e tantomeno se qualcuno le raccoglierà. Ho sempre, e sempre profondamente, vissuto l’arte come un bisogno primario di comunicazione in cui, però, non ci si deve mai porre il problema di essere immediatamente compresi. Possiamo avere la fortuna di essere capiti ed accettati da chi ci sta intorno o da qualcuno che non conosceremo mai, quando non ci saremo più. L’importante è credere che stiamo parlando a qualcuno e lo stiamo facendo soppesando le nostre parole con la bilancia della vita e della morte. In questo senso, davvero, a volte i discorsi più veri li facciamo dialogando con autori scomparsi da secoli, in immaginarie stanze illuminate dalla luce tremante di una candela, o con qualcuno che, ancora non nato, un domani coglierà dai rami delle nostre parole frutti impensati.
Sono arrivato, dopo lunghe e inquiete peregrinazioni, sulla soglia dei vent’anni scrivendo soltanto poesie in lingua e mai avrei immaginato di poter scrivere impiegando quella parlata così come l’avevo appresa a casa “de garzonét” (“da bambino”). Avevo già letto qualcosa di Marin, che stimavo, e di qualche altro autore in dialetto; ma, devo dire la verità, in quel tempo amavo infinitamente di più altri poeti. Come Pasolini, di cui cercavo avidamente in biblioteca ogni opera. Fino a quando non mi capitarono tra le mani “Le poesie a Casarsa”. E, da quel momento, la mia vita cambiò. Quelle poesie davvero segnarono una svolta poichè, fino ad allora, in ciò che scrivevo non mi era mai sembrato di riuscire a definire le cose come le sentivo. L’italiano non era la mia lingua vera, seppure molto amata, e quindi tra le cose e i nomi che le definivano si apriva, per me, come una sorta di abisso incolmabile. Queste cose, devo dire, però le ho capite più tardi; allora, semplicemente, mi sembrava di essere o troppo letterario o troppo sofisticato nella scelta dei termini. In realtà, tutti questi non erano altro che tentativi, perlopiù vani, di restituire a quelle cose la parte per me mancante, la realtà tangibile con i suoi profumi, i suoi sempre diversi colori, una realtà che io avevo conosciuto però con altri nomi. E questi nomi li ritrovai nelle poesie di Pasolini. C’erano difatti, in quelle liriche, molti termini che avevo sentito ed anche adoperato nell’infanzia (il bisiàc, pur essendo una parlata fondamentalmente veneta, ha in comune con il friulano numerosi vocaboli), ma soprattutto – ed è la primissima impressione – ciò che più mi meravigliò fu come quelle parole, che per tanto tempo avevo voluto rimuovere, ritraessero alla perfezione i paesaggi da me tanto amati di queste terre di confine. Il suono di quei termini era un tutt’uno con le cose che definivano, per cui leggevo e, all’istante, vedevo davanti a me rogge, salici, argini come in una fotografia incredibilmente nitida. Questo fece sì che la mia parlata nativa, per lungo tempo snobbata, acquistasse all’improvviso ai miei occhi un prestigio, fino a qualche istante prima, del tutto inimmaginabile.
Da qui nacque anche l’impulso a scrivere in dialetto bisiàc, un raro “sermo rusticus” di tipo arcaico veneto – ma che al suo interno contiene anche numerosi termini ladini, sloveni, tedeschi e francesi – parlato ancora nei paesi del monfalconese. Il che si rivelò, però, una cosa per nulla semplice. Questo soprattutto perchè nel frattempo avevo espunto dal mio lessico quotidiano molte parole che nell’infanzia impiegavo normalmente (e che nel frattempo avevo dimenticate). Non possedevo, inoltre, nemmeno un vocabolario del mio dialetto ma comunque scrissi, come potevo, un certo numero di testi che mi fecero finalmente sperare di essere su una buona strada. Per quasi un’intera annata (era il 1989 e avevo vent’anni) mi dedicai forsennatamente alla scrittura in dialetto ed allo studio di una parlata che non avrei mai creduto così insospettabilmente ricca. Ricordo le notti intere passate a riscoprire termini dimenticati, a scrivere e riscrivere liriche che ancora rimanevano non altro, a volte, che delle traduzioni in dialetto di versi ancora pensati in italiano. Ben presto mi accorsi, anche grazie a persone come l’amica poeta Marilisa Trevisan, che soltanto riappropriandomi totalmente di quella perduta parlata, conoscendola in tutte le sue minime sfumature, avrei potuto creare qualcosa di originale e veritiero. In sostanza, mi ritrovavo ad essere come un pittore quasi senza colori, con pochi pennelli, che vorrebbe ritrarre un paesaggio dalle mille sfumature.
Il dialetto inoltre, in quanto “lingua della realtà” com’è stato definito – anche se di una realtà forse molto più aperta al magico rispetto a quella in cui viviamo – non comprendeva la sfera concettuale, nemmeno nei suoi aspetti più banali (la parola “felicità” non ha corrispondenti in bisiàc). Per cui mi accorsi che, in mancanza di termini appropriati, dovevo trovare altri termini che, una volta accostati, grazie anche alla loro sonorità, potessero alludere a realtà che da soli non avrebbero, forse, potuto mai esprimere. Il tutto sarebbe stato ovviamente più semplice introducendo degli italianismi, andando ad attingere altrove ciò di cui il dialetto era privo, ma era proprio questo suo essere qualcosa d’altro rispetto all’ufficialità della lingua, il suo essere cosa tra le cose e non pensiero che incasella, divide la realtà in categorie, che mi affascinava e che, assolutamente, non avrei voluto mai tradire attraverso gratuite forzature. Per cui ho scelto di rimanere entro quei confini che, come tutti i confini, possono essere visti anche come frontiere di mondi sconosciuti, mondi ancora da esplorare.
Un altro problema, comune ad altri poeti della mia generazione, è che, pur avendo sempre parlato in dialetto, il mondo in cui quel dialetto si era formato ormai andava sparendo, se non era già scomparso da anni, decenni a volte. Avevo avuto la grande fortuna di nascere in un ambiente ancora in larga parte intatto, con una natura ancora onnipresente in forma di fiumi e rogge, alberi, uccelli, animali ma, al contempo, anche l’inquietudine di vivere tra persone che stavano rapidamente e brutalmente recidendo i legami con quel mondo passato – certamente non facile – per addentrarsi nei meandri di una realtà sempre di più ovunque uguale, dove le differenze andavano annullandosi e la meravigliosa varietà dell’esistente perdendosi, a volte, per sempre. Non mi interessava accodarmi a quella corsa di figure bendate, che non condividevo, che mi appariva e mi appare basata soltanto sull’esaltazione del proprio ego, indifferente alle esigenze degli altri e dell’ambiente in cui ci ritroviamo a vivere. Ho sentito che, invece, era necessario per me procedere a ritroso, ritrovare nel passato le chiavi per poter riaccedere ad un’altra visione della vita, fatta di continuità tra ieri e oggi, di sapienze secolari, segrete visioni della realtà. Quelle di cui ancora, a volte, mi facevano partecipi i più anziani o coloro che, per tradizione famigliare, avevano imparato a custodirle gelosamente, come un patrimonio da non disperdere.
Ho sempre pensato a qualcuno, scrivendo, ma non so davvero per chi scrivo. Quel che so è che non sarà certo la difficoltà della lingua ad impedire alla poesia di arrivare, se ne avrà la forza, dove deve arrivare. Le parole di un poeta cinese di mille anni fa, pur tradotto, a volte le sentiamo più vicine di quelle di chi ci vive accanto. Ma forse, prima ancora di pensare ad un possibile lettore, scrivo per avvicinarmi a quel me stesso che sarò, che non conosco ancora, se la scrittura, come la pittura, sono da sempre dei mezzi che mi spingono ad esplorare zone di me, del mondo, in cui forse da solo non mi sarei mai avventurato, come incamminandosi lungo un sentiero senza mai sapere dove porta e chi saremo alla fine – se mai ci sarà – del nostro viaggio.
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Oh, caro Ivan, quanto è bella e piena d’amore e verità questa tua “confessione” sul perché di una “scelta” linguistica. Forse, a volte, non ci siamo capiti, io e te (soprattutto per la mia repulsione a che si insegni il dialetto nelle scuole – ma sai anche le mie motivazioni), eppure mi sembra che abbiamo percorso lo stesso sentiero.
Leggiti, se hai voglia, il mio analogo pezzo “Con la lingua stretta in una morsa”, appena uscito on-line sulla rivista “Trickster” del Master in studi interculturali dell’Università di Padova:
http://www.trickster.lettere.unipd.it/
un caro abbraccio. Con affetto. Fabio
…arte come un bisogno primario di comunicazione in cui, però, non ci si deve mai porre il problema di essere immediatamente compresi. Possiamo avere la fortuna di essere capiti ed accettati da chi ci sta intorno o da qualcuno che non conosceremo mai, quando non ci saremo più. L’importante è credere che stiamo parlando a qualcuno e lo stiamo facendo soppesando le nostre parole con la bilancia della vita e della morte. In questo senso, davvero, a volte i discorsi più veri li facciamo dialogando con autori scomparsi da secoli, in immaginarie stanze illuminate dalla luce tremante di una candela, o con qualcuno che, ancora non nato, un domani coglierà dai rami delle nostre parole frutti impensati.
tutto l’articolo è struggente, di una bellezza che commuove.
ho evidenziato questo passo perché ha una validità universale, al di là della scelta linguistica operata. in mezzo alla confusione piuttosto penosa di scrittori e poeti che, a caccia di conferme che non arrivano, si sbracciano per affermare che la poesia non ha l’obbligo di comunicare, scegliendo fuoritempomassimo la turris eburnea come residenza, lo stereotipo più decadente e scipito che ci sia, ivan crico ammette il rischio della non comunicazione come un evento possibile, ma da evitare pensando sempre di parlare potenzialmente a qualcuno. anche solo per questo l’articolo-confessione è notevole.
ho un ricordo che mi sorprende spesso in questa età di bilanci e memorie: tornavo a dodici anni da un viaggio a budapest. non so per quale ragione il treno non potè passare per vienna e venne deviato per la slovenia e il friuli. mi colpì il tratto in cui la ferrovia correva su uno strapiombo su un fiume (l’isonzo?) azzurro-verde, denso, quasi opaco. nessuno dei grandi me ne spiegò la ragione. ho ritrovato quel colore nell’acqua del mare in cui si gettò saffo, secondo la tradizione: effetto delle rocce gessose. ma mi tornano in mente quell’azzurro speciale e il grigio plumbeo attorno e l’atmosfera selvaggia dell’ambiente circostante.
quella natura non può che generare tenacia, caparbietà, spirito di avventura: e l’avventura delle parole, qualunque sia la lingua, a maggior ragione se la lingua tra le non ufficiali è ancor meno ufficiale delle altre, è l’avventura più pericolosa e attraente.
scusate la lunghezza, ma sono commossa.
Che sorpresa trovare pubblicato qui questo mio testo! Grazie mille, Francesco. E grazie a Fabio, che porta avanti con me un simile cammino, ed al commento, così coinvolgente, di Lucy.
con questo tuo pezzo non solo fai una dichiarazione di poetica, ma ci introduci nel cuore della tua ispirazione e del tuo lessico, nel suo travaglio e nella sua ritrovata luce.
Gli anni del “rigetto” linguisto d’origine, sono proprio quelli che ti hanno permesso il ritorno, la scoperta della profondità delle radici; se non ci si misura con il “resto”, con ciò che sta al di fuori del nostro orto, non si potrà mai comprendere pienamente la fertilità del nostro terreno, o comunque resterebbe una reiterazione di temi e sguardi sterile e improduttiva, chiusa entro il limite del proprio confine.
Riscoprire le vene culturali della propria terra significa proprio rigettarla, uscirne, sradicarsi da essa, è allora che se ne comprende il richiamo e lo strappo lacerante da “ricucire”.
davvero un bel testo, Ivan, che volendo aprirebbe le porte a tante altre considerazioni anche sulla “gretta” chiusura di tanto nord che – appunto – non ha avuto la capacità dello sguardo e del rigetto prima di “tornare” alle radici.
un abbraccio, natàlia
“…prima ancora di pensare ad un possibile lettore, scrivo per avvicinarmi a quel me stesso che sarò, che non conosco ancora, se la scrittura, come la pittura, sono da sempre dei mezzi che mi spingono ad esplorare zone di me, del mondo, in cui forse da solo non mi sarei mai avventurato, come incamminandosi lungo un sentiero senza mai sapere dove porta e chi saremo alla fine – se mai ci sarà – del nostro viaggio.”
Molto bello questo testo di Ivan Crico, che ci partecipa della genesi della sua poesia, delle ragioni profonde nella scelta del dialetto.
Grazie.
Giovanni
@ Natàlia
Il mondo è fatto d’incontri, incroci tra specie vegetali, animali, genti, particolari fenomeni atmosferici che modellano il paesaggio e chi lo abita. Il linguaggio di chi abita in montagna, ad esempio, è attestato, nella gran parte dei casi è molto meno ricco di vocali di chi abita sul mare. Difendere l’unicità del particolare, in un mondo forzatamente globalizzato dalle multinazionali, significa difendere la varietà della vita in genere, ovunque, e quindi non si può non pensare, pensando profondamente al particolare, anche all’universale, a ciò che tutti accomuna. Per me non esistono distinzioni possibili tra gli uomini, tutti sono uguali e devono avere eguali diritti. Ciò che accade nel nostro paese è soltanto il frutto di una politica sciagurata, portata avanti da decenni, in cui un Sud in balìa delle associazioni criminali faceva – e fa, io credo – comodo a chi ci governa. I recenti risultati elettorali, comunque, ci mostrano un Nord allo sbando, privo di prospettive, senso dello stato e civico. C’è poco di cui vantarsi, anche se esistono, non bisogna negarlo, eccellenze straordinarie che non si riconoscono in questa visione, a dir poco, miope.
@giovanni
Grazie di cuore!
è verissimo quello che dici, Ivan, e questo Sud continua a far comodo a molti che, profondamente collusi, gover-nano.
un caro abbraccio a te e tua moglie.
aggiungo una postilla al “nord allo sbando”: un nord che darà sempre più spazio alla frammentazione, dirigendo a livello regionale le scelte degli indirizzi scolastici, introducendo lo studio del dialetto non nel senso di un vero riconoscimento di valori alternativi all’ ufficialità, ma come maglio per distinguere razzisticamente certi parlanti da “certi” altri, nonché stilando degli albi di professori appartenenti o meno ad una data regione (c’è un trafiletto sul sole 24 ore di oggi). sarò una fiera avversaria di questa scelta, anche se amo il mio dialetto e lo coltivo e cerco di non perdere certe espressioni intraducibili del veneziano antico.
così amante del mio dialetto e di tutta la cultura dialettale che non ci pensai sopra due secondi ad accogliere mille anni fa la proposta di laurearmi su un autore dialettale. il piccolo particolare è che si trattava di salvatore di giacomo.
Un grazie a Ivan e alla sua sincerità, a volte poetica, a volte spietata.
Se la scrittura ha un senso, è qui.
E un abbraccio a fm.
Francesco t.
davvero vero bello sentito
non sapere per chi si scrive davvero è il fondamento della grande poetica scrittura
bravissimo
c.
caro Ivan sai esprimere molto chiaramente ciò che anch’io ho nel cuore. Come te sono molto legata ai luoghi dell’infanzia che son gli stessi tuoi. Li ho dovuti guardare da lontano per sentirne l’attrazione. Immagini che sembrano offerte allo sguardo che in quel momento è unico. Ebbene sì nella contemplazione ci viene offerto un regalo…
Gli idiomi locali permettono una definizione di fenomeni, sentimenti, valori caratteristici di un certo luogo per cui ogni qualvolta ci vengono riproposti, e rare son ormai le occasioni, evocano precisamente immagini e sensazioni dimenticate. Per me è il piacere di tornare bambina e questo è anche un gran bel regalo
a parte che l’immagine mi ha fatto fare un salto, perchè davvero il colore dell’Isonzo è quello in diversi tratti (è uno dei fiumi più belli che io abbia mai visto)
ho trovato molto interessante non solo la parte più intima e personale (di ” una bellezza che commuove.” come scritto da lucypestifera)
ma soprattutto quella più di riflessione e anche di vissuta e forte assunzione di responsabilità linguistica rispetto alla propria poetica.
recentemente ho avuto occasione di visitare il centro di dialettologia di Bellinzona
(non sto menando vanto, mi sono trovata lì per caso e per tutt’altro motivo),
è stata una visita molto affascinante dato che ignoravo bellamente che vi potesse essere un interesse internazionale attorno (o anche solo degli studi di qualsivoglia natura)
beh, ho visto cose che voi umani.., scherzo :), ho visto in particolare degli atlanti linguistici incredibili, e un sistema di archiviazione a partire almeno dall’inizio del ‘900 (ma anche prima) che lo è altrettanto.
Quindi, tornando a noi (al tuo lavoro)
complimenti!
ciao.
Scrivere per avvicinarsi a chi si è. Nient’altro. E l’antico poeta cinese tradotto è certo più vivo dei poeti contemporanei. Chi scrive e lascia un segno lo fa per l’inattuale comunità dei suoi lettori. Complimenti a Ivan per il suo lavoro sulla realtà che è così simile al lavoro sul sogno (della lingua).
Marco
Vi ringrazio.
E’ una pagina “bellissima” – e tanto più bella quanto più vera: non c’è una sola parola che sia “costruita”, non c’è un solo accento che non sgorghi – limpidamente – da un’urgenza e da una necessità interiore che si fa parola. Parola-testimonianza che ha la capicità di proiettare chi legge ben al di là del “piano personale” da cui lo scritto ha origine – verso un territorio dove l’unico sguardo possibile è quello che si fonde, insieme a tutti gli altri, col “paesaggio” che si materializza ai nostri occhi: esattamente lo spazio della “commozione” di cui parla Lucy: cioè, lo “spazio della poesia”.
fm
A Francesco e a tutti gli altri che, ovviamente, ringrazio tantissimo. In questo testo ho solo cercato di scrivere ciò che sentivo e sento. Cose fortissime, che dilaniano ed esaltano. La percezione di armonie nascoste, che ti proiettano nel cuore del mondo. Anche se, per molti altri, niente è più lontano dalla realtà di queste cacce di segni invisibili, come rabdomanti che sentono scorrere sorgenti limpide dove tutti non scorgono altro che pietra scura e fango. La poesia, attraverso mille finzioni, rimane comunque il luogo dove dirsi, dire la propria verità, piccola o grande che sia, non importa. Non possiamo essere tutto ma comunque il tutto non potrebbe essere ciò che è senza di noi, senza questo bianco di ciliegi che si inabissano nella notte, il vento che parla attraverso questi rami neri sul blu profondo.
ho avuto modo anch’io di conoscere il fiume isonzo (e i laghetti di risorgiva a romans), una vera meraviglia come tanti altri fiumi e torrenti e risorgive del friuli – che rimane una delle regioni in cui la natura e il paesaggio ci riservano ancora sorpresa e stupore. la wilderness (anche minima è dietro all’angolo, l’abbandono e l’incuria dell’uomo si rivela in alcuni casi paradossalmente salutare e salvifica). grazie del tuo bel testo. un saluto agli amici di rebstein.
roberto cogo
Chiarità di pensiero, emozione, commozione, colore,
luci ed ombre, dubbi e domande che non hanno bisogno di risposte.
Per chi si scrive? Sarà compreso il nostro pensiero?
” The answer is blowing in the WIND..”
Alla fine,(quale?) le mille e più particelle si posano, sulla terra, sul greto dei fiumi, su rive di mari, di oceani.
E noi a raccoglierle, come i piccoli sassi levigati, o ruvide conchiglie.
Grazie Ivan!
Marlene