Le parole si offrono a noi come concrezioni di esperienze storiche, che occorre periodicamente ripensare per evitare che cessino di essere percepite come tali e finiscano con lo stingere nell’uniformità dell’uso quotidiano. Così termini quali «critica» e «commento», se riferiti allo studio dei testi letterari, vengono oggi percepiti quasi come sinonimi. Né d’altronde ci è di aiuto l’idea, anch’essa piuttosto corrente, secondo cui l’uno designerebbe una parte, magari cospicua, dell’altro(1). Risulta alquanto riduttivo, infatti, concepire il commento semplicemente come una tecnica cui il critico ricorre quando si trova a dover elaborare un apparato di note ad un testo che, per una ragione o per l’altra, può fregiarsi dell’epiteto di «classico».
L’esame più attento di questa coppia concettuale porterebbe forse ad evidenziare come le due nozioni corrispondano a esperienze storiche e attitudini teoriche sostanzialmente diverse. Tentare di comprendere quando si fa strada l’esigenza del commento equivale a riportarsi molto indietro nel tempo, risalendo fino all’esegesi omerica che si sviluppa dal VI secolo a. C. in poi. Questa forma di approccio ai poemi è nata sulla base di due distinte necessità: da un lato quella di chiarire il senso letterale, divenuto in molti punti incomprensibile, del testo, e dall’altro quella di razionalizzare tutti quei passi che potevano apparire aberranti (soprattutto sul piano etico e religioso), assumendoli come dotati di valore allegorico(2). La stessa duplice esigenza si ritrova più tardi in relazione al testo biblico, sia in ambito ebraico che in ambito cristiano (con modalità in parte differenti, legate alla specificità delle due culture), dando luogo a secoli di lavoro esegetico, di enorme complessità e raffinatezza. Tutta questa attività commentatoria ha sullo sfondo l’idea della perfezione e onnicomprensività del testo, e quindi la sua, implicita o esplicita, sacralizzazione. Il fatto che fin dall’antichità un atteggiamento non dissimile sia stato rivolto ad opere cui non si attribuiva un particolare valore religioso (si pensi ad esempio all’Eneide virgiliana) ma che venivano ritenute esemplari sotto il profilo letterario, ci aiuta a capire come il commento ai testi profani non costituisca semplicemente la versione secolarizzata, e storicamente posteriore, del commento ai testi sacri. Che si dedichi a libri «canonici» in senso religioso o in senso letterario, che si sforzi di cogliere l’esatto significato dei vocaboli impiegati nell’opera o tenti di discernere in essa più livelli di lettura, il commentatore appare riconoscibile come tale proprio per il fatto di adottare, in modo più o meno manifesto e consapevole, un’ottica sacralizzante.
La critica, dal canto suo, può essere posta in connessione coll’imporsi, in epoca moderna, della forma del saggio, «una forma talmente connaturata alle nostre abitudini che si è involontariamente tratti a considerarla come un istituto perenne, mentre la sua origine è molto prossima», visto che questo «genere letterario che ha per oggetto le opere della letteratura, è invenzione del romanticismo europeo»(3). Tuttavia resta sempre possibile scorgere nella critica qualcosa di più, ossia un particolare atteggiamento nei confronti del testo. Mentre il commentatore, pur non escludendo di fatto dal suo lavoro la componente inventiva, accetta di porsi in una posizione subordinata rispetto all’opera che commenta (e dunque anche all’autore della stessa), giacché si tratta per lui di estrinsecare significati che in essa sono già presenti, il critico guarda al testo senza particolari timori reverenziali. È in tal senso molto significativo il modo in cui una frase di Kant («Non vi è nulla di insolito nel fatto che – tanto nelle conversazioni comuni quanto negli scritti, e mediante il raffronto dei pensieri espressi da un autore sul suo oggetto – si possa intendere l’autore anche meglio di quanto egli intendesse se stesso») viene ripresa e assolutizzata da parte del capostipite della critica modernamente intesa, Friedrich Schlegel: «Criticare significa comprendere un autore meglio di quanto egli ha compreso se stesso»(4). Il critico, dunque, non si pone più «al servizio del testo» né intende rimuovere la propria singolarità individuale, ma accentua anzi l’originalità delle proprie proposte interpretative, persuaso com’è che ciò gli consenta di mettere in luce una nuova, e forse più autentica, immagine dello scrittore e dell’opera.
Benché la cosa possa apparire strana, nel Novecento sono stati soprattutto i filosofi, e non gli studiosi di letteratura in senso stretto, a tematizzare la distinzione fra critica e commento(5). Questo libro ne offre alcuni esempi significativi, esaminando l’opera di tre pensatori assai diversi fra loro, ma accomunati dal fatto di aver cercato di ripensare e ridefinire sia i modi di funzionamento del discorso letterario sia il rapporto che si viene ad instaurare fra testo e lettore.
Così in Walter Benjamin l’interesse per i problemi di ordine metodologico, e in particolare per la chiarificazione dei concetti di critica e commento, può dirsi costante. Un punto di riferimento essenziale in tal senso resta il suo saggio sulle Affinità elettive di Goethe, che precisa il ruolo che va assegnato a queste due diverse forme di interpretazione dell’opera letteraria. Ma la sua riflessione si è rivolta a temi analoghi anche in altri scritti, come la tesi di laurea dedicata al concetto di critica nel romanticismo tedesco o l’importante studio sul Trauerspiel. Con l’accentuarsi, in Benjamin, dell’attenzione per le tematiche politiche, alla critica viene assegnata una funzione in parte nuova, di analisi nel contempo sociologica e filologica dei testi. Infine, nell’ultimo periodo della vita dell’autore, dominato dal progetto di un libro sui passages parigini e caratterizzato, sul piano teorico, da un’originale sintesi fra marxismo e teologia, anche il commento acquista un particolare rilievo, e trova applicazione tanto in rapporto a testi poetici come quelli di Brecht, quanto all’interno di una nuova concezione materialistica della storiografia.
Foucault parte dal desiderio di sostituire alla tecnica commentatoria una «analisi strutturale del significato» e di rinnovare l’idea e la pratica della critica. Poi, in Les mots et les choses, grandiosa indagine «archeologica» sui mutamenti di episteme verificatisi nella cultura occidentale verso la metà del XVII e all’inizio del XIX secolo, egli fa coincidere il primo di tali mutamenti col passaggio da un’età del commento (inteso come ricerca, sotto il testo apparente, di un Testo più originario e più vero) a un’età della critica (nella quale non si mira che a stabilire come funziona uno scritto e quali rappresentazioni indica). Ma la seconda rottura storica coincide a suo avviso con un ritorno parziale del commento, sicché solo da un’ulteriore e auspicabile trasformazione dello scenario epistemologico la nostra cultura potrà attendersi un superamento dell’alternativa tra i due modi tradizionali di affrontare i testi. Il tema del commento ricompare in L’ordre du discours, dove questa pratica figura, assieme alla nozione di autore e al sistema delle discipline, come una delle procedure con cui il discorso viene controllato dall’interno. Anche se in seguito gli interessi di Foucault si spostano verso altri campi, nei suoi scritti e interventi trapela a volte la speranza che possano emergere nuovi modi di lettura, meno prevedibili e codificati.
Jacques Derrida, in De la grammatologie, considera la forma del commento al tempo stesso necessaria e insufficiente, in quanto tende a (o piuttosto finge di) limitarsi a «raddoppiare» l’opera commentata, ma non manca di avanzare riserve anche sui metodi di tipo interpretativo, troppo inclini a scavalcare il testo per cercare fuori di esso ciò che ne determinerebbe il senso. Quella da lui auspicata è una lettura-scrittura, più produttiva che riproduttiva, distante sia dalle illusioni contenutistiche che da quelle formalistiche. Ciò non significa però, come hanno creduto alcuni, che la «decostruzione» di cui gli viene attribuita la teoria vada intesa come un nuovo metodo critico. D’altro canto la propensione a considerare certi testi come dotati del potere di decostruirsi da sé, prima e meglio di quanto possano farlo i lettori, riconduce Derrida ad una prospettiva di tipo sacralizzante. Anche nelle opere più recenti, il filosofo sembra voler associare il funzionamento degli scritti letterari all’elemento del «segreto» e all’indecidibilità del loro stesso statuto testuale; da ciò consegue l’impossibilità di esaurire i tentativi di lettura o di decifrazione, idea che, sia pure in un diverso quadro concettuale, costituiva già un assioma tipico dell’ottica commentatoria.
Come risulta da questi semplici accenni, i tre autori si sono confrontati in maniere diverse con i concetti di critica e commento, spesso nella speranza di superarli, di lasciarseli alle spalle. Anche se i loro sforzi in tal senso si sono rivelati ardui, poiché i due modi che la nostra tradizione culturale ha elaborato per rapportarsi ai testi hanno dimostrato e dimostrano tuttora una tenuta (o, se si preferisce, una vischiosità) insospettata, la ricerca messa in atto da Benjamin, Foucault e Derrida non può certo dirsi vana. Persino la pluralità di soluzioni teoriche che ognuno di essi ha offerto, durante le varie fasi della sua opera, per rispondere all’esigenza di definire esattamente, ma anche di oltrepassare, le nozioni di critica e commento, non va vista come un segno di irresolutezza, ma come un prezioso ausilio a chiunque voglia, oggi e in futuro, cimentarsi con lo stesso problema. Infatti, come ricordava uno di loro, «ciò che conta nelle cose dette, non è tanto quel che gli uomini hanno pensato al di qua o al di là di esse, ma ciò che da subito le sistematizza, rendendole, per il resto del tempo, indefinitamente accessibili a nuovi discorsi e aperte al compito di trasformarle»(6).
(Premessa a Giuseppe Zuccarino, Critica e Commento (Benjamin, Foucault, Derrida), Genova, Graphos Edizioni, “Saggi”, 2000.)
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Note
(1) Idea sostenuta ad esempio da Northrop Frye: «La maggior parte dell’area centrale della critica è ora, e senza dubbio sarà sempre, l’area del commento» (Favole d’identità. Studi di mitologia poetica [1963], tr. it. Torino, Einaudi, 1973, p. 6).
(2) Cfr. P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria (1975), tr. it. Parma, Pratiche, 1979, pp. 17-19.
(3) G. Contini, Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, Firenze, Sansoni, 1968, pp. 3-4.
(4) Cfr. I. Kant, Critica della ragione pura (1781), tr. it. Milano, Adelphi, 1976, p. 375 e F. Schlegel, Frammenti sulla poesia e sulla letteratura 1797-1798, in Frammenti critici e poetici, tr. it. Torino, Einaudi, 1998, p. 216; per un’osservazione simile, si veda ibid., p. 78. Lo stesso principio sarà formulato pochi anni dopo da un teorico dell’interpretazione vicino a Schlegel, ossia F. D. E. Schleiermacher: «Si deve comprendere altrettanto bene e comprendere meglio di chi scrive» (Il primo abbozzo dell’Ermeneutica [1805], in Ermeneutica, tr. it. Milano, Rusconi, 1996, p. 91).
(5) Sorprende ad esempio il constatare che René Wellek, nell’Introduzione alla sua monumentale Storia della critica moderna (tr. it. Bologna, Il Mulino, 1961; 1990, pp. 3-14), non affronta minimamente il problema.
(6) M. Foucault, Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical, Paris, P.U.F., 1963; 1983, p. XV (tr. it. Nascita della clinica, Torino, Einaudi, 1969; 1998, p. 13).
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Nota biobibliografica
Giuseppe Zuccarino, nato nel 1955, è critico e traduttore. Ha pubblicato varie raccolte di saggi (La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009) e di frammenti (Insistenze, Genova, Graphos,1996; Grafemi, Novi Ligure, Joker, 2007). È il curatore di due volumi collettivi: Palinsesto. I modi del discorso letterario e filosofico (Genova, Marietti, 1990) e Le trame parallele. Letteratura e arti visive (Genova, Graphos, 1996). Ha tradotto, fra l’altro, libri di Mallarmé, Fénéon, Klossowski, Caillois e Barthes. Suoi scritti sono presenti in numerose riviste italiane e straniere. È redattore della rivista «Arca».
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Molto interessante questa sintesi, anche se, mi pare, con dei limiti (ad es. nell'”accenno” a Derrida manca il riferimento alla sua critica, fondante, al logofonocentrismo, che applicò anche nei confronti del discorso lacaniano), ma credo siano i limiti stessi di una “premessa”. Bisognerebbe leggere il (credo introvabile) libro.
Il libro è al post successivo: integrale, non più introvabile, comprensivo anche della quarta di copertina…
fm