prova di espansione
giallo lampione
non c’è
in fondo al dizionario
nella tavola sinottica dei colori come si fa
a descriverlo a parole
dicono
che sia il migliore nel coniugare
consumi basso fotoinquinamento e resa
lo dicono anche quelli
dell’osservatorio astronomico nella mia
stessa via
soddisfatti del Comune che ha rifatto
giallo lampione tutta la contrada
[…]
(Continua a leggere qui…)
Mario Bertasa – Prova di espansione
***
“espandere provoca ristrettezze” (urca che titolo!)
beh,
bypassando qualche riferimento a teorie economiche sulle quali si potrebbe discutere (se ne fossi in grado), io leggo di interazioni (per esempio: fuori-dentro, moltitudine-singolo, pagina vuota-verso scritto… ecc..) che non avvengono per osmosi, ma per azione-reazione, (centrifuga di fuga-centripeta che schiaccia) , in disequilibrio,
il che è forse lo stato dell’arte dell’umano,
stato in itinere che contraddice quello delle magnifiche sorti e progressive
(quello dell’espansione senza ristrettezze)
stato però che nella sua refrattarietà all’osmosi, risulta diffidente rispetto alle polpette della omologazione, al pout pourri (per dirla in breve e in modo più fine :)).
Così, capita che, ad una fase di “prova” (di espansione), anche temporale,
prova nella quale risulta emblematico (e molto bello) quell’interrogarsi sul “giallo lampione”, giallo non ancora classificato, dunque non ancora del tutto metabolizzato epperciò capace di espandere (o anche illudere rispetto a) le possibilità energetiche e di illuminazione
“si è già diffuso ovunque per tali qualità
/colore dominante” (!!)
giallo che “fa tutto
/più filtrato più reidratato più dopo-sole
” (evvai con la dissoluzione osmotica in tentazione)
giallo sole che espande caldo i corpi
contro il bianco – nulla freddo che, contratto, li raggela, e li staglia infine soli
giallo che, ricordiamolo, ancora in “prova”, ecco che comincia ad incontrare l’ombra
quel grigio che “non può” non “esserci”, perché se la luce si espande, il buio si contrae.rapprende
(ma vale anche il viceversa
e allora il moto che contrasta è dentro questo passo bellissimo:
“intimano
/certe notti
/alle labbra di non schiudersi”
(di non espandersi)
“trattenere il liquido
/che un bacio potrebbe scialacquare
(ancora l’espansione) “/trattenerlo” (contrazione) “per la sicura siccità
/che un ritmo ossesso di albe chiare
/roventi (caldo espanso) “fra le carezze fresche” (freddo contratto) “della terra/sta già intonando
” (bellissimo questo moto che si immagina ascensionale – di nuovo in espansione – del ritmo (quindi di un suono alternato) che però si prevede porti a siccità (secchezza contrazione)).
Bon, ecc… a continuare (c’è quello “lo svuotato della notte fonda” o anche “da dove lo giri l’imbuto strozza / slargo _” che mi fanno),
ma devo finire il periodo :)
dicevo
capita che ad una fase di “prova” (di espansione)
si arrivi alla strozzatura della “clessidra” a quella sabbia che espansa ora deve sgranellare per passare, e siccome la clessidra porta al tempo ed è a tempo,
ecco che è il collo spazio temporale quello che
“sistemo, scrivo” (in opposizione al caos)
“le riscritture” (come dilatazioni espansioni del testo, ma anche come sistemazioni-contrazioni, come approssimazioni successive ad uno spazio rarefatto foglio bianco, o, viceversa buco nero fitto fitto)
e anche qui il
“perché non può più essere così?”
come domanda spazio temporale, esistenziale, alla quale non si può rispondere se non in dubbio di negazione:
“forse non è giusta la domanda”.
Mi fermo qui, anche se quella “faringite allergica”
una reazione dunque al dunque (che tras-muta), è davvero ottima.
Ciao!
(scusa eventuali errori, non riesco a rileggere)
il grazie, Francesco, si raddoppia, perché senza certi “rimproveri minacciosi” spesso la “prova”, e Margherita tanto ne rispecchia la molteplicità delle valenze, rischia di rimanere dentro la valenza primaria, appunto, di esperimento confinato nella pur vitale “enclave” del laboratorio in cui viene ideato, attuato e messo a prima parziale verifica
(parziale perché almeno una linea retta – euclidea, ovviamente – si traccia fra due soli punti di osservazione, quello dell’autore e quello del testo, ma l’assenza di quello del lettore non permette altre geometrie, anche non euclidee)
quindi anche il grazie, Margherita, per la lettura (ma in così poco tempo come hai fatto a capire così tante cose del mio modo di procedere?) vuole essere appunto una conferma di quanto ha fatto bene Francesco a farmi sentire il fiato sul collo per dare una stretta a questo “stato dell’arte II” che ha atteso per un anno, se non più
Strozzature, espansioni, contrazioni (la “strozzatura della clessidra” di cui parla Margherita) mi fanno venire in mente vere e proprie sequenze musicali, come canoni o passacaglie “in forma di parole”.
Grazie della lettura.
Marco
una operazione interessante, specie sotto il profilo prosodico-ritmico. Complimenti, confesso che è la prima volta che incontro versi di bertasa.
beh, Mario, visto che vengo dal post sulla “lettura impossibile”, mi ha colpita molto l’osservazione nel tuo commento
relativo ai “due punti di osservazione” che generano una linea retta (una geodetica), o linea dell’orizzonte autore-opera,
rispetto
ai tre punti, lettore incluso, capaci di generare una triangolazione geodetica, per quando i due punti non sono così chiari :)
ottimo anche il riferimento alle geometrie non euclidee,
certo se si pensa
che per il punto di osservazione del lettore, esterno alla retta generata dall’autore – opera, possa passare una ed una sola retta e parallela!
beh, questo è l’assioma della lettura, che non so se definire, “perfetta”
(perfettamente allineata, e in modo unico, all’autore-opera)
credo invece che qui valgano proprio le geo non euclidee,
una lettura iperbolica che diverge in infinite rette parallele,
o una ellittica che converge (o collassa) in nessuna.
ciao ancora!
ricambio, Marco, Manuel, e ancora Margherita (eeeh… nasciamo euclidei, moriamo non-euclidei…).
mi collego all’altra discussione, quella su “Nottario” di Marco, ne raccolgo la sollecitazione su Giacinto Scelsi, per me uno dei più grandi musicisti italiani della nostra epoca – e l’ostracismo nei suoi confronti, giunto perfino a negargli spocchiosamente la paternità delle sue opere, è purtroppo stato direttamente proporzionale al valore, ma toglierei pure la riduzione aggettivale dell’area geografico-culturale di appartenenza, “italiano”, perché sul piano internazionale credo non abbia avuto che pochissimi contraltari (es. Stravinsky) nella costruzione di una poetica compositiva volta ad indagare il molteplice e il difforme nell’altissimo scarto formale fra un progetto compositivo e l’altro (e in effetti facendo il gioco di chi l’accusava di aver imposto solo la firma su lavori di un’oscura gruppaglia di ghost-composer di cui comprava il silenzio; ed ascoltando un certo numero di suoi lavori si ha davvero la sensazione che non siano scritti dallo stesso autore, perché è vero, non erano scritti dallo stesso Scelsi, ma dai tanti Scelsi cui di volta in volta dava voce, perché applicato con dedizione radicale a sviscerare uno e un solo punto di vista/ascolto ogni volta diverso
insomma, anche se per anni gli amici mi hanno sfotticchiato per i miei ossessivi rimandi a quell’altro grande musicista italiano che è stato John Cage (ah, ah, ah! – chi ha letto “Opera aperta” di Eco, con la celebre analisi del concorrere di Cage a “Lascia o raddoppia” nel 1958, può capire perché mi viene troppo da ridere nell’aver trovato questo attributo sic et simpliciter per quello yankee fino al midollo che era Cage), ebbene, Cage quanto assai ha influenzato la mia visione del mondo, del teatro, della musica, tanto poco ha influenzato quella della scrittura poetica; al contrario Scelsi ha influenzato soprattutto quest’ultima
ma soprattutto mi colpisce-stupisce, Marco, il tuo riferimento alle forme musicali del canone e della passacaglia, che a differenza di tante altre forme strumentali dell’età barocca hanno paradigmaticizzato la modalità compositiva della continua variazione melodica interna (A, A’, A”, A”’, A””, ecc.) di contro alle modalità bi- e tritematiche (A, B) (A, B, A), mi colpisce perché non lo dico mai esplicitamente ma quella tecnica è di fatto la sostanza della ricerca che qui ho voluto sviluppare entro la dimensione dell’espansione. Prima che risonanza metaforica e vitale, è espansione tematica, espansione di alcuni lacerti della prima parte del “poemetto” nella seconda, e della seconda nella terza e quarta parte, prima del transito “nel collo della clessidra” che invece avviene per ritrovamento di analogie d’immagine e procedura in due testi originariamente spremuti autonomi
un esempio, riprendendo quel passo già riattraversato da Margherita:
intimano
certe notti
alle labbra di non schiudersi
trattenere il liquido
che un bacio potrebbe scialacquare
trattenerlo per la sicura siccità
che un ritmo ossesso di albe chiare
roventi fra le carezze fresche della terra
sta già intonando
dove la “sequenza acquorea”: schiudersi di labbra – liquido – bacio – siccità – e la coppia petrarchesca chiare – fresche (pensando appunto, nonostante il “fresche” posto all’incrocio di “ritmo di albe[aria]/roventi[fuoco]/carezze-terra”, alle “dolci acque” in crossover con le “albechiare” di vascorossiana memoria, lo so, fischia, ma mai avere paura dell’ovvio) è l’espansione della “sequenza acquorea” disseminata nella prima parte: “vasche (già qui espansa fino al senso di quelle passerelle che si fanno di sera in certe vie di certi centri storici) – esibizione di parti del corpo (tranne che le labbra, però) – deglutire – gelato – reidratato – raggelare – nevicata”, prima di chiudersi con il, flebile, absurdum “ritmo – intonare” (un ritmo, più o meno ossesso che sia, non intona, nel senso comune…) che sposta sull’acquoreità del suono (ONDA espansa nell’aria) la soluzione del transitare fra gli opposti della presenza-assenza di H2O – Tutta l’espansione, del resto, è preannunciata dal “nuvoloso” che apre la seconda parte nel segno di quel grigio di cui Margherita ha colto nel segno – e l’intonare lancia così la terza, brevissima parte, ecc.
il “ritmo ossesso che intona”, nella posizione in cui sta nel testo, non è altro che un modo per tradurre un moto di autocoscienza (moto necessario al rilancio dell’espandersi) per quell’inclinare alla dimensione prosodico-metrica, di cui il tuo orecchio, Manuel, coglie. Dimensione che novecentescamente in musica si pone come spazio rifondativo del melos ancestrale (in un arco che va dall’etnomusicologia di Sachs ai “Canti del Capricorno” di Scelsi, ecc.), in contrasto con le teorie musicali di impronta razionalista su cui intere generazioni di musicisti si sono formati nei conservatorii, dove appunto linea melodica e linea ritmica sono state oggetto di distinte collocazioni e trattazioni
((fra gli ambiti della mia ricerca, quello su molteplicità/difformità interna alle proprie scritture, e quello sulla musicale “variazione su tema” si possono “risguardare” nel web:
– il primo nello “Stato dell’arte I” che Francesco aveva qui in Rebstein accolto-sollecitato l’anno scorso
https://rebstein.wordpress.com/2009/02/06/stato-dellarte-i-di-mario-bertasa/
nelle “biblioluzioni” uscite fine 2007 su LiberInVersi,
http://liberinversi.splinder.com/post/14671952#more-14671952
e nel “Discorsetto 23” inserito da Massimo Orgiazzi nel suo La Stanza Cinese
http://lastanzacinese.splinder.com/post/17842310#more-17842310
– il secondo in “…alle mie dislocazioni”
http://www.dislocazioni.blogspot.com/
e nella blog performance “Atroce”
http://obviamens.splinder.com/
oggi inclusa nell’antologia “Mappa Giovane: voci poetiche di Monza e Brianza” curata da Dome Bulfaro, Poesia Presente, edita da Le Voci della Luna, giovedì prossimo “live” a Giussano (MB), Biblioteca Civica: http://www.poesiapresente.it/news/9-news/76-luigi-cannillo-mario-bertasa-marco-bin-a-giussano-giovedi-20-maggio.html))
Anche io per la prima volta incontro i versi di Mario, con cui però mi sono incrociato più volte sul web nell’ambito dei suoi commenti. Ecco, riparto da qui: Mario, come si vede sopra, sa essere molto incisivo e profondamente razionale nell’analisi, attento, curato. E’ per me un effetto straniante come la stessa forma mentale si traduca in versi differenti da come me li sarei aspettati, per i registri linguistici ed espressivi utilizzati, che sanno essere franti, secchi, o altrove ritmici e continui. Sto cercando di smontare il giocattolo (anche se in parte lo hai già fatto tu qui sopra, Mario) per seguire come tu ci sia arrivato, ma senza dubbio è una proposta inattesa e valida, molto molto interessante.
Francesco t.
grazie Francesco t. (Tomada, giusto? temo sempre di perdere qualche pezzo…) per il tuo rispecchiamento, preziosissimo tanto quanto quelli che lo hanno preceduto
però non è la prima volta che leggi un mio lavoro poetico: quando era uscito “Stato dell’arte I” sempre qui in “casa Rebstein” avevi lasciato commenti di cui conservo ancora un caro ricordo – ma sono cose che succedono! pensa che proprio non molto tempo fa mi sono ritrovato a cena a fianco di una persona davvero squisita, Sergio La Chiusa, e dopo un tempo indefinibile di varie chiacchiere ci siamo resi conto di esserci già incontrati proprio qui nella Dimora, quando avevo lasciato un paio di commenti ad un suo lavoro: https://rebstein.wordpress.com/2009/02/04/cinque-tavole-di-pieter-bruegel-di-sergio-la-chiusa/
così è la vita…
ma immagino ci sia una ragione meno superficiale di questo tuo lapsus (scusa se ricorro ad un termine freudiano, anche se il ragionamento che segue di freudiano ha ben poco), ed è che quello “stato dell’arte” e questo presentano evidenti differenze di scrittura. Per cui è facile smarrire il sentimento della ricorrenza stilistica che tanto facilita autore e lettore nello stabilire un colloquio per il tramite della pagina. Siamo tutti un po’ figli di Theodor W. Adorno, sì, anche quelli che non l’hanno mai letto (o come me non hanno ancora terminato di leggerlo), che sulla funzione consolatoria dell’arte, e sulla necessità di non accondiscendervi, ha segnato sicuramente uno spartiacque nell’estetica contemporanea. Ecco, la costruzione di uno stile riconoscibile è coerente con la realizzazione di tale consolazione. Adorno considera la dimensione consolatoria dell’arte (ne parla in particolare a proposito della musica, ma il concetto mi sembra tranquillamente estensibile), nel suo orizzonte sociologico, per così dire un grave freno al provocare istanze di cambiamento, necessarie per il superamento di una crisi e l’affermazione di un nuovo orizzonte valoriale, nonché un mero inseguire dinamiche di mercificazione più o meno massiva (se l’arte è un’ottima medicina, perché non puntare ad una multinazionale del farmaco estetico…).
Io mi fermo al solo rapporto autore-fruitore: l’autore che si fa riconoscere attraverso una sua spiccata cifra stilistica entra senza accorgersene in una trappola, quella di non poter più deviare da essa pena la non riconoscibilità. E’ chiaro che in fondo è “comodo”. Però questo meccanismo è anche la tomba della creatività. Come quella che qualcuno diceva essere “la legge del terzo album”: di quei rocker che dopo aver “spaccato” con l’album d’esordio muoiono dalla voglia di fare il bis (e guai a farlo diverso!), lo fanno, non va male (anche se non è mai ‘sta gran figata) ma all’altezza del terzo: o si sciolgono prima; o lo fanno perché li contringe il produttore – e ne esce una schifezza; o decidono di fare di testa propria, tentano una nuova strada e vanno a sbattere contro un muro di incomprensione. Quelli davvero bravi, vanno sulla nuova strada, ne escono con le ossa rotte, ovvero vendite nel precipizio e schiera di fan molto ridimensionata – ma ormai fan disposti a tutto!…
Quello che tu cogli rimanda parecchio ad una dimensione su cui lavoro in modo quasi forsennato, quella della consapevolezza, o meglio dell’autocoscienza dell’atto creativo. Bene irrinunciabile laddove proprio il primato della coscienza, e del suo riflesso trasparente nella costruzione artistica, dovrebbe essere intoccabile. Ma oggi i sistemi estetici dominanti, almeno in occidente, hanno la loro sussitenza proprio nel misconoscimento di tale primato: un’inedita, subdola, invisibile, ossessa inquisizione, atta a colpire le arti ree di tradire gli orizzonti di attesa del loro pubblico, giudice supremo, ree di non parlare la lingua del loro stesso uditorio (ma allora a che c… serve la poesia se non è predicato dell’alterità?); una censura più “miscredente” e cinica di quanto ci si possa aspettare sotto i panni della sua patinatura emozionale e della sua ideologia tecnocratica.
Il giocattolo da smontare allora ha senso solo se, come nel celebre film d’animazione “Toy Story”, con l’epifania della sua segreta vita animata autonoma, può far pigliare un accidente, irreversibile, al bambino sadico, Sid, che nella manipolazione trash dei suoi giocattoli sfoga pulsioni di potere miranti al dominio sconfinato sui simboli dell’esistenza.
Hai ragione!
Mi era uscito di mente, come molte altre cose… la tua memoria è migliore della mia.
Grazie della risposta, e delle tue considerazioni mai banali.
Un salutone.
Francesco Tomada
Un bel lavoro Mario, il ritmo dei versi lo si segue con un certo stupore.
In certi punti sono tornata a rileggere come riconoscendo un paesaggio:
“”eppure alla finestra si appoggia l’eterno sufflare cupo che di là dalle case,
e dopo queste case altre case e qualche campo, da qui alla tangenziale,
accompagna lo svuotato della notte fonda
accompagna il latrato
di tre cani, tre case più in là,
che per meno che una canzone
si scambiano impressioni”
forse perchè abito in una piccola frazione di poche case, tra campi e tangenziale, forse semplicemente perchè quello scorcio mi piace.
Come mi piace il modo di procedere. Complementi e un saluto.
grazie anche a te, Nadia.
Sono sempre affascinato dal riconoscersi nelle circostanze emozionali di un testo per il semplice ritrovamento di una coincidenza, da un’esperienza attuale come da un vissuto rievocato. E ciò accade nonostante uno si curi di marcare il campo, di precisare l’unicità della circostanza: “tre cani, tre case più in là”. Che era esattamente così nel momento in cui accadeva quel vissuto poi trasfigurato; e in filigrana è anche un richiamo ad un retroterra che si sovrapponeva in dissolvenza a quel tratto milanese di Tangenziale Est che traccia una sorta di confine Sud alla Brianza, il retroterra che vi si sovrapponeva è la strada di fondovalle della Media Valseriana, che fa lo stesso “sufflare” dopo una certa ora di notte, e che altre volte avevo ascoltato, quando vivevo là. Di tutto questo mi accorgo solo adesso che scrivo, ma sulla scorta di un fatto che mi era ben presente elaborando la “prova di espansione” e cioè che l’accostamento di “tre cani” e “tre case” è stato guidato dal mio substrato dialettale bergamasco, dove col monosillabo “ca” si indicano tanto il/i cane/i quanto la/le casa/e.
Inoltre la relazione finestra-paesaggio è fondamentale nel mio immaginario, un vero e proprio oggetto-cosmo, un “frame” (incorniciatura) che contiene il rapporto col mondo, suggestionato dai frame analoghi di cinema, fotografia, web, foglio bianco… È la finestra che inaugura qui la strozzatura del paesaggio, dal campo aperto delle vie del centro di Monza, all’imbottigliamento nella metropolitana (dove dai finestrini si vede solo nero). Fino a ritrovarsi, nelle “ristrettezze” finali, davanti allo specchio, il frame che è simbolo di tutti gli altri frame. In altri miei lavori la finestra è luogo dove rilucono gli spettri, porta d’accesso al mondo dei morti, un segno indelebile che mi ha lasciato Fortini durante una sua “lectio magistralis”, su Sereni (e quella volta, più di 20 anni fa, nell’aula universitaria da 400 posti, non erano rimasti posti liberi), un segno su cui ho esercitato più d’una “prova d’espansione” (conto di darvene presto notizia…!).