Cartoline di oscura grazia

Franco Arminio
Domenico Scarpa

«Stavo giocando a biliardo. Poi la solita storia: fatelo bere, fatelo sedere. Qualcuno che ti tocca il polso, qualcuno che pronuncia continuamente il tuo nome». La solita storia è quella che tutti sappiamo ma nessuno di noi conosce. In Cartoline dai morti – il titolo del libro e questo primo campione basteranno a capire cos’è – Franco Arminio ce la fa vedere dall’altra parte, dalla prospettiva appunto della morte. Arminio, che si definisce «paesologo» ossia visitatore e curatore di piccole geografie malvive, si trova stavolta a essere lui stesso una destinazione; le cartoline che ha raccolto sono 128, la più lunga copre tredici righe, le più brevi un rigo solo, la misura media è sulle tre-cinque righe, due o tre frasi che gli bastano ad aprire uno spiraglio narrativo: «Mio marito mi ha gettata nel pozzo. Gli è venuta una furia, una forza che non gli avevo mai visto. Ho gridato mentre mi trascinava, ma non c’era nessuno, solo le rondini che facevano avanti e indietro per farsi il nido sotto il tetto della nostra casa».

Nella sua energia lirica apparentemente impoverita, Cartoline dai morti non c’entra nulla con l’Antologia di Spoon River: i suoi morti non chiedono niente, non vogliono insegnarci niente, non emettono sospiri patetici. I paragoni (non i modelli) vanno cercati altrove, nelle Bestie di Federigo Tozzi e soprattutto nelle battute finali del Re Lear, quando Lear entra in scena tenendo sulle braccia Cordelia che non vivrà mai più – «never never never never never» – e un momento prima di schiantare a sua volta dal dolore si rivolge a Edgar, Kent e Albany con una frazione di voce: «Pray you, undo this button», per piacere slacciatemi questo bottone. Arminio ha saputo raccogliere tanto il dislivello tra futile e solenne quanto la loro coerenza. In un artista impaziente com’è lui, le Cartoline sono il risultato più alto (il più compendiario) perché sono il frutto di una pazienza tanto lunga a incubare quanto fulminea a scoccare: ogni pagina è il risultato di una grazia oscura, che chi ne è toccato deve implorare che smetta di scendergli sul capo: «Lo sguardo del panico dilata i sensi, li fa grezzi, non hai tempo di raffinare, di romanzare» si legge nella Nota conclusiva.

Vista dalla prospettiva della morte, la vita si chiarisce e si capisce. È una linea spezzata fatta di brevissimi momenti, che dicono tutto senza sparpagliarsi perché la voce che viene di là sa fonderli in un oggetto completo; così, la vita è un oggetto, e la morte è la voce: «Quando mi hanno detto che avevo il cancro non sono più uscito in piazza. Me ne andavo in campagna con la macchina. Abbassavo un po’ i sedili e aprivo i finestrini per prendere aria». Cartoline dai morti è tenuto insieme soltanto dal suo ritmo e da quel morso alle redini che è il farsi improvviso dei testi. È un libro che parla essendo muto, è uno schedario di storie senza appiglio: l’ansia che emanano deve fare a meno dell’io, così come la storia che narrano deve rinunciare allo scorrere del tempo, ed è così che la scrittura vive – dalla morte – la sua vita perfetta, sciogliendosi dai vincoli della persona e della durata.

«Io sono morto di vecchiaia, anche se non ero tanto vecchio, avevo cinquantanove anni»: Franco Arminio, cinquant’anni, originario di Bisaccia nell’Irpinia d’Oriente, sa praticare anche un umorismo non depressivo e tantomeno nero: un umorismo di deflazione. Il suo talento consiste nel dare levigatezza a una violenza percettiva asimmetrica, da cui la frase viene fuori come in una specie di controsistole. Cartoline dai morti non è solo il suo libro più bello, più maturo, più intimo, e il più sfaccettato nella sua compattezza. È un libro che impone alla letteratura una nuova «forma semplice»: nel 1930, alle forme semplici (Einfache Formen) dedicava uno studio memorabile André Jolles, che ne contò dodici. Oggi Arminio viene a prendere posto come tredicesimo a questa tavolata illustre senza dover temere nessuna disgrazia.

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Franco Arminio, Cartoline dai morti, Roma, Edizioni Nottetempo, Collana “Gransassi”, 2010.

L’articolo di Domenico Scarpa è apparso su Il Sole 24 ore, 28 Novembre 2010.

Alcuni testi poi confluiti nel libro erano già apparsi su questo blog qui e qui.
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26 pensieri riguardo “Cartoline di oscura grazia”

  1. stimolante e direi da approfondire, mi piace questa scrittura in forma di “cartoline”: coincidenza vuole che, ieri, rimettendo in ordine un libro ottocentesco di natura giuridica che non aprivo da tempo, salta fuori una vera cartolina postale scrittami da un tale in inglese e da un luogo mitteleuropeo e di cui non serbavo (e serbo) ricordo alcuno! chi mi ha scritto? perchè? e mi lascio suggestionare…

  2. L’invito è a leggere anche gli altri libri di Franco Arminio: uno dei pochi scrittori che rende ancora credibile la letteratura italiana, a fronte di un flusso ininterrotto di cazzate, da hit parade del nulla, che riempiono le librerie.

    I miei complimenti a Domenico Scarpa, che ha scritto davvero una gran bella recensione, anche per gli spunti critici che suggerisce sull’intera opera del nostro.

    fm

  3. Sì, Arminio è un grande e lo è con …grande semplicità, con uno straodinario fulminante dono: la sintesi. Più che per accumulazioni, dà il massimo per sottrazioni. Scrittura piana ma non piatta, lieve e densa , ogni parola carica di senso “altro”, pur nella sua assoluta cristallina seccheza. Insomma, una benedizione in tanta logorrea.

  4. Saldan, è un piacere vederti approdare di tanto in tanto su questi lidi.

    Circ’ ‘e t’ fa v’de’ cchiù spiss’.

    fm

  5. i morti qui stanno bene.
    sul hit parade del nulla concordo con marotta
    che ringrazio per la sua impeccabile cura del lavoro altrui.

  6. Felice della ripresa della dimora, Francesco, come pure delle tante pietanze apparecchiate! Questa in particolare è un cibo prezioso, per continuare sulla pista di Antonella.

  7. Grazie ad Antonella e a Giorgio. E grazie anche per la condivisione della passione per uno scrittore che amiamo in tanti e che va conosciuto ancora di più.

    fm

  8. caro fm, hai ragione, sono un po’ latitante da qualche tempo…Il fatto è che , per dedicare il massimo di attenzione che merita un ottimo blog (quale il tuo) occorrerebbero altro che le striminzite 24 ore. Comunque, cercherò di rimediare. Intanto, per farmi perdonare, ti omaggio qui di questa traduzione nel nostro dialetto di una bella poesia dialettale di Fabio Franzin ,chiedendo scusa agli altri lettori per l’OT e per lo sbocco di “narcisismo”:

    Incùo

    di Fabio Franzin

    MACCHININE

    Incùo el mé fiòl pì pìcoeo
    l’é ‘rivà daa só camaréta
    co’ un pòche de machinete
    rote in man, rodhèe e tòchi

    de plastica che ghe caschéa
    fra ‘e piastrèe del pavimento
    – ‘a só voséta prima de lù, là,
    drio ‘l coridòio – “papà, se
    non riesci a trovare lavoro

    in una fabbrica potresti fare
    il meccanico che aggiusta le
    macchine intanto incomincia
    a giustare le ruote di queste

    mie che sono rotte”. E ‘lora
    méterme là co’ un cazhavidhe
    cèo e ‘a pazhienza che no’ò
    mai bbu, a provàr, ‘na rodhéa

    cavàdha de qua e una ‘tacàdha
    de ‘à, a tornàr a far córer chee
    machinete. Chissà se ‘l destìn
    varà ‘a stessa pazhienza, co’

    mì, se ghe sarà un calcùn bon
    de tornàrme invidhàr i sèsti
    tee man, parché ‘e pòsse tornàr
    a córer anca lore… pa’l pan.

    Oggi il mio figlio più piccolo / è arrivato dalla sua cameretta / con un mucchietto di macchinine / rotte fra le mani, ruote e pezzi // di plastica che gli cadevano / sulle piastrelle del pavimento / – la sua vocina prima di lui, lì, / lungo il corridoio– “ papà, se / non riesci a trovare lavoro // in una fabbrica potresti fare / il meccanico che aggiusta le / macchine intanto incomincia / ad aggiustare le ruote di queste // mie che sono rotte”.E allora / mettermi lì con un cacciavite / da orologiaio e la pazienza che non ho / mai avuto, a cercare, una ruota // tolta di qua e una fissata / di là, a tornare a far correre quelle / macchinine. Chissà se il destino / avrà la stessa pazienza, con // me, se ci sarà qualcuno capace / di riavvitarmi i gesti / alle mani, affinché possano tornare / a correre, anch’esse… per il pane.

    (Nel dialetto Veneto-Trevigiano dell’Opitergino-Mottense)

    Ogg’

    Ogg’ ‘o figliumì criatùro
    è ‘sciùto ‘rà stanzetta sòja
    cu quàtt machinuscèlle’nzìno,
    rutellùcce e piézz’cciùlle

    ‘e plastica ca le carévano
    ‘nterr’ò pavimènt’e piastrèlle
    – e prìmm’ e ìsso, ‘a vuciarèlla
    sója llà, ‘ind’o curridojo- “papà,
    se non riesci a truvà lavoro

    in una fabbrica potresti fare
    o’ meccanico che aggiusta le
    macchine intanto incomincia
    a’ccuncià le ruote di queste

    mie che sono rotte”.E ccù
    ‘na santa paciénza ca nù ttèngo
    me mécc’llà, ‘o cacciavìte
    ‘e lilurgiàro ‘mmàno, na rutèllùccia

    ccà na vitarèlla llà, pe’ veré
    si pòzz’ fa turnà’a correre ‘e
    pazzièlle ‘e fìgliemo. Ma chisà si cu’mmé
    o’ r’stìno tenarrà ‘a stessa paciénza,

    si coccherùno sarrà capàce
    ‘e me ‘rà cord’ ancòr’e mmàne,
    pe veré si pure ‘lloro putarrànno
    turnà ‘a se mòvere…. p’o ppàne.

    (Nel dialetto Napoletano – Casertano della Zona Atellana)

    Naturalmente la traduzione in lingua nazionale è sostanzialmente quella a pié di testo dell’originale di Fabio Franzin.

    Qualche nota di fonetica sulla pronuncia del dialetto atellano:

    è = è aperta
    é, e ‘e = é chiusa
    o’ ó = o chiusa
    o= o aperta

    L’accento tonico è sempre sulle vocali accentate.

    PS Comunque LE CARTOLINE DAI MORTI, assieme ai video GIOBBE A TEORA e SCUOLA DI PAESOLOGIA, le presenteremo MERCOLEDI’ 15 DICEMBRE alle 17.00 nell’AUDITORIUM della Corte aragonese del Casale di Teverolaccio, a Succivo (Caserta).

  9. qui da marotta che saluto con grande gioia le cose sono sempre di una cura sublime
    perchè c’è amore!
    un saluto carissimo
    e complimenti ad arminio per questo testo bellissimo
    c.

  10. Finalmente ho ritrovata la “dimora”, sempre accurata, come è già stato scritto, e dedita a libri ed argomenti di grande spessore.

    “I morti non fanno del male…” ho scritto in una poesia di una decina d’anni fa.

    LE CARTOLINE DAI MORTI non possono che portare conforto poiché ci fanno sentire meno soli, grazie alle loro parole che testimoniano una presenza invisibile, ma vicina e partecipe.

    Giorgina Busca Gernetti

  11. Metto qui il testo del mio intervento di presentazione delle CARTOLINE ieri sera all’Auditorium del Casale di Teverolaccio in Succivo:

    La cifra stilistica del libro è quella della massima sottrazione per la massima espressione, per una forma estremamente semplice, asciutta al massimo, ma che è il frutto di un lungo, estenuato lavoro di lima; un libro di folgoranti piani sequenza dove ciascun personaggio dichiara il proprio esistere nell’attimo in cui dissolve.

    Nell’ora fatale ciascuno mostra la ferita della propria esistenza, in un tragico, grottesco oppure drammatico e anche comico e surreale susseguirsi di microstorie suggerite in una frase, una parola, con umori, situazioni e motivazioni che danno vita – è il caso di dire – ai 128 morti che formano questo antiromanzo in progress, scarnificato dalle strutture, ridotte a orpelli altrove.

    L’ antiromanzo epigrammatico di una nuova Spoon River. Una Spoon River che non ha il desolato rimpianto del testo di Lee Masters, ma l’asciutta evidenza delle istantanee e un humor nero appena rattenuto, il segno d’uno scrittore che, rispetto a “Circo dell’Ipocondria”, ha fatto passi da gigante nel progetto di dar vita artistica ai fantasmi della propria ipocondria.

    Recensendolo per il Sole 24 Ore , Domenico Scarpa ha detto cose molto centrate su questo piccolo grande libro, soprattutto sull’invenzione o – se si vuole- sul rilancio di una forma lapidaria e di grande espressività; ancor più necessaria al tempo di internet e della comunicazione veloce.

    Ma sta qui la differenza: la forma di scrittura è lapidaria ma non veloce, almeno nel senso che comunemente si dà alla parola, perché queste “microstorie” dal dopomorte incidono nell’immaginario di chi legge e vi ristanno, prendendo il loro tempo, in quanto si ha il sospetto che i morti che narrano del modo in cui hanno lasciato la vita, in realtà stanno raccontando altro; rivelandosi sul bianco della pagina, dicono del “Paese dei Morti, che comincia poco oltre le nostre città. Così i casi della vita, gli innumerevoli destini, scorrono sotto i nostri occhi, con accenti che vanno, seppur nella brevità e concisione, dal tragico al comico, dal sarcastico al malinconico, dal patetico al depressivo” come ha notato Marco Belpoliti sull’Espresso, che acutamente definisce Franco Arminio “poeta del nostro sconcerto quotidiano, poeta in prosa del nostro affondamento progressivo.”

    Infatti, la sequenza di questi 128 modi di morire, cartoline da un al di qua che ancora appartiene alle ombre che prendono forma nell’attimo in cui stanno per dissolvere, segnalano l’insignificanza e la preziosità della vita, che andrebbe tenuta in ben altra considerazione.

    Come fa notare Livio Borriello sul blog letterario Il Primo amore “L’evento della morte in sé non consiste in nulla, se non in uno dei milioni di insignificanti spostamenti elettrochimici di cui è fatta la vita, un flusso elettrico che si ingorga e scola fuori dal corpo, una crepa nel cuore che in sé non differisce dalle discontinuità della mucosa nel corso di una normale digestione, o da un taglietto sul dito, il millimetrico spostamento dallo spazio della coscienza alla voragine abissale che sta un’unghia sotto. Ed è questo il dramma per il vivo, perché se la morte è questo, qualcosa che fa parte della vita, dell’affaticarsi delle cose, un segmento infinitesimo del loro incessante turbinio, essa è indifferente e incurante. “Prima di me, erano morte ottanta miliardi di persone” – dice un’altra delle salme che scrivono. Dunque, c’è poco da farla lunga, anche il nostro finire sarà solo routine.”

    Per quanto il tono sia leggero – e il libricino un breviario di auto epitaffi che si leggono col sorriso sulle labbra – le motivazioni e l’intento dell’autore sono tutt’ altro che frivoli.

    Anche se scrive per esorcizzare la propria morte (“Pure io, sì pure io” si legge nella cartolina di chiusura ) l’autore “ci porta proprio al cospetto dell’enigma, a fissare con occhi sgomenti e con un po’ di fiatone, il buco nero, la materia cava, il niente che non è neanche quel niente. Ci porta su un punto che sporge fuori dal linguaggio, ad affacciarci sul nulla”, sottolinea ancora una volta Livio Borriello “non c’è neanche il niente, almeno così mi pare” dice infatti il morto di pagina 121.

    E se i 128 personaggi che si susseguono ci parlano nella loro banale, tragica, comica o surreale evanescenza, inducendoci al sorriso e a prenderci gioco del morire, l’autore in realtà ci sta segnalando che è l’ora di vivere appieno la nostra vita e quella degli altri, di ribellarci a un deserto che ci sta lentamente soffocando nel cinismo e nell’indifferenza, fino a travolgere nel panico. Così sottolinea nella nota di congedo:

    “puoi (solo)scrivere intorno a questa cosa che forse regge tutto, intorno a questo niente che sorregge e corrode ogni cosa.”

    Eh sì, a me pare che questo niente che sorregge e corrode ogni cosa non sia solo l’impalpabile panico dello scrittore Arminio, ma è proprio questo nostro modo di vivere, di produrre, di stare al mondo, perché “i morti non ti pensano, non ti mandano nessuna cartolina” Son quindi cartoline d’un vivo per i vivi.

    Affido allora la conclusione a Domenico Scarpa, che chiosa:

    ” Vista dalla prospettiva della morte, la vita si chiarisce e si capisce. È una linea spezzata fatta di brevissimi momenti, che dicono tutto senza sparpagliarsi perché la voce che viene di là sa fonderli in un oggetto completo; così, la vita è un oggetto, e la morte ne è la voce.
    Se questo libro “è tenuto insieme soltanto dal suo ritmo e da quel morso alle redini che è il farsi improvviso dei testi, tuttavia “ è un libro che parla essendo muto, è uno schedario di storie senza appiglio: l’ansia che emana deve fare a meno dell’io, così come la storia che narra deve rinunciare allo scorrere del tempo, ed è così che la scrittura vive – dalla morte – la sua vita perfetta, sciogliendosi dai vincoli della persona e della durata.
    Cartoline dai morti è un libro che impone alla letteratura una nuova «forma semplice»: nel 1930, alle forme semplici dedicava uno studio memorabile André Jolles, che ne contò dodici. Oggi Arminio viene a prendere posto come tredicesimo a questa tavolata illustre senza dover temere nessuna disgrazia.”

    E direi che Arminio ci sta proprio seduto bene, a quella tavola.

    Salvatore D’Angelo, 15 Dicembre 2010

  12. Una gran bella nota, Salvatore. Mi piace pensare che alla presentazione possa esserci stato un numeroso pubblico.

    Ciao, grazie.

    fm

  13. è stata una bella serata. grazie a salvatore e a tutti gli amici di succivo.
    ho visto che le cartoline sono nettamente in vetta alla classifica di pordenone legge. ovviamente le cosa vanno diversamente in libreria……
    accade così anche in poltica…..
    gli italiani premiano i peggiori…..

  14. grazie mille Francesco. vedo se riesco ad inserirla per il 20.
    insomma il prima possibile.
    provo ad avvisare Salvatore e Arminio sui loro rispettivi blog.
    paola, che ricambia l’ abbraccio.

  15. bene…:) e ancora grazie, Francesco. l’ho messo il 20 nel pomeriggio salvo controindicazioni che sarà mia cura comunicare.
    paola

  16. @paolalovisolo

    ovviamente, sono d’accordo e ti ringrazio.
    @ fm
    sei troppo buono. Beh, all’Auditorium (120 posti a sedere), nonostante la serata di quasi neve e nonostante il Casale sia in campagna, c’erano più di cinquanta persone..il che di questi tempi , mi sembra una buona cosa. Se penso che per gli orchestrali della Scarlatti di Napoli ce n’erano appena sette, penso che non sia andata malaccio.

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