Lorenzo Barani
“E’ doveroso ri-pensare da capo l’essenza del dono, oltrepassare un’economia basata sul profitto e sulla speculazione. I nostri morti ci donano, nel lavoro del lutto, un tempo gratuito e ci indicano che è possibile un modo nuovo di lavorare e di abitare la terra.”
Lorenzo Barani, Derrida e il dono del lutto
Verona, Anterem Edizioni
“Pensare la Letteratura”, 2009
Introduzione
Si pensa e si scrive perché si muore, ma pensare e scrivere è già oltre la morte. I lutti riaprono la piaga che slabbra la vita e la riscrivono come esistenza. Nella cudezza del loro irrompere tutto è in discussione, nulla resta al suo posto; anche la parola con cui pure si soffre e in cui si pensa. Nella deriva della lingua se ne va, ed è il colmo, il senso stesso della morte, e la parola e il pensiero fanno l’esperienza delle pagliuzze abbandonate alla piena del torrente.
Leggendo Derrida, tuttavia, emerge lo stupore di un linguaggio e di un pensiero che, a differenza della filosofia concepita come pratica di morte, nascono e si articolano all’interno del lutto. Questo radicale cambio di piano prende sul serio il fatto che si nasce nelle infinite pieghe del testo, dentro l’orizzonte della scrittura, all’interno della Legge del Testo. L’io vede la luce innanzitutto nella vita del testo; così la vita è inscritta nella parola e l’esistenza in linguaggi determinati.
Si pensa e si scrive perché si muore, ma pensare e scrivere è già dentro l’aporia del lutto. Il pensiero che il lutto preceda la morte è sorprendente, e lo è l’aporia che lutto e parola si anticipino reciprocamente. Un cuore di questo lavoro batte attorno alla relazione tra scrittura e lutto, a ogni marca che nel lutto salvi dalla sparizione. La scena della scrittura dovrebbe accogliere l’evento irripetibile e unico in una interrelazione di letteratura e filosofia robustamente teoretica e, invece, per lo più l’occasione fatidica ci piomba addosso dall’alto a farci toccare con mano l’inadeguatezza della nostra estetica della realtà, la nostra superficiale pratica della lingua, la ristrettezza degli schemi con cui pensiamo la vita e la morte. Non si possiede l’arte del lavoro del lutto; non si sa fare il proprio lutto. Paradossalmente, poi, anche il lutto dell’amico, del maestro, della persona cara dovrebbe essere sempre il proprio lutto.
L’arte della citazione e, in particolare, la citazione dell’amico nascono in un uso della lingua che si muove all’interno del lutto. I sentimenti, le vicende dell’amicizia e, innanzitutto, il nome dell’amico, sorgono all’interno della citazione come raffinata pratica del lutto. Sapendo fin da prima che uno solo dei due dovrà sopravvivere, ogni parola dovrà essere citabile, ogni pensiero riportabile a guisa di encomio funebre. La citazione dell’amico tra lutto e autobiografia è una straordinaria avventura di pensiero.
L’estetica parte con l’esperienza del mondo che inizia ad apparire nell’altro che mi si sottrae; con la morte dell’amico il mondo perde la sua innocente consistenza. Dove la realtà trascolora e prende la forma dell’immagine, reale è ciò che è citabile e rammemorabile. La trasmutazione della realtà in immagine percorre questo lavoro come un filo d’Arianna. E’ nel lavoro del lutto che il mondo inizia ad apparire e perde la sua consistenza di essere. L’immagine allora rivendicherebbe un’autenticità maggiore perché conosce e vive la distonia che si è prodotta, certo, empiricamente, ma che, per la dirompenza del mondo emozionale che comporta, segna un’altra marca esistenziale di pensiero. L’erosione carsica del lavoro del lutto e il suo travaglio decostruttivo si pongono al centro dell’estetica di Derida che risulta, così, non tanto una sezione della filosofia, quanto il piano stesso del filosofare. D’altra parte, il problema della lingua dell’Occidente viene al pettine oggi, nel mondo dell’omologazione a senso unico, e un modo di porlo è chiedersi se la nostra lingua ci consente di pensare l’unicità. E’ il più grosso problema dell’estetica. Nel lutto si tratta di un dolore unico, si invoca il miracolo, l’unicità tende ad accordarsi con l’immagine del fenomeno eleggendola a esemplarità. Modello di riferimento, la rarità dell’immagine “viene a illuminare” se stessa e, in questo modo, a costituirsi come esemplarità. Il destino dell’esemplarità anela a sfondare il tempo e a inscriversi in leggenda. L’immagine nel lutto costituisce una modalità fascinosa di affrontare il tema dell’alterità compresente nell’identità, dell’identità affidata al dono dell’amicizia come misteriosa tutela dell’altro da sé per la suprema avventura che è l’ignoto.
In analogia con lo statuto della poesia, il linguaggio delle immagini ritornanti nel lutto lievita una trascendenza di senso dentro l’immanenza, un valore aggiunto irriducibile alla logica del fatto, un capitale di relazione che trasborda rispetto al piano stesso dell’esperienza. L’immagine dell’altro riveniente, liberato e libero dalla morte, è un’immagine innanzitutto libera dalla mimesi, un’immagine che addita un’ulteriorità in cui è possibile reimmaginare il mondo. Aldo Giorgio Gargani, in Il linguaggio davanti alla poesia (Anterem, n. 74, 2007, p. 11), parla a proposito di «transizione dalla verità al senso della verità» e indica una «relazione di trascendenza entro un orizzonte di immanenza».
Dalla prima all’ultima pagina di questo testo si fa questione della sopravvivenza e, in particolare, del dono di sopravvivenza che si cela nel lutto. L’arte della sopravvivenza è una impossibile possibilità, una saggezza che per Derida risiede nella scrittura degna dell’antagonismo di amicizia e morte. Nel cuore della filìa (l’amicizia eccezionale che sfida la morte) sboccia l’impossibile possibilità dell’oltrepassamento. Perché c’è l’altro – e solo se c’è – è possibile l’oltrepassamento.
Il tema della sopravvivenza nell’autobiografia si discosta da ogni narcisismo coscienziale-intimistico, registro spuntato nel rovello della soggettività ruggente della modernità. Se la scrittura è paradigma di sopravvivenza, lo è nella dimensione tragica della presenza votata alla sopravvivenza nell’assenza. La parola fa luogo al tempo e invoca il tempo aprente della cosa, la temporalità cordiale che accoglie e lascia essere la cosa; questo è un paradosso creativo che lega parola e tempo. La potenza di relazione della forma della temporalità e della lingua sta nell’evento impossibile, l’evento del dono dell’essere ma privo di essere. La scrittura è nella dimensione di una temporalità testimoniale, che è interna all’impossibilità intrinseca a ogni dire. Il dire dice di un tempo che non è più il medesimo della cosa che dice e invoca perciò un piano testimoniale del dire. Ogni testamento è disseminazione, affidamento agli eredi. La scrittura sa in anticipo il destino che la affida al ricordo altrui. Si scrive in un presente che sarà assente quando la scrittura verrà letta. Si legge in un presente che è assente quando la scrittura è stata scritta. La scrittura è già nell’ordine dell’interiorità che nasce in relazione alla finitudine di ogni presente e, dunque, già destinata all’alterità – l’alterità innanzitutto temporale, che è la forma più duttile di accoglienza di ogni alterità posssibile. Non si dà un’identità assoluta, ma ogni esser-ci è intessuto di temporalità e della sua contaminazione e disseminazione, cioè è nella filigrana dell’alterità.
(pag. 15-17)
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argomento, per me, sempre doloroso quello de l lutto, fa parte della mia esistenza e, purtroppo, ci convivo (per educazione e pudore lascio solo questo pensiero) ..
Uno dei libri più radicalmente perturbanti che abbia letto negli ultimi tempi.
fm
Complice anche un occhio che mi sballa la lettura a video, ecco che diverse volte ho letto “tutto” invece di “lutto”
forse perché il lutto è il fare-farsi (in estrema rarefazione) dell’assenza, laddove il tutto è una piena, ma altrettanto indistinta, “consistenza”
cmq, uno dei passaggi di questa introduzione che mi balza al (sopracitato :))occhio è
“E’ nel lavoro del lutto che il mondo inizia ad apparire e perde la sua consistenza di essere”
La trama che “il lavoro del lutto” elabora (quel guardare non solo le ombre cinesi che il lutto proietta, ma il lutto stesso in faccia),
quella bellissima “filigrana dell’alterità” più avanti descritta ,
più che una tela di Penelope sfatta alla luce del giorno e ritessuta -uguale- con il calare delle ombre, più che una Sindone a imprimere sfocato ciò che è stato, più che un velo di maya che tiene imprigionati nel ciclo delle morti e delle rinascite
appaiono allora (piuttosto) la rottura di tale velo:
“L’immagine dell’altro riveniente, liberato e libero dalla morte, è un’immagine innanzitutto libera dalla mimesi, un’immagine che addita un’ulteriorità in cui è possibile reimmaginare il mondo.”.
Grazie!
ciao