Un tempo che non è altro che tempo
che non è altro che mese e stagione
che non è altro che allora che un tempo
che quando che non è altro che dopo
che prima che non è altro che: clima.
Previsioni e lapsus
(da una silloge in fieri)
Previsioni del tempo
Domani piove, oggi fa caldo
troppo per immaginare la
prossima giornata autunnale.
I meteoropatici fermi
condensati sui divani-letto
si scambiano opinioni sul flusso
dei loro umori: il colore prevalente,
l’andamento lo hanno visto nelle icone
delle previsioni del tempo –
le massime le minime i raggi
la brezza. Non è spicciola certezza
fidarsi, orientarsi il temperamento
su un evento che non sussiste:
a nord soffia libeccio a meridione
scirocco, un tocco di umidità estiva
si porta però via la convinzione
approssimativa.
Ma le previsioni del tempo
vanno sorbite in pillole
per evitare eccessi di illusione:
se domani non piove, i rimedi
per l’artrosi rimarranno nel pacchetto,
i vestiti nuovi ridisposti
nel cassetto: i meteoropatici
sul letto avrebbero di che ridire:
anche le icone dei corpi celesti
si vedrebbero fallire.
Posticipazioni
Torno tardi. Ritardo.
Non aspettarmi, si fredda
la cena distinta
sul tavolo di tarme
nell’aria cosparsa
d’insetti.
La scena è la stessa:
lei distesa che aspetta,
lui che avverte
di avere da fare. Poi d’improvviso
l’avviso avvisaglia:
non era da solo
a lavoro; tra lui
e il fermacarte un’altra
che gioca la parte
di lei: respira e si dà
la segretaria della verità.
Ma io torno tardi,
non ho segretaria o segreti,
né tanto meno una verità-
campo-nascosto può
avere posto nell’io
fatto a pezzi,
nel giorno previsto
e bugiardo: ritardo
e non ho da fare se non
ricompormi e truccare
la maschera adusa
ai rimandi e a
posticipare.
Ufficio pensionati (turno I)
Lo sportello apre alle otto e mezza
ma loro sono qui già dalle cinque.
Cantano l’epica del risveglio,
i furbi giochi d’anticipo
a chi arriva dopo e si rammarica
del ritardo: il marito con la febbre,
la telefonata del figlio emigrato
in terre in cui è tornata l’età
dell’oro – è questione di pulizia,
di trasporti che portano in orario
senza attesa e la spesa si fa
da sé non andando al mercato
per questo il figlio non è più tornato.
Siedono le facce rugose
abbracciate alle borse e ai portafogli
con le foto dei figli, figli
essi stessi: fanno battute
di spirito per animare
la gestazione: rinasceranno
presa la pensione, trascorreranno
le fasi della vita in forma
compressa sino alla pubertà:
di nuovo fertili con gli euro
in tasca volgeranno alla terra
di qualcuno a consumare l’amplesso
sdraiati sul prato col prato diafano
-e noi, scusi, noi che numero abbiamo?
Trasloco
Sono cose queste che sposti. Cose:
Accumulo sui mattoni costosi.
Cose disabituate ad essere usate.
Ho portato contenitori capienti
che possiamo riempire di oggetti
sollevati da terra coi guanti e
gettati nel fondo dei recipienti.
Il passaggio
è epocale: dal pavimento
al cartone, dal disuso all’imballaggio:
è un ritorno allo stadio iniziale
che il soffio vitale del disinfettante
accelera – uccide batteri e inibisce
il contagio tra il mio tatto attuale
e quello remoto:
Anch’io domani
trasloco con gli altri cimeli
distinti in base a criteri
di inutilità e possibilità
di trasporto.
Qualcosa è disperso
qualcosa è nascosto qualcosa
è in attesa di disposizione
in un altro cartone e bisbiglia
la cosa che teme accoglienza negata.
La camera è già semivuota.
Ti metti seduta a osservare
la mia frenesia di bilancio:
l’ultimo slancio – il frigo calato
in balcone – ed è ora
di chiudere a chiave gli avanzi
esclusi unanimemente o in conflitto:
domani anche noi saremo in affitto.
Mia figlia Crocifissa
Se mia figlia si chiamasse Crocifissa
non vorrei vederla appesa a un muro nuda
alla mercé di studenti, pazienti o tenenti
che le dessero le spalle.
Se mia figlia si chiamasse Crocifissa
ogni notte la farei dormire a letto
non in porzioni di tetto col petto in fuori
senza coperta o scialle.
Se mia figlia si chiamasse Crocifissa
non sarebbe un simbolo da imporre
o da rimuovere ma una donna al mondo
nata in grattacieli o stalle.
Se mia figlia si chiamasse Crocifissa
non la lascerei divenire
dibattito in parlamento
su un’ipotetica manutenzione.
Se mia figlia si chiamasse Crocifissa
sarebbe ancora viva e soprattutto
le avrei cambiato nome.
Conversazione in ascensore (Scala Omega)
In due nell’ascensore si sta stretti.
È già evidente dalla porta
così minuta che permette
l’ingresso uno alla volta:
io entro, lui aspetta,
cede il passo
– prego, avanti, vada lei. Ringrazio.
Occupo lo spazio calcolato
per non essergli d’impaccio
– scongiurare il contatto. Si chiude la porta
e si parte.
Davanti a noi lo specchio. Si specchia
lui, l’altro, riflette, evitando
i propri occhi
ché quest’incontro gemmerebbe un terzo
e un nuovo coinquilino benché piatto
accrescerebbe l’imbarazzo: saremmo in tre poi in quattro
se eventualmente decidessi anch’io
di seguirlo nella forma o nel riflesso.
Lo seguo. Mi adatto ai suoi gesti. Mi metto
in posizione davanti al riflettore.
Lo vedo scrutarsi imperfezioni
sul proprio duplicato, scovare cicatrici
acme sproporzioni. Lo vedo sbuffare.
Replico, sbuffo e cerco
le mie anomalie.
Le immagini rifratte
inosservate dirigono
l’immedesimarci
l’inseguimento all’uno – ognuno è imitatore ed imitato,
sceneggiatore e attore di un film
sottotitolato, seguace e antesignano.
Si apre la porta dell’ultimo piano:
Scendo, mi scusi, mi scindo.
Lui prosegue il mio incubo d’ascensione
su piani illimitati, d’altezza inarrivabile
di sconosciuta origine.
Persegue la vertigine
nei segnali analogici che indicano
posizione di cabina numero 3000,
corporeità già erasa.
Scendo, mi scusi, mi scindo
– si apre al porta di casa –
ho ancora bisogno di base.
Traghetto
-
Here is no water but only rock
Rock and no water and the sandy road
(T. S. Eliot)
Che poi
non erano ostacolo i camion
incolonnati a marcia indietro
– siamo granchi in partenza, uomini
forse all’arrivo – col loro rumore
di phon che riscalda i capelli
come le ventole sul ponte
del traghetto che ci regge:
se ti sporgi, guarda che è peggio.
La ringhiera protegge,
certo,
lo scarico crea correnti
e alimenta le onde,
ma un senso di fastidio agita
il battello, un corpo estraneo spinge
lo tiene in movimento e la nausea
aumenta.
Devi mangiare,
preannunciare
a te stessa la compressa
che allontani questo male:
Travelgum o Xamamina?
Sulla poltrona sdraiati
accanto al kit di salvataggio,
sulle eliche che ruotano
e respingono l’ingombro.
Che poi, tutto sommato,
non era stancante il tragitto
tra i lampioni di un porto
e le luci dell’altro
quando un megafono autorizzava
a scendere in auto
per preparare
lo sbarco – finalmente la bottiglia
d’acqua fresca lasciata sul cruscotto! –
e qualcuno da poppa si è accorto
che c’era del mare
sotto.
Epitaffio
Un tempo che non è altro che tempo
che non è altro che mese e stagione
che non è altro che allora che un tempo
che quando che non è altro che dopo
che prima che non è altro che: clima.
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Nota biobibliografica
Luciano Mazziotta è nato a Palermo nel 1984, dove tutt’ora vive. Specializzato in Scienze dell’antichità con una tesi in Testi Greci filosofici e scientifici sul rapporto tra medicina e filosofia. Tra il 2006 e il 2008 ha vissuto tra Palermo ed Amburgo, città conosciuta nel 2006 nei panni di studente “erasmus”. Nel 2009 ha pubblicato la sua prima silloge di poesie Città biografiche per la casa editrice Zona. Suoi testi sono stati pubblicati sui blog “La dimora del tempo sospeso”, “Via delle belle donne” e “Poetarum silva” di cui è anche redattore. Ha curato la prefazione del volume miscellaneo che raccoglie i testi dei redattori di Poetarum Silva (Samizdat 2010). Ha partecipato a readings ed eventi letterari di rilievo nazionale quali “La bellezza e la rovina” tenutosi a Palermo nel luglio 2010, ed ha preso parte al V° festival internazionale di poesia di Caltagirone. Nel Dicembre 2010 suoi testi sono stati inclusi nel 21° numero della rivista internazionale di letteratura “Poeti e poesia” diretta da Elio Pecora.
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Credo molto in Luciano, questi testi sono l’ennesima conferma.
un abbraccio a fm, che cura le cose con amore e si vede.
n.
Penso le stesse cose di Natàlia.
E anche che sostare qui è sempre piacevole.
un abbraccio
cb
Un vero piacere leggere Luciano e anche trovarlo qui.
Grazie.
clelia
Mi piace molto, ed è sempre più bravo.
Secondo me sta lavorando, sotterraneamente, a una ridefinizione delle categorie del “tragico” – rileggendole nel riflesso di una atopia senza luce e col coro ridotto a rumore di fondo senza voce.
Un poesia dove il soggetto si segue e si guarda di spalle – coltivando la segreta speranza di afferrare un barbaglio, un lampo che dica le ragioni del suo stesso svanire.
fm
Luciano sta lavorando molto e molto seriamente. Sa che la poesia non è uno scherzo. In questi testi vedo un’evoluzione, uno scatto in avanti. La struttura dei testi si fa più complessa/completa ma la lettura arriva immediata. Insomma, complimenti
gm
Sono d’accordo con te, Gianni: non solo sa che la poesia non è scherzo, ma dimostra anche di sapere bene che non è una fotografia.
fm
dunque solo chi vive di sola poesia può definirsi poeta?
solo chi ha le referenze al posto giusto?
sennò gli altri sono parole al vento?
non mi sono mai definta poeta perchè ho sempre detto che i veri Poeti erano coloro che ci han preceduti.
sono fuori canone, ma sto trmendamente bene così, non sarò poeta ma sono essere umano che vive s’incazza e respira.
e soprattutto sono fottutamente disoccupata e la poesia come dicon in molti non porta a casa il companatico alla sera…
e soprattutto solo chii ha il do denaro forse potrà avere l’onore di farsi definire poeta gli altri dietro grazie.
perdonate lo sfogo.
Se mi fai capire di chi o di cosa stai parlando, posso anche provare a risponderti.
fm
“non solo sa che la poesia non è scherzo, ma dimostra anche di sapere bene che non è una fotografia”
penso che per nessuno la poesia sia uno scherzo, ma percepisco che con questo tuo commento è di soli pochi rari casi che la poesia ha la P maiuscola e mi chiedo…allora chi sei tu per dire chi fa poesia scherzando e chi la fa come lavoro?
nessuno credo che la fa per scherzo, anzi ognuno di noi ci mette del suo, se poi alcuni non la cagano amen, si andrà avanti lo stesso.
la poeisa non è un lavoro ma un momento, una pausa dal mondo
Ho solo chiosato il commento di Montieri, Morfea, nient’altro. Se poi mi attribuisci quello che hai scritto, ad iniziare dalla P maiuscola, mi spiace deluderti ma stai parlando di un’altra persona. Dire che una poesia ci piace, o che la poesia non è una fotografia, non significa attribuire patenti, tanto meno svilire il lavoro di qualcuno. E la dimostrazione di ciò è proprio questo blog, che accoglie i testi di più di cinquecento poeti, uno diversissimo dall’altro, ognuno con le sue fisime e le sue predilezioni, con la sua poetica, i suoi testi più o meno decenti e i suoi aborti.
Buona domenica.
fm
giovane eppuro sicuro poeta che mi intriga, i miei complimenti..
chiedo perdono per gli sfoghi.
buona domenica signor marotta.
Non c’è assolutamente niente da perdonare, credimi. Ci siamo soltanto scambiate delle considerazioni. E se il tuo era uno “sfogo”, ti ringrazio di averlo lasciato qui. Se non altro, mi hai dato la possibilità di riflettere su un dato che mi sta particolarmente a cuore: il fatto che, molte volte, anche le cose che scriviamo in perfetta buona fede (cfr. il mio appunto sui testi di Mazziotta) possono, contro la nostra volontà, ferire in qualche modo la sensibilità di qualcuno. Ed è una cosa che, personalmente, non voglio e non posso permettermi.
fm
fantastiche! mi piacciono le rime finto colloquiali, la tonalità leggera che veicola verità drammatiche, la tendenza all’aprosdoketon. e il tutto mi stupisce in un ragazzo così giovane. sob!
Scusatemi se ho tardato a rispondere. Sono stato e sono ancora fuori dall’Italia.
1) Ringrazio Francesco per la disponibilità, l’attenzione critica, e per avermi dato la possibilità di essere suo ospite in questa pagina, che rappresenta uno dei punti di riferimento per tutta una generazione di poeti, letterati, romanzieri, o amanti dei poeti, amanti dei letterati, amanti dei romanzieri.
Sulla “ridefinizione” del tragico mi vorrei un pò soffermare. Il tragico è la scissione, il conflitto oppositivo tra due valori, gli opposti per antonomasia, penso alla tragedia greca, il bene e il male, il cittadino e il tiranno. La tragedia però aveva un linguaggio “tragico” per l’appunto, che, come lo definiva lo stesso Dante, era il livello più elevato della lingua letteraria.
LA nostra cultura ci spinge a scrivere versi che non hanno bisogno di innalzarsi nel lessico, nelle strutture – a volte trite – o in quello che, non certo a torto, Sanguineti e seppure da una posizione molto diversa anche Giovanni Giudici…- i miei bizzarri punti di riferimento – chiamavano “poetese”. Il tragico, la scissione è nel quotidiano: il dramma è la realtà di giornate scandite da tre Tg, che a loro volta sono introdotti dalle previsioni del tempo e si concludono con le previsioni del tempo. Il dramma è l’incomunicabilità in ascensore, o il video che ci influenza e ci fa immaginare un tradimento come se fosse quello di un video hardcore della segretaria. Tutto ciò non può influenzare il “modo” in cui “dire” e lasciare innalzare il banale da sé, senza fronzoli linguistici.
IL tempo, il modo di misurare il tempo è lo specchio di una societas, ed è questo il mio progetto in fieri: proprio perché in fieri leggo con molta attenzione le vostre proposte, critiche, letture e vi ringrazio.
Non capisco lo sfogo di Morfea.
“solo chi ha le referenze al posto giusto?
sennò gli altri sono parole al vento?
[…]
non mi sono mai definta poeta perchè ho sempre detto che i veri Poeti sono fuori canone, ma sto trmendamente bene così, non sarò poeta ma sono essere umano che vive s’incazza e respira.”
Stavi parlando di me? Delle giuste referenze…? non riesco a seguirti?
E poi il tuo “non mi sono mai definta poeta perchè ho sempre detto che i veri Poeti sono fuori canone”, non è uno sfogo. è un autoelogio…ma c’era già arrivato corazzini nel 1904 – se non sbaglio -, “non dirmi Poeta, io non sono poeta, io sono un povero bambino che piange”…
Comunque sia grazie anche a te per aver letto le mie nugae.
Grazie a tutti…veramente
Luciano
“Ridefinire”, il termine che usavo, significa “decostruire” – nel caso specifico, “rileggere nel riflesso di una atopia senza luce e col coro ridotto a rumore di fondo senza voce”: che è già spogliare il concetto di ogni patina passatista da epigoni fuori tempo e fuori rotta.
Sul “poetese” a cui alludono/alludevano taluni “maestri”, personalmente ci andrei cauto: assolutizzato, e fuori dal contesto particolare che lo produsse, non significa niente, tranne servire da alibi, oggi, ad alcuni critici quarantenni “in onda”, per bollare ed esorcizzare alcune scritture che non sanno proprio come avvicinare.
La cautela, poi, mi viene anche dal fatto che, se si tira all’estremo la corda, cioè se diventa una (pseudo) categoria critica, si finisce col definire “poetese” anche la lingua di due fra i maggiori poeti viventi (pur differenti per generazione e intenzioni poetiche): Andrea Zanzotto e Giuliano Mesa. Il che, francamente, è ridicolo.
Ciao.
fm
le immagini che pubblichi sono una di samorì e l’altra?
Credo che sia dello stesso artista. Almeno così l’accreditano le fonti in rete da cui ho tratto l’immagine. Lo stile è comunque quello, a me pare.
fm