L’Épreuve / La Prova

Max Loreau
Adriano Marchetti

Max Loreau, L’Épreuve / La Prova
Prefazione e traduzione di Adriano Marchetti
Con testo a fronte e acqueforti di Giampiero Guerri
Rimini, Panozzo Editore, 2010
(Ed. orig., L’Épreuve, Montpellier, Fata Morgana, 1989)

 

Prefazione

     Quando la parola vuole dire il proprio accadere, la poesia si espone al suo maggiore rischio. La letteratura del silenzio definitivo abita ogni scrittore. Max Loreau era rimasto silenzioso per necessità, ma un giorno la parola riemerge e la voce, scaturita dall’abisso dove sembrava essere perdutamente soffocata, come una forza ignota lo appella a sé e gli ridona l’ebbrezza della creazione. Lo sprofondamento nell’indeterminato era il preludio di una inattesa e nuova apparizione, scaturigine, anche nella sua fragilità, della scrittura. Come se per scaturire dal semplice proferimento della parola poetica, il mondo avesse dovuto essere sottratto al poeta.
     Così nasce L’Épreuve. Il termine designa splendidamente il gioco di tensione-resistenza, quella sorta di conflagrazione, di duello irriducibile tra la physis vivente e la téchne, la lotta legittima e necessaria, che produsse il miracolo greco. La “prova” oltre all’agòn dell’esistenza, allude egualmente alla lotta richiesta dal fare arte, non dominato, ma nel suo abbandono alle prese con la virulenza delle forze dell’“elementare”: “Era l’elementare a dettare la sua parola, il suo limite; ciò che s’impone a prescindere da noi”.
     A quell’incessante ripresa dell’‘in-cominciare’ l’opera attinge i propri ritmi. E nulla impedisce di applicare il paradigma alla scrittura poiché essa stessa occorre affrontarla come ‘prova’ necessaria per corrispondere all’appello inesausto del Logos, con decisione epica, senza flettere: “Ergersi, aderire, / abbandonarvisi senza pensare con tutte le fibre della carne …”. L’Épreuve è il testo vitale di una lingua che, esulando dalle secche dell’ineffabile, non cede al sentimentale né al colore letterario.
     L’intonazione del preambolo appare autobiografica, eppure non si tratta di descrivere una esperienza immediata e soggettiva. Allude a una cesura, a uno spaesamento. Ciò che la voce trova e a cui s’intona, senza un disegno prestabilito o calcolata elaborazione, è l’evento. Come vari momenti, la cui acuità rivissuta annulla in un certo senso l’idea stessa di memoria, le sezioni sono una sorta di epifanie, squarci quasi isolati e nel contempo tenuti insieme l’un l’altro da vuoti. Vuoti di quel silenzio iniziale e destinale da cui la lingua fiduciosa ha tradotto senza tuttavia cancellare o sovrapporsi. C’é poi una lenta deriva del discorso, fino all’ultimo: “balbetterò, felice”. La scrittura tenta di circolare intorno a questo dis-astro (qualunque nome gli si possa dare: il nulla prima della nascita, il vuoto della morte); e questa béance incolmabile è principio di fecondità, d’invenzione sempre ripresa, di creazione in atto, perpetuamente in-finita.
     All’inizio la voce sembra non aver altra cura, ostinata, che di riportare in superficie ciò che era svanito. Poi la consapevolezza che la ricerca sia vana e pericolosa trova un senso inatteso nel gesto che cede l’iniziativa al linguaggio, alla pronuncia e nella collocazione delle parole, le quali “balzano nella luce” e, affiancate, “fanno trasalire il mondo come alla vigilia di grandi rivelazioni”. Se la lingua pietrifica, la sua perdita annienta. Scrivere richiede una lotta in seno alla notte e al silenzio per ritrovare le parole perdute. La memoria di Loreau riguarda il perduto senza ritorno; è cosciente della evanescenza ma attraverso il vuoto che essa crea, trova il modo d’in-venire da una fonte anteriore a ogni linguaggio, diversi volti del tempo, le sue “stagioni”.
     Se ci accostiamo al testo, in ascolto della sua tonalità apofantica e congedandoci da rassicuranti concezioni referenziali o denotative, rappresentative o descrittive, essenzialistiche o storicistiche del linguaggio, L’Épreuve s’imporrà come felicità liberatoria di una scrittura intenzionalmente non letteraria, come luogo della provenienza cioè della donazione originaria, in definitiva come essere-tempo di quanto c’è di più iniziale: «l’elementare» – ciò che non ha precedenti e da cui comincia ogni inizio. Ecco nominata la dimensione anteriore alla relazione emblematica che unisce e separa mondo e linguaggio, la terza dimensione che, al di qua della pura identità e della pura differenza, allude all’intima alterità dove il dire è insieme un mostrare. La doppia tipologia del testo (discorsiva e poetica) scombina ereticamente il perimetro della letteratura. Al ‘preambolo’ segue il primo movimento del testo che è una prosa sprezzante nei confronti dell’aneddotico e procede misurata verso la convulsione lirico-teatrale del secondo movimento: costruzione astratta in forma di poesia e insieme giustificazione di questo testo come lo è dello slancio della vita. Esso si condensa in energia concentrata che depura il linguaggio per coglierne la violenza e la nudità, conferendo, per ipotiposi, alle figure il loro stato di vibrazione. L’opera finisce per sovvertire la lingua che essa parla.
     Ogni volta “la primavera, l’estate, il nome delle stagioni”, come l’alba del mondo sono evento temporale spazialmente incarnato, qualcosa di “familiare” e “molto lontano”. Sarebbe come dire che il luogo non è spazio topico e il tempo non è misura cronologica. Si nasce e si muore in qualsiasi spazio di tempo; l’orizzonte è il fondamento senza fondo. C’è un rapporto tra la poesia e il nascere-morire. Se si cercano le sorgenti della vita, queste non si traducono mai nello scorrere dell’esistenza. L’“elementare” si sottrae al dire e la lingua sarebbe dunque legata a un impossibile che tuttavia le reca la sua forma. Vuoto attivo, la lingua è luce e, ancor prima, oscurità. Come dire che il linguaggio cristallizza, offusca e illumina la tinta e la forma che avvolge. Impostore, il linguaggio si fa passare per altro allorquando, come dice Lacan: «non c’è Altro dell’Altro». Tale è il paradosso insostenibile e tuttavia proposto come principio germinativo dell’opera.
     La scrittura insegue una composizione musicale su due ‘trasfigurazioni’: prosaica e prosodica, in cui la politonia esasperata aumenta i toni. Al movimento di una sorta di narrazione segmentata in propos perlopiù in prima persona, segue la versificazione libera per schegge del poème caché, come per sottolineare la discontinuità, l’incertezza, l’imprevedibile che l’entità così per-versa suscita. Trasfigurazione qui non rimanda alla parola raccolta come frutto di una visione, quanto piuttosto al gesto della scrittura che mette in opera la “trasfigurazione” stessa irrapresentabile.
     Dunque «Poesia nascosta», nel senso che la «trasfigurazione» richiede una vocazione, anzi una vocalità, che lasci essere, rinunci all’appropriazione soggettiva o all’idealizzazione contemplativa, e che, come nell’arte Cobra , sia spontaneità immediata, puro gesto, To aneidos, prima di diventare programma (pro-gràphein). Accade vorticosamente nello slancio erotico-inventivo, imprevedibile, di breve durata. «È maturata la luce», «a presto le parole», in cui incarnarsi come l’uomo primitivo, l’uomo appena nato, mosso da una specie di pre-comprensione a nominare le stelle come «Stelle».

     Nel settembre 1988 Max Loreau era stato colpito da un tumore. In seguito a un estremo intervento pativa, in uno stato di delirio e buio mentale, la scomparsa delle parole e il vuoto della memoria. Quando tutto appariva irrimediabilmente perduto, in un giorno radioso di primavera dell’anno successivo, uno squarcio di luce accompagnava il verbo ritrovato e con esso l’esercizio quotidiano e il conforto della scrittura, nei modi di un’effimera ‘risurrezione’ e di un’attonita riscoperta del mondo. Con la ripresa del diario, interrotto per nove mesi, Max Loreau cerca di riannodare quel filo spezzato con cui avrebbe dovuto tessere ancora una parte essenziale, dedicata al pittore Pierre Alechinsky, del vasto arazzo concepito per accogliere il dialogo tra poetare e pensare che avvolge il nascere di un’opera d’arte. Era quello il compito che il tempo degli intellettualismi e delle astrazioni, nell’epoca del compimento ed esaurimento della metafisica, gli assegnava come unica forma autentica di esistenza e di comprensione. L’Épreuve, ultimo ma non definitivo gesto della sua arte, giunge ai suoi lettori come un lascito, una trasmissione di stupefazione di fronte al dischiudersi del mondo come mondo. Si sa che per Max Loreau fu di grande conforto ricevere, poco prima di morire, i primi esemplari del testo pubblicato – un modo di condividere, di com-patire con lettori amici la «prova» ulteriore.

     Nella presente traduzione ho inteso conservare la mobilità dei ritmi spontanei, l’andamento sincopato e spezzato delle modulazioni che caratterizzano i propos, nonché la tensione verso l’essenziale sostenuta anche dal ricorso alla contrazione sintattica. La lettura dei versi liberi poteva essere affidata solo all’orecchio interno evitando, consapevolmente, soluzioni di effetto o l’impiego delle risorse eleganti della prosodia italiana.  Occorreva restituire nella tra-scrizione i toni naturali del parlato, la semplicità e la consistenza dell’in-tessuto greggio, la rapidità del gesto o meglio dell’attacco del gesto. Là dove era possibile, ho ritenuto fondamentale restituire la pronuncia necessaria, il sapore un po’ aspro di un magma ancora incandescente, come se una energia tellurica avesse incalzato le parole alle rocce laviche delle sue sorgenti. Occorreva tradurre una lingua mai paludata, piuttosto umile ma affatto disincantata, sbozzata appena, dura e lucente. Il rispetto della ‘grammatica’ e della ‘sintassi’, che Max Loreau non considera come dispositivi per compiere astratte acrobazie stilistiche, risponde a una nozione di linguaggio non meramente strumentale o comunicativa.
     La scrittura mi è parsa riflettere la purezza dell’appello, dell’«attrait» – ciò da cui parte ogni iniziativa – senza contenuti a priori, né empirici né trascendentali: una sorta di responsorio e di contrappunto in cui la vocalità trova l’accordo nel ‘sì’ pronunciato di tutto il corpo. Non è forse in silenzio che il corpo lancia il suo «grido», di dolore muto e di gioia pura, il suo stupore e la sua angoscia? Non è forse per il soccorso del flatus vocis che si giustifica la scrittura? E nella scrittura di Max Loreau c’è un massimo di vocalità, perché in questa sua estrema Prova la vocalità ha dignità ontologica.

 

L’ÉPREUVE
LA PROVA

 

(D’improvviso la malattia.
Senza annunciarsi, brutale ciecamente.
Come il fulmine che colpisce
spaccando l’albero in due,
l’albero d’un tratto vecchio.
La sua vita squarciata dall’alto in basso.
Poi è cominciato il naufragio, l’abolizione.
Lento sprofondamento abissale,
sprofondamento nella notte tombale.
Mese dopo mese, per gradi, devastante.
L’assenza pervasiva. Silenzio.
Poi nulla.
Finché un giorno ecco la vita riprendere il sopravvento.
Allora lui riprende la parola)

 

I

Trasfigurazione: discorsi a se stesso

 

Non so cosa mi succede. Si è abbattuto su di me, inatteso. Che cosa? Non saprei dirlo. Forse l’elementare. Quale? Di cosa voglio parlare? Non ne ho la minima idea.

Vivo sprofondato in un mondo muto, senza parole, dove tutto è da reinventare, perché non sussiste più nulla. Ci sono grandi promesse. Sembra che da questo punto le cose s’impongano da sé o dovrebbero se ne esistessero. Attendo che ogni essere senza parola trovi la via del linguaggio, e cammin facendo lo rimodelli. Probabilmente ciò è proprio questo elementare.

Tutto quello che ho imparato con mia madre, quando, bambino, mi teneva per mano in giardino o nelle passeggiate. Bisogna reinventare. Il giorno, la notte. Tutto quello che si è perduto. Lembi di tempo, anzi immense fasce di luce come inebetita.

Da dove mi giunge tutto ciò? L’ignoro. Mi parli, mi dici cose talmente nuove che mi schiacciano sotto il loro bagliore. Mi dici la primavera, l’estate, il nome delle stagioni. Parole così strane. Appena le pronunci, balzano nella luce. Ciascuna, facendo irruzione, si dà, ampio bouquet, massa di spazio. Ciascuna si colloca qui e lì, poi là. Affiancate fanno trasalire il mondo come alla vigilia di grandi rivelazioni.

Aspetto che tu mi parli, m’insegni di nuovo, e che misteriose cose – il giorno, la notte – risuonino dal fondo di un cielo oscuro o salgano dalla terra con voci tanto immense quanto ciò che non esiste.

L’autunno, l’inverno – li sento per la prima volta. Mi ricordano qualcosa di familiare, intimo, ma molto lontano, e che, dentro, è colmo di slancio. La primavera come un grosso fiore bianco nel suo ardore, l’autunno come un lungo ricordo declinante. Sì, un tempo ho inteso queste parole ma erano così diverse.

Dove le ho sentite? quando? Cerco di ricordare. Con stupore le ascolto. Improvvisamente tutto è così intenso, la luce pare infiammarsi.

Occorre far occupare alle parole il posto che loro spetta, rimetterle nel loro esatto luogo. Stento a disporle come si deve. Questa qui, quella là. Il loro confine è sfuggente. Lo sguardo si ritrae, provo dolore agli occhi. Nulla è più estenuante. E tuttavia non è niente. La fatica più grande è l’elementare.

Mi parli anche di equinozi, di altre cose dai nomi molto nostalgici la cui esistenza si era spenta come morta. Tante cose notevoli, ancora incolte, selvagge, ancora aspre, d’improvvisa energia inestimabile, di freschezza obliata, forse mai conosciuta. Probabilmente sarà qualcosa di nuovo. Probabilmente scopro il mondo.

E d’un tratto mi son detto: ma questo è Cobra; è proprio Cobra!

In passato, a momenti, mi accadeva di essere come contrastato. L’aspetto rude, maldestro e talvolta scompigliato in molti dipinti di Cobra mi pareva privo di naturalezza, un po’ artefatto, voluto per uno stile. Invece no, d’un tratto ho la certezza del contrario. Mi sbagliavo, non sentivo abbastanza dal fondo delle cose, me ne accorgo ora con un eccesso di violenza simile in tutto a un’incalzante felicità. Ciò che consideravo negligenza forzata era tutt’altro. Era l’elementare che bussava alla porta. Niente mi appare più sicuro, più flagrante e forte al punto da sentirmi alla soglia del pianto. E, sommerso da tale emozione, penso molto e anzitutto a Pierre Alechinsky, ai suoi esordi già così radiosi, anche a Asger Jorn. Oggi sento, con un vigore e un affetto mai provati, che tale elementare scendeva molto giù, molto in profondità e che lo si deve amare come una cosa preziosa, rara.

Occorreva che fosse proprio così. L’incerto e il malformato, il greggio dell’incominciare, così bello, così difficile, non erano fatti per la ricerca. Era l’elementare a dettare la sua parola, il suo limite; ciò che s’impone a prescindere del tutto da noi. Era lui che affiorava, fluiva nelle cose, da lontano, da molto vicino, come se noi fossimo sprofondati nei suoi fitti rovi.

Tutto si rifà ma a stento, dal nucleo centrale di una urgenza troppo cupa. Ed io, mentre ascolto pulsare radici, guardo, occhi spalancati. Niente parla. Guardo.

Guardo una specie di pantano, di silenzio, un silenzio violento, denso, smisuratamente luminoso – sembra quasi esultare – ma di luce sorda, racchiusa, che vorrebbe le sue cose e il suo mondo ma nulla possiede, e che attende.

Le cose non sono come dovrebbero essere. Senza tregua si prodigano, si accalcano, scaturiscono per apparire, e con la loro fulminea presenza ecco la freschezza ignota, lo sboccio insensato. Tutto è d’incomparabile bellezza. Mi dici primavera, estate, equinozi, io guardo stupefatto e ovunque c’è soltanto trionfo e gloria.

Mi giungono suoni ma da molto lontano. Risuonano d’incommensurabile vuoto. Li sento venire. Devono attraversare muri su muri. Ma quando d’un tratto si arrestano, ritti, quasi opprimenti, più alti di un padre che si erge, tremano e sembrano soffocati, posseduti da una vibrazione d’oltre l’estremità del mondo. Hanno la febbre delle lontananze, dei misteriosi soli aurorali.

È il tempo che cerca la sua parola. Imbocca strane vie. Pronuncia parole intriganti, parole da poco. Tramite la tua voce, nella più vasta aria nascente, mi dice primavera, estate, giorno e notte, equinozi e altre parole ancora che si spartiscono lo spazio confuso. E ogni volta che mi assalgono, ogni volta le ascolto con lo stesso stupore. Sono il fulgore, la linfa, l’inaudito.

 

 

II

Trasfigurazione: la poesia nascosta

 

Il tempo si è turbato.
Più non gira in tondo.
Gli mancano le parole.
Troppo, è troppo lontano
per gli occhi che guardano.

L’abisso non parla.
Ascolta il suo silenzio.

Il tempo è indistinto e basso.
Si è chiuso su di sé
in una fitta nebbia.
Più cupo del fondo di un cielo
senza polo, senza migrazioni,
senza esodo di lungo corso,
senza lampeggiare di stelle.

L’ombra stessa s’è perduta.
E se tutto fosse da rifare?

Il mondo ha taciuto.
È privo di mutevoli luci.
Che ne è delle parole
che erano i suoi viaggi?
Il largo inabitato batte nel ricordo
con un frangersi mai visto né sentito.
Che è questa esultanza in attesa come allodola
nascosta in seno alle alte erbe
prima dello slancio nel sole?

L’occhio del tempo, lento, confuso,
sale in silenzio sopra la pianura.
Sembra una nuova nascita.
Si prepara ma non giunge.
Lo spazio trattiene il suo respiro
e scomparso è il ritmo.

Il tempo che nasce è difficile.
Occorre tanta pazienza.
Non scorre, come si potrebbe credere.
Non è la sorgente che mormora,
che nutre lontano la divisione delle terre,
sentenziando l’ordine del luogo.
Pesa, estenuante,
come una grossa pietra informe,
o come una bocca impastata.

– Ti ricordi di prima, dopo,
durante e intorno?
– Non ricordo.
– Ti ricordi di alti orizzonti,
parenti degli astri?
– Non ricordo.
– Ti ricordi della luna che veglia
sull’uccello solitario della riva
quando tacciono le onde?
Della felce che accresce la luce?
– Non ricordo.
– Ti ricordi della vecchia credenza
e dei piatti esposti che ne tappezzavano il fondo?
Dei passi che dileguavano nel loro incedere?
Del libro di cui mi parlavi
che era ancora di là da venire?
– Non ricordo.
Ho perduto la memoria.
Aspetto che tutto ciò mi parli.

Primavera, estate –
Strane parole in risonanza.
Mi hai parlato, oppure è laggiù?
Occorre che il mondo impari di nuovo
ed di nuovo imparo.
Giorno, notte –
sì, ho già sentito questo,
primavera, estate, cosa siete?

La primavera risuona della sua voce nuova.
La luce d’un tratto molto alta
è solo una deflagrazione
di milioni di tremuli fiori bianchi.
La terra pare nascondersi
dietro i verzieri in preda a febbre,
subbuglio di folgoranti viticci.
Che sia la paura a far tremare il giorno?
O troppa avidità improvvisa?

Allegria! Gioia della distesa arroventata!
Un dolore ignoto abita la chiarezza.
Così forte questa luce in fiore
da soffocare i suoi singulti.
Altro non sa che divenire
Nel suo voler essere tutto.
Si attarda il tempo nuovo
con un peso che schiaccia.
L’ombra non gira.

L’estate vicina.
La dolce chiarità. Il fiume senza torrente.
Bambino, quando camminavo lungo le siepi
accanto al ruscelletto
che portava alla ruota,
al gorgogliante stagno
dove guizzava lo spinarello.
L’estate dalle calme stelle
che ascolta cantare la cavalletta.
La sua distesa promette il frutto,
la piena esposizione dei corpi.
È maturata la luce.

È maturata la luce.
Il suo tessuto di dolcezza pensa a così poco.
Niente è passato nell’aria tranne il giorno che passa
ma si direbbe che pensa
a mille indicibili attese.
Basta un niente a distrarlo
dal niente che lo trattiene.
Un niente.

Spazio, che cosa sei?
Qui il giorno
che del mondo ricomincia il corso,
lì la rotonda notte
dove germinano le leggende
e tutto quanto deve apparire.
E tu sei i movimenti dell’ora
dai nomi così giovani ma stremanti
quando bisogna organizzarli
contro l’oscurità imperante
e sollevare l’intera luce.
Il tempo ha cominciato la sua corsa.

L’ombra ha trovato il suo buio.

Equinozi, bel vocabolo dalla parola più ampia di una poesia,
v’intendo per la prima volta,
e i vostri soli ruotanti,
che fanno salire al giorno
la terra intera come una palla
prima di assegnarle la sua notte
e di spaccarla in due.

Alle sue origini, la scansione delle stagioni è violenta.
Inetta e come mai vista
(erba che spunta, vita sotterranea,
radici color malva dal segreto dei fondali)
proviene da dove non possiamo nulla.

Ergersi, aderire,
abbandonarvisi senza pensare con tutte le fibre della carne,
annegarsi nei suoi nomi
quando ancora non sono che serti di suoni,
insignificanti, strani,
dispiegarli come si guarda spuntare
un corpo ammutolito,
e prestare loro la sua lingua,
la sua gola, la sua casa di specchi,
di voli inebriati che salgono dileguando
– così s’imparano le stagioni,
il tempo, le inesplicabili parole,
l’elementare più muto,
lo spazio che si ostina a nascere
sempre più avanti
come un vulcano la cui passione sarebbe
partorire vulcani.

Stagioni, eccovi qua
e la vita ha cambiato carne.
È scaturito un ritmo.
L’impazienza ha raggiunto il fondo.
Piccole cose, altre più grandi,
indecifrabili si spargono nell’aria.
Non mormorano,
restano silenziose:
sono prive di figura.
Ma gettano nello spazio vibrante
i flutti delle loro potenze.
I fiumi si formano senza una parola.
Ho in me un fiume incommensurabile,
mille vertigini dissipate.
Non attende,
non lascia agli esseri che passano
il tempo di darsi una figura.

Ma che importa la linea chiara delle cose.
È scaturito un ritmo,
e il mondo è colmo di potenze.

A presto le parole.
Le sento avvicinarsi.
Giungono.

Le sento da qui.
Saranno soffocate, lontane,
ché il loro suono deve attraversare lo spazio
e faranno risuonare l’eco di un vuoto incalcolabile.
Saranno com’è tutto il resto
quando l’aria entrata nel tremore
porta del sisma il segno:
trasporto
slancio
soffio d’esortazione.
Stelle.

Giungono.

Presto ci sarà il largo
ed io sarò ritto.
Mi solleverò con tutto il mio essere sulla punta dei piedi.
Il mondo sarà vasto, inebriato.
Sarà come se lo stringessi fra le braccia,
e balbetterò, felice.

 

______________________________
Nota biografica

Max Loreau nasce a Bruxelles il 7 giugno 1928. Compiuti gli studi di filologia classica e in seguito di filosofia, sostenuta una tesi di dottorato (L’humanisme rhétorique de Lorenzo Valla et la formation de la pensée bourgeoise en Italie), inizia il suo insegnamento di filosofia moderna ed estetica all’Université Libre di Bruxelles. Rinuncia presto alla carriera accademica e segue totalmente, a partire dal 1969, la sua irrinunciabile vocazione di scrittore. Esordisce con una serie di saggi sulla filosofia dell’arte incentrati in particolare sull’opera pittorica di Dubuffet di cui stabilisce i primi 28 volumi del catalogo ragionato. L’incontro con l’artista «inventore di continue invenzioni» segna una svolta significativa all’orientamento della riflessione e della vita. Dalla spazialità libera di quella pittura isolata, di primordiale incanto, incorruttibile dalla cultura istituzionale e sospesa agli stadi anteriori di ogni forma di cristallizzazione, trae una lezione esigente per affrontare il compito nuovo del pensiero e della scrittura nell’epoca moderna dominata dalla tecnica. Nasce il volume Jean Dubuffet. Stratégie de la création (1973). L’incontro con Henri Michaux rappresenta il secondo evento decisivo che lo porta a formulare una interrogazione più radicale sullo spazio dell’arte, orientando la propria attenzione sulla «genesi del fenomeno», sul mistero che avvolge l’origine di ogni opera. Che l’attività poetico-pittorica possa offrire alla riflessione un prisma per intraprendere la critica del proprio sguardo, e che «gesto» artistico e «prova» di pensiero siano uniti in un rapporto consustanziale e antecedente la loro separazione, più che un dato sperimentale diviene una certezza interiore che Max Loreau versa in un libro di non facile lettura: Cri. Éclat et phases (1973). Le sue riflessioni sulle forme di scrittura poetica, in particolare quelle di Dotremont (Les logogrammes de Christian Dotremont, 1975), di Deguy (Michel Deguy. La poursuite de la poésie tout entière, 1980) e di altri, convergono nel poderoso sforzo di risemantizzare la nozione di poesia che, sciolta da ogni definizione estetica-linguistica-filosofica, dovrà piuttosto riconoscersi in rapporto al pensiero nella comune e originaria dimensione del linguaggio. Alcuni dei suoi saggi più importanti, sparsi nelle riviste «Poésie», «Textures» e «Le Temps de la réflexion», sono raccolti nel volume En quête d’un Autre Commencement (1987). Quel dialogo ininterrotto con l’opera d’arte non poteva non condurlo alla radura della composizione poetica, forse la vocazione più segreta di Max Loreau. Si ricordano due raccolte di poesie, Chants de perpétuelle venue (1978), Florence portée aux nues (1986) e la raccolta di prose, Nouvelles des êtres et des pas (1976). L’attrait du commencement, (1988) riunisce una serie di conversazioni dell’autore con Eddy Devolder che ripercorrono i tratti della riflessione di Max Loreau e indagano i procedimenti della sua scrittura. La genèse du phénomène (1989), promessa di un imponente lavoro rimasto allo stato di progetto, contiene in germe gli enunciati teorici di quella che avrebbe dovuto essere la ‘grande opera’ la cui incompiutezza resta costitutivamente significativa: linguaggio inaugurale, in prossimità della risorgiva comune alla poesia e al pensiero, è il pre-linguaggio che precede e dà inizio ad ogni «commencement». Nel 1988 compone L’Épreuve, ultimo ma non definitivo gesto della sua arte. Si è spento il 7 gennaio 1990.
____________________________

 

[Max Loreau, Bibliografia (a cura di Adriano Marchetti)]

 

***

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9 pensieri riguardo “L’Épreuve / La Prova”

  1. Un intenso corpo a corpo con la lingua, nella genesi del fenomeno (La génèse du phénomène-opera postuma), la ricerca incessante della nascita nascosta delle cose, nell’inquieto e informe cominciamento, Loreau ha dato corpo a una nuova coscienza poetica del pensiero, una sorta di ontologia della luce e dello spazio. Una voce complessa, abissale, luminosa quella di Loreau, ancora poco conosciuta in Italia. Grazie a Rebstein, a A.Marchetti per questo splendido post e traduzione.
    Ai lettori segnalo anche questa traduzione :
    http://www.tellusfolio.it/index.php?prec=/index.php&cmd=v&id=9259

  2. Grazie, Stefania, anche per il link alla tua traduzione che aggiunge materiale al cesto quasi vuoto delle opere di Loreau disponibili nella nostra lingua.

    Il post, come hai/avete avuto modo di vedere, contiene un pdf con una bibliografia di/su Loreau che è quanto di più esauriente sia oggi reperibile sull’argomento.

    fm

  3. Grazie a te FM per lo spazio prezioso, generoso che hai dato a Loreau; appena avrò tempo tradurrò alcuni importanti passaggi dall’intenso saggio già citato : La génèse du phénomène.
    Saluti
    SR

  4. Intrigante Loreau. Grazie.
    Se non ricordo male, ho letto una traduzione di Loreau, in Italia, forse un frammento de “L’Epreuve”, in un vecchio numero di “Origini”, che mi colpì molto.

  5. Comunque trovi ulteriori ragguagli nella bibliografia allegata. E ci sono anche altre sorprese (“In forma di parole”, ad esempio)…

    fm

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