Carlo Michelstaedter (I)

Dieter Schlesak

Poeta e suicida.
Carlo Michelstaedter

     Il fascino che avverto in lui è quello di uno sparo la cui eco si spegne sopra un mare smisurato, è questa sua spregiudicatezza per cui «ognuno è il primo e l’ultimo»(1) uomo. Come se non ci fosse stato niente prima di lui. Dimostrare qualcosa, dimostrarlo tramite se stessi e pagarlo con la propria vita, l’impossibile, cioè che l’uomo rappresenta un caso limite, e che la sua esistenza altro non è che una via crucis contro la natura…
Una religione senza dio, l’uomo, un dio al di sopra dell’abisso… pensieri questi che sorgono leggendo gli scritti di Carlo Michelstaedter: un sentimento di confidenza e insieme di paura affiora spontaneo per la sua morte volontaria, una morte che imprime il giovane autore nella nostra memoria, poiché fu scrivendo che egli si preparava a questa fine e fu così che mise in atto quanto aveva pensato e vissuto. E nessuna tranquillità può sopraggiungere, niente può tranquillizzarci se pensiamo a lui. In ciò consiste la sua vendetta permanente nei confronti di quella civiltà a cui tutti apparteniamo e che lo ha ucciso.
Effettivamente è passato molto tempo da allora. Era il 17 ottobre del 1910, un’epoca in cui il gesto di porre fine alla propria vita andava diffondendosi quasi come un’epidemia. Erano le due del pomeriggio di una grigia giornata d’autunno a Gorizia, quella piccola città, oggi italiana, tra Trieste e il confine sloveno. Davanti a un palazzo borghese a più piani in Piazza Grande si era raccolto un folto gruppo di persone: «Pare che uno studente si sia sparato», qualcuno diceva.
Lo studente era il ventitreenne laureando in filosofia Carlo Michelstaedter. Lo avevano ritrovato in casa, accovacciato sulla sedia davanti alla sua scrivania, il lavoro ultimato davanti a sé. Con la sua calligrafia energica vi aveva apportato il titolo: La persuasione e la rettorica(2).
Per terra giaceva una rivoltella. La ferita alla tempia stillava sangue. Restò in vita fino a sera, ma senza più riprendere conoscenza. Se n’era andato ancora prima che la sua vita fosse veramente incominciata. Sfoglio le pagine del suo libro, un libro che mi ha profondamente impressionato. E’ considerato un capolavoro della prosa filosofica italiana. Qui si era messo all’opera un genio precoce. Ma molto spesso la condizione dell’individuo non è in grado di sostenere questo impatto. Leggo: «Non dare agli uomini appoggio alla loro paura della morte, ma toglier loro questa paura; non dar loro la vita illusoria e i mezzi a che sempre ancora la chiedano, ma dar loro la vita ora, qui, tutta, perché non chiedano: questa è l’attività che toglie la violenza dalle radici. – “Questo è l’impossibile”. Già: l’impossibile! poiché il possibile è ciò che è dato, il possibile sono i bisogni, le necessità del continuare…»(3).
Era questa, allora, la fuga in avanti, la fuga verso quel mondo delle apparenze di quanto si impone nel tempo. Ma è sotto queste apparenze che si scorge il ticchettio continuo di un dolore dell’insufficienza e della vita sprecata; la fame profonda non viene saziata mai.
Giovanni Papini, una delle autorità della Firenze letteraria di allora, a pochi giorni dal suicidio di Michelstaedter definiva tale gesto «un suicidio metafisico». Ma era molto di più. Dietro c’era un uomo che aveva sofferto molto e il cui pensiero si era scontrato fortemente con la vita che per lui è sempre stata di centrale importanza. Non si devono avere esitazioni a definire questo fallimento dell’infelice una tragedia: «pensi alla fama? pensi alla famiglia?», scriveva, «ma la tua memoria è morta con te […] tutti gli uomini muoiono con te […] ti rivolgi a dio? – non c’è dio, dio muore con te […] domani sei morto, morto; domani è finito tutto»(4).

     Carlo Michelstaedter apparteneva alla generazione di coloro che furono mandati al massacro nella prima guerra mondiale. Dio e la tecnica non sarebbero potuti andare d’accordo, affermava il suo coetaneo Robert Musil. Penso che questo sia vero. Durante la seconda guerra mondiale venne sacrificata la generazione successiva, e in quella circostanza il presentimento di Musil risultò confermato in maniera ancora più terribile… e oltre non si osa forse nemmeno pensare…
Michelstaedter si uccise da solo, con quattro anni di anticipo rispetto ai primi «combattimenti a materiale»(5) della Grande Guerra, i cui presupposti egli aveva saputo riconoscere e descrivere con una chiarezza unica, per esempio scrivendo: «Ma la vera funzione organica della società è l’officina dei valori assoluti, la fornitrice dei “luoghi speciali” e “comuni”: la scienza. Che con l’”oggettività” che implica la rinuncia totale dell’individualità, prende il valore dei sensi, o i dati statistici dei bisogni materiali come ultimi valori, e fornisce alla società col suggello della saggezza assoluta ciò che per la sua vita le è utile: macchine e teorie d’ogni genere e per ogni uso […] di parole»(6). Michelstaedter percepisce l’ambiente che lo circonda come qualcosa di repellente e privo di spirito, qualcosa di logicamente impuro, tanto da considerare questa esistenza un vizio morale. E nemmeno riconosce differenza alcuna tra la vita quotidiana e la scienza. Ovunque s’odono soltanto «frasi prescritte»(7), luoghi comuni, conclusioni ricalcate, pregiudizi. Anche la logica, il cosiddetto sillogismo, del resto, come il raziocinio quotidiano, quello della politica, della famiglia, della scienza o dello Stato, non si basano mai su una verità o su idee fondate, piuttosto si è confrontati sempre con un tacito consenso precedentemente stabilito – la menzogna della vita, il conforto dell’opinione condivisa. Per il giovane studioso soprattutto il padre rappresentava un uomo di questo genere, il severo Alberto Michelstaedter, figura di rilievo nell’ambiente locale, una mente erudita, sì – ma allo stesso tempo di mestiere assicuratore. Un uomo che era solito dire, «altro è la teoria, altro la pratica». Oppure: «Tu devi far uno studio su Platone o sul vangelo… è perché così ti fai un nome…»(8). Tuttavia questo padre non era affatto una persona incolta. Fra le altre cose studiava l’ebraico, traduceva in italiano i Salmi davidici. Conosceva di persona D’Annunzio e la Duse. E proveniva da una famiglia di celebri rabbini. Suo zio, Isacco Samuele Reggio, lasciò scritti in tre lingue, ebraico, tedesco e italiano: interpretazioni di passi dal Pentateuco e una versione poetica del Libro del profeta Isaia.

     Siamo nel 1910, quindi ancora nei «bei tempi andati». Ma già allora la storia non dava più alcuna sicurezza, la tradizione andava disfacendosi, lo spirito dei padri non convinceva più e si faceva vuoto; l’uomo senza qualità non si aggirava soltanto nella Kakania dell’imperatore dai grandi basettoni, in quella specie di operetta allestita come sopra un abisso. «Mi sembra che ci sia un fitto velo tra me e la realtà», scriveva Carlo Michelstaedter, il figlio appunto, alla sorella, «un po’ è individuale, un po’ è la malattia dell’epoca per quanto riguarda l’equilibrio mentale, perché ci troviamo appunto in un’epoca di transizione della società quando tutti i legami sembrano sciogliersi, e l’ingranaggio degli interessi si disperde e le vie dell’esistenza non sono più nettamente tracciate […], ma tutte si confondono e scompaiono […] e sta all’iniziativa individuale crearsi fra il caos universale la via luminosa»(9). Gorizia, ovvero Görz, allora faceva parte di quell’impero mitteleuropeo degli Asburgo la cui capitale sarebbe stata definita da Karl Kraus una «base sperimentale per la fine del mondo»(10). Al tempo in cui Michelstaedter si tolse la vita, a Vienna Sigmund Freud già praticava le sue terapie. I valzer di Strauss, la corte imperiale della Hofburg, il viavai delle carrozze. Ma insieme per le strade c’erano anche le prime automobili e nell’aria i primi velivoli. Esistevano già la teoria della relatività di Einstein, i quanti di Planck, i raggi di Roentgen, la radioattività, la teoria atomica; e da tempo c’era l’elettricità, i telefoni, la telegrafia – ma la consapevolezza del proprio tempo era rimasta assai arretrata, e lo è forse tutt’oggi. Kafka a Praga, Rilke a Duino; e a Vienna Musil, Kraus, Broch, Schnitzler… Come dei sismografi sensibilissimi gli artisti presagivano la disgrazia in ciò che si stava preparando. Un ballo degli spettri. «Ma la vita, / la vita non è vita, / se la morte / la morte è nella vita…»(11), ha scritto Carlo Michelstaedter.
Passi che rimbombano, il silenzio che ronza, una lampada vacilla solitaria sulla scrivania proiettando ombre smisurate sui muri. Sul bianco del foglio la calligrafia si fa sempre più vicina, l’abbaiare di un cane dal cortile, il viso pallido e sottile si abbassa sull’ultimo tratto d’inchiostro, in quel suo stato di dormiveglia sembrano aggredirlo dei fantasmi: il figlio che vede in sogno il padre morente, certe scene terribili d’identificazione e di separazione pregne di amore e odio. Carlo le descrive nelle sue lettere: «il papa(12) doveva morire. Nella gran sala c’è il gran letto dove doveva far la morte dignitosa. Vennero i medici, espunsero gli occhi al papa e gli uccisero la testa che andò insieme in un Klumpen(13): io sentivo chiaramente come sbarazzavo i piedi da questa cosa ormai inutile che non m’apparteneva più: il mio capo. Ma allora m’accorsi che ero vivo ancora. […] Tu devi rientrar nella tua vita – diceva una voce – rientrar nello spirito dei tuoi padri… e mi svegliai…»(14).

     Ma i sensi di colpa, e la sensazione di trovarsi rinchiusi in quel pozzo cieco del proprio corpo e perfino senza testa, questi sensi di colpa duravano. Di notte il fantasma menzognero dell’abitudine si dilegua; scompaiono i nomi, l’agio di ciò che è familiare, i contorni della città; soltanto quella «sorda voce dell’oscuro dolore»(15) si fa ad un tratto acutissima. Stare sdraiati con gli occhi aperti, insonni, e fissare il soffitto mentre l’orologio prosegue il suo ticchettio. Per i bambini questa oscurità si presenta ogni notte, per l’adulto soltanto in situazioni eccezionali, e le preoccupazioni diventano immense; una pugnalata nel cuore, rammarico. Le occasioni perdute. L’orologio fa tic-tac, e il tempo passa, inesorabilmente. Non appare nessun Messia. Non si apre nessun abisso. Niente. Ha inizio una nuova giornata, tutto va avanti a rilento, seguendo il solito andazzo. Ciò che resta è il terrore di quel che è irrimediabilmente perduto.
Telefono a Sergio Campailla, curatore delle opere di Carlo Michelstaedter. Campailla, siciliano d’origine, è professore universitario, saggista e filologo. Nel suo volume dedicato al pensatore e poeta suicida ho riscontrato una descrizione impressionante ed estremamente precisa dell’ultima estate di Carlo nel 1910. Certo avrei preferito telefonare a Gorizia. Ma là non vive più nessuno dei familiari di Michelstaedter. Nessuno degli amici. Tutti morti. Dimenticati. E molti di loro sono finiti in quei mulini della morte che restano al di là della nostra immaginazione. Coloro che gli stavano più vicini, la madre, la sorella, la sua fidanzata… la madre era una donna di 89 anni – 89! – quando fu deportata dalle SS.
Come se il figlio, anzi tempo, avesse presagito questa disgrazia… Certo, dice la voce energica del professor Campailla al telefono, in risposta alla mia domanda come sia avvenuto che lui, nato così lontano da Gorizia, o da Trieste, si sia rivolto a quella zona pericolosa di confine del Friuli e del Veneto e ora stia dedicando all’opera di Carlo Michelstaedter tutte le sue energie, lui, il siciliano Sergio Campailla. Certo, dice, è stata una simpatia, un’affinità elettiva, perché i siciliani sono gli ebrei d’Italia.
Quando il giovane goriziano, proveniente dal liceo statale austriaco, lo Staatsgymnasium di Gorizia, e quindi come «straniero», arrivò a Firenze nel 1905 per intraprendere gli studi universitari, la sua lingua madre era l’italiano, mentre la sua origine e la sua educazione erano ebraiche, dovette sentirsi tre volte estraneo.
Inizialmente era tormentato dalla nostalgia, ma poi si tuffò nei piaceri delle arti, e già durante il viaggio aveva sostato a Venezia, con i suoi grandi occhi pieni di Bellini, Carpaccio e Tiziano, per vedere San Marco, il Palazzo Ducale. E quindi Firenze, dove potè osservare con meraviglia Santa Maria Novella, il Duomo, la cupola del Brunelleschi, il Battistero, Giotto, Palazzo Vecchio, Santa Croce. Qui si ritrova su un pianeta diverso, e soltanto l’Arno «color caffè» gli ricorda l’Isonzo, il fiume della sua patria. E negli Uffizzi: Raffaello, Dürer, Van Dyck, Rubens. In uno stato quasi vertiginoso attraversa questo labirinto di quadri. Ripudia invece il mondo accademico degli studi universitari. Fa visita al professor Guido Mazzoni, di cui descrive con ironia pungente l’atteggiamento rigido di sussiego accademico. Ma all’Istituto di Studi Superiori, dove si iscrive, conoscerà i suoi due grandi amici: Gaetano Chiavacci e Vladimiro Arangio-Ruiz, entrambi ‘Italiani veri’. Del napoletano Vladimiro resta un ritratto a olio che ricorda Beethoven e qualche Santo pazzo che Carlo, dotato oltretutto di un notevole talento artistico(16), avrebbe dipinto lo stesso anno. Ma pratica anche sport, danza, nuota, va in bicicletta. Una strana inibizione lo tiene lontano dalle donne. Legge D’Annunzio, scrive poesie e studia e traduce gli scritti latini del Machiavelli. Durante le vacanze di Natale del 1907 si verifica invece un grave scontro con il padre.
Nel 1907 avviene anche il primo incontro con una donna, Nadia, una giovane russa a cui impartisce lezioni private d’italiano. Un anno più avanti lei si toglierà la vita. La morte dell’amica non finirà più di tormentarlo. Cerca consolazione nella musica, nella pittura e nello studio dei filosofi greci e tedeschi. Scrive un grande saggio ispirato allo stile letterario di Platone, Il dialogo della salute. Scrive anche molte lettere dalle quali si evince quanto la depressione lo faccia soffrire e come non vi sia niente in grado di alleviare questo suo stato d’animo. Come molti giovani di quel tempo, anche lui è dominato da pensieri sulla morte. Cerca di salvarsi per mezzo della scrittura, prende i suoi appunti in piedi, camminando, scrive lunghe lettere, poesie, abbozza i suoi pensieri nei tram, al Giardino di Boboli, su foglietti di carta, sui bordi dei taccuini di studio; e d’estate a casa scrive quasi per claustrofobia, per sperimentare con i sensi la densità dei suoi pensieri, gli stessi pensieri ai quali nessuno, nella vita quotidiana, era disposto a credere, le sue «fantasmagorie» che nessuno voleva ascoltare. In quella quotidianità da lui detestata non vuole essere più trascinato.
Vuole essere libero, indipendente anche dalla casa della famiglia che in egual misura odia e ama.
Ritornato a Firenze, desideroso di sfuggire all’anonimato, cerca di conquistarsi una posizione nell’ambiente letterario; invia lettere a riviste e case editrici, a critici e redattori, anche a Milano e Torino. Tutto invano. Anche il grande Benedetto Croce che a Bari, per Laterza, pubblica la collana dei «Classici della Filosofia moderna», alla proposta da parte di Michelstaedter di tradurre le opere di Schopenhauer, fornisce una risposta amichevole ma negativa. Il pessimismo di quel pensatore tedesco così avverso alla vita non trovava spazio nella visione del mondo classicista di Croce. Anche in questa occasione il giovane letterato risultava uno straniero senza un nome.
Nessuno mai gli offrì l’occasione buona per concretizzare le sue proposte: oltre 2000 pagine rimasero chiuse nel cassetto di Michelstaedter. «Tutto m’andò infruttuoso…», scrive amareggiato ad un amico: «E intesi che dappertutto bisogna esser in qualche modo raccomandati o dalla fama di scrittore o dalla protezione…»(17).
Il giovane autore, di origine ebraica e rimasto come circondato da tante lingue e da tanti paesi diversi, aveva un pensiero più universale rispetto alla maggior parte dei suoi contemporanei. A meno che lo si confronti con altri senza patria. Il suo tentativo di stabilirsi in Italia fu un errore; egli rientrava piuttosto in quel laboratorio mitteleuropeo del pensiero moderno e del decadimento. Nel pensiero era fratello di Musil, Weininger e Freud, non di Carducci, Croce o Papini.
La coscienza moderna è costituita da un senso di estraneità nei confronti del mondo. La diaspora ha reso più acuto lo sguardo, la falsità dei valori e dei legami precedenti si è fatta più facilmente riconoscibile. Einstein, Freud, Husserl e Buber sono di origine ebraica, e lo stesso vale per Kafka, Döblin, Brod, Werfel, Zweig o Schönberg. Quasi tutti loro, proprio come nel caso del goriziano, provenivano dal vasto territorio di quell’impero austro-ungarico in procinto di dissolversi. La catastrofe europea si manifestava soprattutto ai margini del vecchio continente. Furono soltanto tre, e fra i meno significativi, gli scritti di Michelstaedter apparsi in vita dell’autore, nelle gazzette locali. La sua opera invece è stata pubblicata postuma, e in modo ragionato soltanto negli anni cinquanta, cioè quasi mezzo secolo dopo la morte, e quindi, a partire dagli anni ottanta, quasi integralmente, grazie a un progetto editoriale di cinque volumi comprendenti oltre agli scritti anche un catalogo dell’opera figurativa. Così è sopravvissuto al suo tempo in modo assai diverso rispetto a quanto egli si sarebbe potuto immaginare. Michelstaedter si ritraeva come un anziano dalle orecchie smisurate e con un grande naso ricurvo da uccello, sopracciglia stranamente prolungate che rammentano una ferita e si estendono fino alle orecchie. Oppure si disegnava con tratti rigidi e guardando fuori dall’oscurità di una cornice e di una finestra, il capello rasato, assomigliante a un teschio e con lo sguardo privo di espressione. La bocca e il mento leggermente sprovveduti, spaventato e con espressione incerta.
Per lui è la paura della morte, cioè il mancato coraggio di vedere nella morte un Memento mori, una forza amica, come nella percezione medioevale, atta a rendere la coscienza più acuta, a far sì che tutti rinneghino la propria vita, risultando bugiardi e servili. Non si limitava dunque a scrivere per salvare la propria anima dalla disperazione, piuttosto la metteva in risalto anche nei suoi disegni. Non fu solamente il padre Alberto a venire rappresentato come sfinge; nei suoi abbozzi amari che sembrano anticipare Georg Grosz, il suo ambiente è trasformato, attraverso una lente falsificatoria, in una danza di mutilati, essi prendono origine dall’umiliazione spregiativa dell’uomo, una galleria di mostri deformi: professori, avvocati, preti, cittadini. I singoli attimi delle loro vite sono pieni di finzioni e di infamia per la loro vacua presunzione, signore e signori borghesi dalle facce grottesche, ma mai disegnate senza compassione, tutti quanti sfigurati dalla paura della morte e resi delle bestie la cui vita, tra flirt, onoranze ufficiali, titoli di prestigio, denaro, sicurezze illusorie, è accompagnata da uno stordimento costante e gradevole. Tutti quanti, scrive Michelstaedter, sono «come quello che sogna di levarsi […] [e che] né levandosi né cessando di sognare continua a soffrir dell’immagine viva che gli turba la pace del sonno e dell’immobilità che gli rende vana l’azione che sogna»(18). A suo avviso sarebbe la società a propiziare sempre di più questo stato ipnotico, in ragione del quale la paralisi risulterebbe sempre più completa: «Questi, che ha accettato la cambiale della società […]: egli è sotto tutela – non ha voce, […] gli è tolto il senso della responsabilità»(19). E a portarlo così tanto in là sarebbe l’ordinamento delle forze nemiche all’uomo, «la Chiesa, […] il socialismo, […] la scienza»(20).
A partire dall’estate del 1908, durante un soggiorno al mare presso Pirano, Carlo ha una nuova fidanzata, la bella ebrea istriana Argia Cassini. E’ per lei che nelle vacanze di Natale del 1908 prolunga il suo soggiorno goriziano. E poi per un lutto in famiglia che colpisce tutti come un fulmine: Gino, il fratello maggiore di Carlo emigrato a New York, era mancato all’improvviso. La reazione del padre, del tutto impreparato e che aveva sempre evitato di pensare alla morte, fece impressione a un giovane come Carlo, che fin dal suicidio di Nadia aveva avuto una dimestichezza intima nell’affrontare la morte, consapevole di questa realtà inafferrabile, tanto che l’atteggiamento poco maturo del padre significò per Carlo la conferma della convinzione che l’intera civiltà, menzognera, fosse basata su una rimozione della morte. Soltanto con disgusto egli ripensa al mondo accademico vuoto e vanitoso di Firenze, e a «tutti i mandarini guasti»(21) che ad esso si associavano. E quando poi, soltanto a marzo, rientra nel capoluogo toscano e presso il direttore dell’Istituto fa richiesta per una riduzione delle tasse universitarie che non gli viene concessa, in un attacco di collera, cui è purtroppo frequentemente soggetto, arriva a chiamare il preside di Facoltà un «animale burocratico»(22).
Nel maggio 1909 Michelstaedter per poco non si rompe una gamba quando, sotto l’impressione dell’Eroica di Beethoven, e dell’attrazione dell’«alto» che questa esercita(23) – compie di corsa l’ascensione di una montagna nei pressi di Firenze, per poi discendere subito a capofitto. Ora sì che si sente capace di riconoscere bene il dislivello d’altezza tra l’«Io» e il «piede», comunica per lettera alla sorella Paula.
In questo periodo viene a contatto con la verità dei vangeli, la figura di Gesù è per lui una verità che viene messa in atto, un esempio di chi fa affidamento su se stesso fino alla morte, e non vuote parole come quelle che su Gesù Cristo si fanno nelle aule dell’accademia, negli istituti e nelle chiese. Le sue sensazioni sono state descritte così da Campailla: «Morendo sulla croce Cristo, come Socrate bevendo la cicuta, si era affermato libero nella vita e libero nella morte, libero dalla vita e libero dalla morte, in un martirio che era (nel profondo significato greco: μαρτύριον) testimonianza di valore»(24).
Nella mera verbalizzazione il giovane sognatore dell’assoluto avverte un tradimento, l’atteggiamento conformista verso i meccanismi sociali, verso il grande macchinario che uccide ciò che è vitale attraverso termini e tecniche dati, una retorica in azione. E disperato si mette a scrivere nonostante ciò sia opposto a quanto afferma scrivendo. Unicamente la musica è espressione pura e capace di sfuggire alle terminologie taglienti e di scostarsi dal carattere così artificialmente «oggettivo» del mondo dell’arte. «Mettetevi, ad esempio, a guardare oggettivamente la faccia dell’amico», esorta rivolgendosi al lettore, «nella quale ora vedete una bocca turpe e un’espressione che non va e provatevi a ritrovar la nobiltà del naso e della fronte, che prima amavate – troverete linee e angoli e curve e prominenze d’una data forma, ma delle quali non saprete dir niente; la parola nobile detta di nasi e di fronti si farà per voi vuota di ogni significato: il naso e la fronte dalla linea nobile vi saranno indifferenti e incomprensibili»(25).  Ironicamente si chiede anche se per gioco sarebbe fattibile separare lo stomaco dal resto del corpo, oppure il cuore? Ma questo non sarebbe possibile, perché il cuore allora cesserebbe di battere, sarebbe un cuore morto. L’interazione è qualcosa di vivo soltanto nel suo insieme che gli conferisce un’aura indivisibile e inspiegabile. In italiano sapere, nel senso di conoscere, deriva da sapore, gusto, profumo, aroma, il timbro di un suono, l’aura di una cosa o di un corpo come dono della verità che è qualcosa di inviolato.
Il 22 giugno 1909 Michelstaedter supera il suo ultimo esame orale alla Facoltà di Lettere e lascia Firenze. A Gorizia intende portare a termine il lavoro scritto. Da qui ha inizio l’estesa ricerca per la sua tesi La persuasione e la rettorica che prende le mosse da questa bella metafora: «So che voglio e non ho cosa io voglia. Un peso pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende. Lo vogliamo soddisfare: lo liberiamo dalla sua dipendenza; lo lasciamo andare che sazi la sua fame del più basso, e scenda indipendente fino a che sia contento di scendere»(26).
Nel caso dell’uomo si tratta della forza di gravità del cuore, la sua «fame», il desiderio impedito. Egli si sente un morto in vita, perché Amore, la sua specifica forza di gravità, non riesce a farsi strada. Fiamma che ardendo consuma se stessa, questo è la fiamma amorosa.
Una coincidenza memorabile: la «fiamma» di Michelstaedter, la sua fidanzata, si chiamava Argia, un nome che in greco significa inerzia, pace (e anche morte). Con Argia, la bella ebrea, e con due amici dei tempi della scuola, Rico Mreule e Gino Paternolli, trascorre l’estate prima sul Mare Adriatico, a Pirano e poi in villeggiatura a Santa Lucia d’Isonzo. Al mare intimorisce la ragazza con il suo poetare intorno alla morte. La vede come «Senia» (Xenia), la straniera. E lui, a sua volta straniero quasi per natura, esagera il suo amore quando cerca di superare i confini del corpo che separano l’uno dall’altro gli individui – per vivere la morte, per risvegliarsi nella consapevolezza del Memento mori. Nello shock più estremo e più amaro; solo così, pensa, la menzogna potrà essere combattuta, e allora la soddisfazione sarebbe già possibile anche sul piano del tempo e del corpo, nel mondo materialistico, contro il quale inveisce strenuamente, contro l’impostura della civiltà che si serve del futuro come mezzo di seduzione. E come allettamento lusinghiero rifiuta nel suo insieme il sapere fallace, attribuendo ad esso non soltanto tecnica, politica e scienza, ma anche la loro premessa, il linguaggio. Tutte menzogne vitali che conducono il dolore e la tragicità verso l’oblio, incatenando l’uomo alla sua animalesca natura fisica. E Michelstaedter si rivolge a coloro che sono pronti a portare alla mente quell’antico male per cui tutti dobbiamo morire: i presocratici, i tragici greci, Platone, Socrate, Cristo, la Bibbia, Petrarca, Ibsen. Con una certa riservatezza guarda invece a Schopenhauer e Nietzsche, e di quest’ultimo non condivide le rivendicazioni, né i concetti di superuomo e di volontà di potenza. Al contrario si impegna piuttosto per contrastare questi istinti «sani» in sé e negli altri considerandoli l’esteriorità odiata nella propria anima, capaci di avvelenare chiunque, e appartenenti alla «rettorica».

(Continua…)

[Tratto da: Dieter Schlesak, Poesia, malattia pericolosa, a cura di Marco Ercolani e Antono Staude, Novi Ligure (AL), Joker Edizioni, I libri dell’Arca, 2008.

Der dichter und Selbstmörder Carlo Michelstaedter (traduzione di Antonio Staude) è stato pubblicato prima come versione per la radio BR/SDR, 6.5.86, e poi in Dieter Schlesak, Zeugen and der Grenze unserer Vorstellung. Studien. Essays. Portraits, IKGS der Universität München, 2005.]

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Note

(1) C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Milano, Adelphi, 1982, p. 73 (cfr. nota 36).
(2) Tra le sue opere, edite da ultimo per l’editore Adelphi, e con l’aiuto dell’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei di Gorizia si trova anche il fondamentale lavoro accademico: Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982 (1ª ed.).
(3) C. Michelstaedter, Persuasione, cit., p. 81.
(4) C. Michelstaedter, Persuasione, pp. 68-69.
(5) Materialschlacht, termine tecnico coniato in Germania in seguito alla prima guerra mondiale.
(6) C. Michelstaedter, Persuasione, pp. 181-182.
(7) C. Michelstaedter, Persuasione, p. 165.
(8) C. Michelstaedter, Persuasione, Introduzione di S. Campailla, p. 26.
(9) S. Campailla, A ferri corti con la vita, Comune di Gorizia, 1981, p. 53-54.
(10) Versuchsstation des Weltuntergangs. Karl Kraus: Die Fackel, Nr. 400-403. Wien, 10. VII. 1914, p. 2.
(11) Il canto delle crisalidi, in C. Michelstaedter, Poesie, p. 54; cfr. Opere, III, Milano, Adelphi, 1987, p. 369.
(12) Benché nel manoscritto si legga “papa“, dal contesto andrà comunque inteso il significato di “papà“.
(13) Klumpen: tedesco per ammasso informe.
(14) S. Campailla, A ferri corti con la vita, cit., pp. 128-129.
(15) C. Michelstaedter, Persuasione, cit., p. 56.
(16) Si veda a proposito il volume L’immagine irraggiungibile. Dipinti e disegni di Carlo Michelstaedter, a cura di Antonella Gallarotti, Monfalcone, Edizioni della Laguna, 1992.
(17) C. Michelstaedter, Epistolario, p. 436, Milano, Adelphi, 1983.
(18) C. Michelstaedter, Persuasione, cit., p. 73.
(19) C. Michelstaedter, ivi, pp. 160-161.
(20) C. Michelstaedter, ivi, p. 181.
(21) C. Michelstaedter, Epistolario, cit., p. 354.
(22) C. Michelstaedter, ivi, p. 356.
(23) C. Michelstaedter, ivi, p. 361.
(24) S. Campailla, A ferri corti con la vita, cit., p. 102.
(25) C. Michelstaedter, Persuasione, cit., pp. 125-126.
(26) C. Michelstaedter, ivi, p. 39.
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7 pensieri riguardo “Carlo Michelstaedter (I)”

  1. La senti la voce della società? E’ come un ronzio colossale, ma se porgi l’orecchio a seguire i singoli suoni, udirai voci d’impazienza, d’incitamento, voci gaudenti senza gioia, di comando senza forza, di bestemmia senza scopo.
    E se li guardi negli occhi vedrai in tutti, nel lieto e nel triste, nel ricco e nel povero, lo spavento e l’ansia della bestia perseguitata. Guarda tutti come si affrettano, s’incontrano, si urtano, commerciano.
    Sembra davvero che ognuno vada a qualche cosa.
    Ma dove vanno e cosa vogliono?

    FRAMMENTO: del poeta, pittore Carlo Michelstaedter, goriziano, morto suicida nel 1910.

    Chissà cosa vuol dire debolezza
    forza, nella gente, spina dorsale.
    Chissà cosa sanno quanti sanno
    ciò che vogliono, che spingono avanti la certezza
    di essere, come fossero da sempre
    uomini, e per sempre.

    (La Ragazza Carla di Carlo Pagliarani 1954-1957)

  2. Ringrazio Francesco per aver dato spazio alla voce di Dieter Schlesak che scrive di Michelstadter. La storia di Michelstadter, in sé, fa sperare che i veri talenti possano avere, prima o poi, il GIUSTO riconoscimento. È storia antica. Però, chissà…
    Intanto godiamoci le pagine dello scrittore tedesco che ho avuto la giopia di pubblicare nei libri dell’Arca.

    m

  3. Grazie a voi.
    Marco, prima o poi pubblichiamo anche altro di Schlesak. Se avessi un po’ di tempo, tradurrei anch’io qualcosa, ho visto dei suoi bellissimi scritti in alcune riviste tedesche in rete.

    fm

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