L’orologiaio

Hans Henny Jahnn

«Apparse presso Rowohlt nel 1954, le 13 storie inospitali chiudono il cerchio delle opere narrative di Hans Henny Jahnn. Questi torsi di prosa ritagliati da Perrudja (1929) e dallo sterminato corpo di Fiume senza rive (1949-61) affidano alle carte una costellazione minima dei temi e delle ossessioni dell’autore. Baedeker di Atlantide, canzoniere ultimo e, insieme, per la sua natura testamentaria, maschera funebre dello stesso Jahnn, le Storie rappresentano l’ideale viatico a un continente inabissato.

Al discrimine tra sogno e mito, i racconti sono governati dalla follia e dal doppio, dall’eros e dalla morte, dall’amore fra consimili e consanguinei: un soffio tragico attraversa perennemente la natura, questa macchina fatale. Le invarianti del potere e della guerra di ogni tempo, l’urlio del mondo, risplendono in tutta la loro terribilità, così come la resistenza e lo scacco perpetuo nei confronti della Zivilisation, ovvero del «cannibalismo, travestito da ordine civile, della ratio» (F. Masini). Il manierismo magico di Jahnn – campo in cui si trovano combinate le forze scatenanti dell’Espressionismo – gemma tredici “leggende spietate” dove l’elemento fantastico e perturbante reca lo stigma di una narrazione arcaica e intemporale, preluterana.

Ancora oggi le sue pagine sono sempre più numerose dei suoi lettori. Ma il costruttore d’organi, questo grande eretico e solitario delle lettere tedesche rimane, con Döblin e Musil, tra i fondatori dell’epos moderno.» (Domenico Pinto)

 

Hans Henny Jahnn, 13 storie inospitali
A cura di Domenico Pinto
Traduzione di Elisa Perotti
Postfazione di Andrea Raos
Con un saggio di Ferruccio Masini
S. Angelo in Formis (CE), Lavieri Edizioni
Collana “Arno”, 2010

 

L’orologiaio

In memoria del mio bisnonno Matthias Jahnn

 

    

Salgo i gradini della scala in pietra, apro la porta e sono nel negozio.
     «Papà», dico trepidante, e lui si avvicina strascicando i piedi. Lo vedo passare quatto quatto davanti a una serie di finestrelle: dodici vani stretti, separati gli uni dagli altri da colonne doppie e da due contrafforti, uniti da un unico lungo davanzale in pietra; una meravigliosa parete di luce e ombre.
     «Papà, fammi vedere gli orologi».
     Mi accompagna agli scaffali. Sento il ticchettio melodico degli orologi, è come il battito di tanti cuori. Accosta alcuni dei pezzi preziosi, li solleva, si porta sul davanzale. Le dita fanno roteare le lancette sul quadrante e, a tutte le ore, che si danno il cambio così in fretta, l’ingranaggio nascosto zufola un’arietta. È come il delicato zufolare di un uccello, e tuttavia è giudizioso come una melodia su cui si sarebbero potute scrivere le parole. Penso a tutto questo e intanto, nella cassa, vedo un minuscolo merlo dorato che sbatte le ali e spalanca il becco; ma non appena il canto finisce, l’uccello ritorna in volo nella cassa e si chiude una porta.
     «Ancora una volta, tutte e dodici le ore», lo supplico.
     Scuote il capo in segno di diniego. Mi appoggia all’orecchio un orologio a ripetizione a forma di sfera. Carica la molla e una graziosa campana del piccolo marchingegno conta per me le ore e i minuti di questo istante della giornata.  All’improvviso si leva un suono prolungato, sordo, si uniscono campane, campanelli, versi di animali, tamburi e flauti. L’ora intera viene salutata da un centinaio di ingranaggi in funzione; per un minuto si respira nella stanza un’atmosfera di sacralità, come se fosse passato di lì l’angelo nero della morte. Solo gradualmente il tempo torna a scorrere nel ticchettio. Ho trattenuto il respiro.
     «La cosa sublime», dice papà, «è che ogni ora ha il suo valore e nessuna termina senza che ne venga annunciata la lode. Quante ore ho già udito!»
     Con timoroso stupore guardo quei grandi orologi a pendolo, dove i pesi di piombo e ottone sono legati agli intestini animali avvolti sull’aspo, e i cui pendoli contano i secondi oscillando lentamente. Il suono delle loro campane era stato così argentino e puro da farmi avvertire nelle ginocchia una stanchezza reverenziale.
     «Fammi vedere il tuo orologio più bello», lo supplico.
     «Più tardi», risponde, «quando il giorno volge al termine». Mi mette davanti una scatola piatta. «Leggi l’ora», mi dice.
     «È una scatola», dico mentre cerco di aprirla. Non mi riesce. È chiusa da tutti i lati. Papà sorride. Tocca con un dito una delle sei facce, quella più lucida; e subito compaiono dei numeri, come sgorgati dall’interno, che si spengono in un istante.
     «Com’è possibile?», chiedo stupito.
     «Molte cose sono possibili», dice tranquillo, «ma solo poche sono innocenti. Un orologio è innocente anche quando confina col miracoloso. La maggior parte delle macchine sono colpevoli, queste no».
     Passiamo di nuovo davanti agli scaffali su cui si trovano dei meccanismi nelle loro belle casse. Il bronzo giallo splendente si avviticchia intorno ai quadranti. Sul piedistallo di marmo c’è una coppia di bambini, Amore e Psiche, che sostiene il disco d’oro dove le cifre romane vengono sorrette da mazzi di nontiscordardimé; il blu cobalto dello smalto ha il sapore delle labbra d’una fanciulla da noi amata, morente. Incantato da tutte queste meraviglie chiedo insaziabile:
     «È tutto qui?»
     No, non è tutto. Porta in un carrello un mappamondo celeste diviso a metà. Cerchi di ottone disegnano le traiettorie dei pianeti; sfere di quarzo ben tornito, limpido come l’acqua, rappresentano i pianeti. Venere sta seduta al centro del cosmo, tiene in grembo una pietra scintillante giallo miele, il sole. Con un tocco abile e delicato papà allenta le catene del bilanciere che misura i secondi; il marchingegno fa un salto fuori dal tempo, i pianeti cominciano a muoversi, ruotano seguendo la loro traiettoria, la luna entra nella fase calante, per poi tornare in quella crescente. Passa un mese, passa un anno, lo zodiaco si è srotolato davanti a me per trecentosessantacinque giorni fluttuando silenzioso, con i suoi animali disseminati sulla volta del cielo, incisioni nere nel metallo lucente. Mi gira la testa. Il suono prolungato, sordo, si leva di nuovo. Inizia il cantico di lode delle ore piene. Si interrompe.
     «Ora l’orologio deve stare fermo un anno intero», dice papà, «l’ho fatto per te».
     Egli pensa a qualcosa. Risistema lo scappamento dei secondi. L’universo giace senza vita nel carrello. Sono vicino alle lacrime. Ha fatto qualcosa per me. Non fa mai nulla per la mamma. Ella non conosce gli orologi. Le fanno paura.
     «Sono già passate molte ore», gli sento dire, «non ci siamo accorti dello scorrere del tempo».
     Accorre l’aiutante. Porta due spessi volumi in folio su cui sono tracciati i calcoli ramificati e i disegni, fatti con arte, dei rotismi che si combinano.
     «Siediti sul davanzale», dice papà, «non muoverti. Il giorno volge al termine. Gli orologi aspettano di andare a dormire».
     In tutta fretta l’aiutante chiude a chiave dentro un armadio i volumi in folio. Vedo mio padre sprangare la porta del negozio e correre nel retrobottega. L’aiutante lo segue. Si dileguano su per una stretta scala a chiocciola. Scorgo per ultimi i piedi dell’aiutante. Si leva di nuovo il suono prolungato, sordo, più ammonitore di prima, quasi funesto. Il suono argenteo degli orologi a pendolo viene soffocato; i flauti non possono inserirsi che già smuoiono; i versi degli animali si spengono in un breve ruggito timoroso, le membrane di pergamena dei tamburi cedono. Come un terremoto si fa strada dal profondo il rombo bronzeo di una campana. L’alto scaffale davanti a me comincia a muoversi. Flessuoso come una vela al vento fugge all’indietro. L’armadio in cui l’aiutante ha chiuso i volumi in folio sprofonda. Il muro assorbe anche lo scaffale. Gli orologi a pendolo dirigono altrove il viso che ospita le lancette e si rintanano in un’ombra che esisteva da tempo. La stanza si svuota. Il cuore è ancora in subbuglio; non riesco più a tranquillizzarmi. Tutto cade, prima come polvere, poi nella forma netta delle pareti, il pavimento si apre. Il suono delle campane, un fascio di lampi andati in frantumi, proviene dalla fessura; essa ricorda una fossa buia da cui siano state svelte le pietre sepolcrali, di modo che possano risalire le inquietanti figure dei morti che non hanno pace. Là sotto qualcosa si muove. Si muove contro le pareti. Rumori; uno scricchiolio leggero; avanza una galleria. Vedo degli angeli color carne fluttuare su un cespuglio di alloro, acanto, prezzemolo e bosso. A sporgere dal parapetto della galleria è un minuscolo organo barocco. Davanti ai muri ci sono bizzarri portici in una cornice di legno variopinta, lavorata d’intaglio. Bassi poggiapiedi sono emersi dalla fossa. Vedo fra di loro figure umane in movimento. Non so se siano vivi, morti, se sia un ingranaggio camuffato da bambola. Dalle canne dell’organo cala un suono fievole e stridente, un corale che nota dopo nota va scalando tutte le armonie. Per la prima volta avverto che una meraviglia della meccanica si è materializzata davanti ai miei occhi. Sento il ticchettio degli orologi dietro le pareti. Un rullo muove le valvole davanti alle bocche delle canne. Il giorno è giunto al termine. – Il meccanismo di un orologio gli erige un piccolo tempio affinché non sprofondi nella tomba della notte senza una lode. – Più tardi, quando il giorno volge al termine –, aveva detto papà, – avrei visto la sua opera più bella.
     Ora nella stanza artificiale è tutto uno scricchiolio. È il principio delle trasformazioni. Le fosse delle pareti si aprono e inghiottiscono la visione. La stanza è spoglia. Sono sempre seduto sul davanzale. Scorgo la scala a chiocciola nel retrobottega. Corro su. Attraverso l’officina; sui tavoli si trovano componenti di orologi da finire, intelaiature di un bel metallo giallo lucidato in cui verrà fissato il delicato organismo. Assi bianchi splendenti e migliaia di denti negli ingranaggi fresati alla perfezione. Mio padre è seduto al tavolo col suo aiutante, in una nicchia davanti a una finestra che si affaccia sulla strada, beve il vino, spezza il pane che mangiano con delle olive nere.
     «Cosa ne dici dell’orologio che occupa tutto il negozio?» chiede mio padre. Risponde l’aiutante al posto mio:
     «Ha fatto di meglio, maestro».
     «Su questo non si discute», si infervora mio padre. Mi porge il suo bicchiere, mi passa il pane e le olive. Gli chiedo:
     «Perché non mangi mai con me e con la mamma?»
     «Gli orologi diverrebbero tristi se li abbandonassi», risponde a voce bassa.
     «Anche noi siamo tristi», dico con decisione.
     «Si fermerebbero e non riprenderebbero più il loro movimento. Il vostro cuore non si ferma, non si rompe».

 

***

19 pensieri riguardo “L’orologiaio”

  1. Regalatevi questo libro, o fatelo comprare dalle biblioteche che conoscete. Scoprirete un grandissimo scrittore e, soprattutto, permetterete a una piccola editrice di grande qualità di continuare a sopravvivere e a regalarci opere del genere.

    E’ una forma di “resistenza” anche questa: un supporto concreto a chi opera alla periferia della periferia dell’impero, contro lo strangolamento messo in atto dalla grande editoria da supermercato e dalla quantità industriale di chiaviche impaginate che quotidianamente riversa sul mercato.

    fm

  2. Ciao, Fabio. In attesa che qualcuno si decida a mettere in circolo una traduzione degna dell’immenso “Fiume senza rive”.

    fm

  3. Pingback: L’orologiaio
  4. ciao a te, Francesco, e grazie per questo post. E, sì, in attesa, ringraziando intanto Domenico Pinto per l’infilzata di perle che faticosamente sta cercando di introdurre qui da noi (girandogli, magari, allegoricamente questo stralcio da Il coltivatore, pagina 53 del libro:

    Quando lo videro, dissero: “Ma tu non dovresti più esserci”. Ed egli rispose: “Ne vedrete ancora delle belle”. E se ne stava sulla piazza del mercato, senza nulla da fare.

    Buona giornata,

    f.t.

  5. Pensa un po’, “Il coltivatore” era uno dei racconti a cui avevo pensato per il post…

    Comunque hai ragione sul lavoro di Pinto: all’estero la “Collana Arno” sarebbe stata il fiore all’occhiello di parecchie grandi editrici.

    fm

  6. Sono prose straordinarie, sceglierne una sulle tredici è effettivamente difficile. Personalmente, ho preferito le zone di più accesa visionarietà del libro, dove lo svolgimento-precipizio sembra seguire contemporaneamente il vettore della più assoluta necessità e quello di una strana, quasi incomprensibile assenza di presupposti o causalità logicamente enunciabili (mi riferisco, in breve, alla doppia “discesa” di “Kobad Kenya” e de “Il tuffatore”).

    (e, sì: i fiori nella “preriferia della periferia” attecchiscono assai meglio; quello che si spera e che riescano, il più possibile, a resistervi)

    f.t.

  7. Una nota *dovuta* sulla traduzione: non sono un esperto, ma ho avuto modo di leggere molti di questi racconti in tedesco, e penso che la versione di Elisa Perotti sia semplicemente magnifica.

    fm

  8. Sono affascinato. Confesso la mia totale ignoranza di jahnn. Scoprire un grande scrittore visionario, e un piccolo editore che lo pubblica, è un’esperienza bellissima.

    m

  9. Aggiungo una breve considerazione: leggere “L’orologiaio”, avvicinarsi dunque direttamente alla prosa del “grande eretico delle lettere tedesche” è un esercizio addirittura doveroso, dopo l’ubriacatura apodittica del ritratto di Jahnn ad opera di Ladislao Mittner (Storia della letteratura tedesca, volume III, tomo secondo, Einaudi, Torino 1971, 1281-1284). Provvidenziale “Verfremdungseffekt” cogliere l’attenzione per la complessa, ma non cerebrale architettura esistenziale che anima L’orologiaio (la tentazione analogica fa volgere lo sguardo indietro, non solo, come ci si aspetterebbe, verso uno scanzonato Tristram Shandy, ma anche a un omonimo racconto di Meyrink sconosciuto ai più) e confrontarla con il netto rifiuto realizzato dalle etichette mittneriane. Opera tanto più meritoria, allora, quella della pubblicazione delle 13 storie inospitali. Ringrazio per questo assaggio davvero significativo.

  10. Ringrazio tutti coloro che hanno espresso parole di stima per il lavoro svolto da Lavieri, soprattutto Marotta per la partecipazione (affettiva e ragionativa) con cui ha letto questi racconti di Jahnn.

    Un caro saluto.

  11. Piccola parte in causa di questo libro, sono contento di trovarlo qui e di questa accoglienza.
    La collana Arno è a serio rischio di sopravvivenza; mi associo a FM, compratela e fatela girare. Se chiudesse sarebbe una sconfitta per tutti.

  12. Sono molto riconoscente per questa scoperta. Un racconto straordinario , potentissimo, di un grande visionario che non conoscevo assolutamente. Mi procurerò il libro.
    Grazie, Francesco, per questa magnifica proposta .
    lucetta

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