Sette movimenti tra arte e follia

Luigi Sasso
Marco Ercolani

Sette movimenti tra arte e follia
A proposito de L’opera non perfetta

     Ci sono temi, autori, pagine che sembrano rivelarci l’essenza della scrittura, l’origine e i limiti di ogni espressione artistica. Ci ricordano che l’arte è il luogo delle contraddizioni, dove anche gli errori, gli inciampi trovano un significato, dove una frase sconnessa può diventare la forma di un destino. In questi autori, in queste pagine la scrittura (artistica, letteraria, musicale, ecc.) ricerca ciò che la trascende, e le sfugge – il reale, l’inconscio – prende un’inflessione interrogativa, pone problemi spesso di non facile soluzione. Come il rapporto tra arte e follia.
     Esiste qualcosa che unisce queste due dimensioni? Oppure esse si escludono, o semplicemente s’intersecano, si riflettono? E come cambiano, quanto cioè si avvicinano o si allontanano nel corso del tempo? L’arte può raccontarci la follia, anche soltanto per pochi, inattesi barlumi, oppure a quest’ultima si addice soltanto una contemplazione vuota e muta, la monotonia di giorni senza un incontro, senza una storia?
     Di fronte a questi interrogativi si colloca la scrittura di Marco Ercolani. Da sempre, viene voglia di aggiungere. Quanto meno dal tempo delle pagine “apocrife”, dunque strategicamente attribuite ad altri, delle esistenze immaginarie raccolte in Vite dettate, del libro perduto e impossibile, Il Messia di Bruno Schulz, scritto o forse soltanto sognato da Ercolani ne Il mese dopo l’ultimo, dei chilometri di pellicola lasciati scorrere in A schermo nero e restituiti tramite le pagine di diario, le lettere, gli appunti – rubati, cancellati, riscritti – di registi, di attori, di figure legate a vario titolo al mondo del cinema.  Pur nella sua estrema varietà, come già da questi primi approcci si può notare, pur nella diversità e complessità degli interessi, la scrittura di Ercolani mostra un’estrema coerenza: qualsiasi pagina si prenda, essa giunge sempre a mettere in discussione i consolidati concetti di opera, di autore, persino quello di lettore, ad aprirsi a un dialogo ininterrotto, a trasformarsi in un gesto nomade, che non conosce orizzonte, né meta. Ma soprattutto ogni testo di Ercolani finisce per imbattersi, prima o poi, in quello che è il suo tema cruciale e ossessivo, e per tentare di scioglierne il nodo: il nesso, lo si è capito, arte-follia.
     Ercolani è psicoterapeuta, e nutre dunque un interesse specifico e professionale per l’argomento. Questo lo ha portato e lo porta a un rapporto diretto con i pazienti e con la loro malattia mentale. Da queste esperienze e da altre ancora ha ricavato il materiale per scrivere due libri in collaborazione con Lucetta Frisa: Anime strane e Sento le voci, titolo quest’ultimo che ritroviamo quasi identico (Sentire voci) in una sezione del volume qui in questione: L’opera non perfetta. Ma sul rapporto tra arte e follia vanno citati ancora almeno un convegno da lui organizzato, i cui atti sono stati pubblicati col titolo Tra follia e salute. L’arte come evento, e il numero doppio della rivista Arca uscito nel 1998. Come si vede un interesse né casuale né estemporaneo. E che L’opera non perfetta non nasca dal nulla sta a testimoniarlo, oltre alle indicazioni già date, anche il citato numero della rivista Arca, dove compare un testo, L’opera imperfetta, che ne rappresenta un primo nucleo, destinato a confluire, con titolo parzialmente modificato e con significative varianti, nel libro più recente (e lo stesso vale, sebbene in forma meno vistosa, per le pagine intitolate La colonna e la fiamma uscite in «Arca 8/9», 2003).
     Come si presenta L’opera non perfetta? Possiamo sostanzialmente individuare tre parti. La prima è composta da quattro capitoli in cui viene messa in atto una analisi dei legami, ma anche delle differenze tra arte e follia. Ercolani evita di porre sullo stesso piano, o addirittura di identificare genialità e follia, come se l’incandescenza della vita psichica fosse condizione necessaria e sufficiente per realizzare l’opera d’arte. Egli sa bene – e a lungo si interroga proprio su questo – che esiste una netta differenza tra il malato e l’artista, che tra arte e follia è opportuno aprire lo spazio necessario, come recita il sottotitolo del volume, per inserire osservazioni e note, per cogliere il movimento a volte parallelo, ma proprio per questo destinato a non trovare un definitivo comune approdo, della creazione e della sofferenza psichica.
     Una seconda sezione è composta da 15 ritratti, o forse è meglio definirli note, fulminei testi critici, relativi a scrittori (Tasso, Smart, Hölderlin, Gérard de Nerval, Dino Campana, Artaud, Sylvia Plath, Paul Celan, Robert Walser) musicisti (Schumann, Hugo Wolf, Giacinto Scelsi), pittori (Unica Zürn, Van Gogh, Francis Bacon). Si tratta di pagine in cui Ercolani cerca di toccare il punto più sensibile della personalità di questi artisti, si mette in rapporto con le pagine di autori come Torquato Tasso, con quelle lettere in cui l’angoscia si trasforma in atto creativo, con gli elenchi enciclopedici e deliranti di Cristopher Smart, con la regressione a una lingua che tenta di sottrarsi all’abisso, sperimentata da Hölderlin nelle poesie firmate con lo pseudonimo di Scardanelli, con l’io di Gérard de Nerval, sprofondato nell’immaginazione e nel sogno, con la pagina violenta e tellurica di Artaud, col suo profilo scheggiato e rovente, con l’insistenza di Giacinto Scelsi nel battere e ribattere la stessa nota.
     Infine c’è una terza parte, in cui le pagine si fanno più frammentarie, raccolgono citazioni e brevissime (nella maggioranza dei casi) annotazioni. Un taccuino, quasi uno scartafaccio, in cui la scrittura sembra scostarsi da un’ordinata geometria, ma da cui possono comunque giungere indicazioni illuminanti, nella forma di schegge, scintille.
     Come si vede, la riflessione di Ercolani non procede in maniera sistematica, ma preferisce un andamento fatto di pause, a volte di silenzi, di rapide accelerazioni, di deviazioni, di improvvisi ritorni. Per potersi orientare, sarà allora opportuno individuare dei punti particolarmente significativi (sette ne conteremo alla fine), compiere dei movimenti che ci facciano comprendere in che modo arte e follia possono entrare in contatto. Che nel loro snodarsi ci forniscano il senso di un itinerario.

1. Tra il non finito e l’infinito

     «Compito dell’artista, allora, è cercare una forma che, anziché ripetere un dogma delirante, annunci qualcosa di espansivo, di mobile, che tende al non-finito. L’opera nasce così, ansiosa, imperfetta…».
     C’è dunque una tensione alla base di ogni opera autentica, una spinta che non intende placarsi, che mira a sfiorare l’orizzonte, o addirittura a oltrepassarlo. «Il paesaggio psichico, – annota Ercolani – come l’esperienza fenomenica, è incompleto, inesauribile».
     E abbiamo già, da queste ultime parole, una chiave di lettura del titolo del volume. O meglio una doppia chiave di lettura. L’opera è infatti non perfetta innanzitutto perché non finita, perché inadeguata al compito che lo scrittore o l’artista le ha assegnato (tradurre i moti più profondi del suo animo, «il paesaggio psichico», oppure offrirsi come l’impronta dell’assoluto). Questa insufficienza, rispetto all’ambizione che non tanto un singolo scrittore o musicista quanto tutta la cultura moderna a partire da un certo momento ha riconosciuto alla pratica artistica – valga per tutti il Frenhofer di Balzac protagonista del celebre racconto Il capolavoro sconosciuto, il folle che nel tentativo di ricreare la vita sulla tela finisce col produrre una crosta indecifrabile, in cui egli vede l’assoluto e gli altri assolutamente nulla, o quasi – questo scarto incolmabile tra il desiderio e l’esito è la causa dell’imperfezione dell’opera. La quale tuttavia è non perfetta anche perché infinita, perché non riesce mai a dirci completamente tutto quello che ha da dirci, continua cioè a stimolare letture e interpretazioni, a germinare altra scrittura. E sarà questo movimento ermeneutico, questo processo teoricamente inarrestabile a mettere alla prova non solo la forza comunicativa dell’oggetto, vale a dire del testo, ma anche la fisionomia del soggetto, il lettore, dunque. L’imperfezione dell’opera, per riassumere, si gioca tutta tra il non-finito e l’infinito, tra la coscienza del limite e la capacità di aprirsi (che è del testo, ma anche del lettore) a uno spazio e un tempo interminati, illimitati.

2. Pensiero ed emozione

     «La base dell’intelletto è dunque la follia». L’atto artistico è la necessità di cogliere il punto in cui «capire e sentire si riuniscono nella presenza di un corpo…». Sembra quasi possibile cancellare, o rivelare come puramente teorica e illusoria, la distanza tra sapere analitico e conoscenza intuitiva, tra inconscio e coscienza.
     Capire, sentire: il gioco dell’arte è mantenere sospeso questo incontro, «è interrogare Medusa non soltanto con lo scudo riflessivo di Perseo – metafora cara a Ercolani, che dice bene la capacità dell’artista di avvicinarsi all’orrore, all’informe e di uscirne, dopo averne catturata un’immagine, col minor danno possibile – ma anche con la plurima forma di Chimera, in cui logica e follia trovano il loro instabile equilibrio, non si guardano più come universi contrapposti.
     L’artista, movendosi tra disordine e vertiginosa costruzione, si avvicina all’ incandescenza del delirio senza lasciarsi incenerire. Emerge così un’ altra importante caratteristica dell’opera d’arte, del suo linguaggio: il quale è strumento di comunicazione, aperto al dialogo, portatore di significati e di valori, di argomenti più o meno condivisibili, ma non per questo può prescindere dalla soggettività, anche la più intima e segreta, dell’autore, dal flusso delle emozioni. La cosa vale non solo là dove ci appare più ovvia, in un testo poetico, per esempio, ma anche dove meno siamo disposti ad accettarla, in una pagina critica, a cominciare da quelle messe giù dallo stesso Ercolani. C’è infatti un continuo rapporto, una compenetrazione tra sense and sensibility, che porta l’autore a preferire – per dirla con parole riservate ad Antonin Artaud – una «lingua scheggiata e frammentaria», in precaria stazione tra la scheda sintetica e lo «schizzo visionario».

3. L’arte, una necessità di vita

     «Ogni individuo vivo, cercando di lasciare una traccia di sé, scava, giorno dopo giorno, nel muro che lo circonda; batte la testa contro le sue pareti, sempre troppo alte o troppo strette, crede di impazzire, cerca nuove fessure, immagina di uscire; poi vede nuove macchie, nuove forme nel muro, le ammira, si ferma; inappagato, riprende a scavare, guarda altre forme, le descrive, si rintana, scava ancora. Non vuole né fuggire né restare. Ma trovare la sua strada, sì».
     E’ un’idea sottesa a tutta l’opera di Ercolani e della quale ogni artista di cui egli ci parla si fa testimone. Non si percepisce mai, nella sua scrittura, il sospetto di un puro esercizio retorico, di una pagina presentata come maschera, come variazione fredda, come esperimento calligrafico. Ercolani preferisce stare dalla parte degli scorticati, di coloro che sbandano tra pathos e ansia di classificazione, tra vaneggiamento e meticolosa autocritica, dalla parte degli individui dallo sguardo introflesso, affacciato sul magma del loro io. Un’altra netta distinzione viene a cadere, quella tra etica ed estetica. Allora scrivere, dipingere, comporre una musica diventano gesti necessari, inevitabili, inseparabili dalla carne e dai sogni di chi li compie e le opere assumono la forma e l’intensa presenza di un corpo. Il tema del doppio, così caro alla narrativa fantastica, e così connesso al decorso della follia, è anche una metafora della creazione artistica, come se il libro fosse un sosia, le pagine altrettanti volti dispersi lungo le strade, simulacri di noi, capaci di osservarci mentre accanto a loro camminiamo.

4. Una questione di identità

     «Come lo sgretolamento effettivo della pazzia è la perdita dell’identità personale, così la descrizione di questa perdita è il momento fragile e tenacissimo dell’arte». Di questo sgretolamento il segno più vistoso è il delirio, che Ercolani definisce «la costruzione di un antimondo senza ritorno, sigillato nel sintomo», rispetto al quale «l’arte è la costruzione dello stesso antimondo, ma nella libera ossessione delle immagini che lo rappresentano». Per quanto insomma l’arte sia contagiata dagli incubi della mente «da questi deve estrarre il suo quadro, il suo limite».
     Un io che si sbriciola, la costruzione delirante di un antimondo, l’ossessione, l’incubo. Abbiamo da tempo imparato a riconoscere in questi aspetti, che potremmo facilmente desumere da una cartella clinica, alcuni connotati fondamentali della creazione artistica degli ultimi due secoli. Gli autori che potrebbero essere chiamati a testimoniare, da Kafka a Musil, oltre a quelli direttamente interpellati da Ercolani, sono molti, e noti. C’è in Ercolani la convinzione che nessun artista, nessuno scrittore è un’ isola, ma un arcipelago («un arcipelago ramificato di identità»), una realtà plurale, fatta di pezzi che non collimano. Perché proprio là dove il soggetto perde, o vede sgretolarsi, la propria identità, l’artista la ritrova («L’artista vive la sua identità mentre la perde»).
     La conseguenza più importante la si riscontra sul piano della costruzione e della struttura di un’opera, sull’andamento e sul ritmo della pagina: l’impossibilità di una forma chiusa, in armonia con le tendenze della tradizione o del proprio tempo. Al punto da non risparmiare, come si vedrà tra un attimo, anche la natura, l’essenza stessa dell’arte.

5. L’ urlo

     «L’arte, con la sua eresia, mette in crisi le regole della normalità». E’ dunque una scommessa, un gioco d’azzardo, un gesto il cui scopo ultimo non può che essere il disorientamento. Persino la creazione, che potrebbe sembrare naturale e scontata, di una metafora, diviene – ricordava Musil – un atto sovversivo.
     A Ercolani è congeniale un’arte che non accetta l’esistente, che esprime una forma di ribellione, che preferisce il gesto blasfemo all’ossequio, alla genuflessione. «L’atto creativo – annota – è simile a un grido». Nasce dunque da un nucleo irrisolto di sofferenza, da un groviglio indissolubile cui tenta di dare voce, espressione.
     Gli scrittori, gli artisti di cui Ercolani ci parla sono figure anomale, irriverenti, irriducibili a un’etichetta, a una classificazione che finisce sempre per spegnere o banalizzare un talento. Profanare è l’imperativo di ogni pagina, fare in modo, o perlomeno tentare, che niente resti come prima, smuovere e sviare, come accade nella scrittura apocrifa, persino quanto c’è di apparentemente definitivo: il passato. Il carattere dominante dell’opera di Ercolani porta però, alla fine, a capovolgere questa prospettiva, in quanto egli riconosce nella scrittura degli autori da lui amati il confinare con l’altro, l’aprirsi a una condizione di veggenza, di grazia. Proprio l’attenzione a questa massima tensione comunicativa, lucidamente rivendicata da Ercolani nella breve introduzione al volume con la citazione del trattato dello Pseudo-Longino, ci consegna l’utopia della sua scrittura: la ricerca del sublime.

6. Uno spazio vuoto?

     «Sentire voci è, a tutti gli effetti, una forma di disperato abbandono della condizione umana». Quasi il ritorno a una condizione primordiale, a un’alba dimenticata. «L’uomo non è più un essere riflessivo, simbolico, metaforico, e si identifica con l’inconscio più arcaico».
     L’arte è attratta da questa vertigine, anche se sta attenta a non precipitarvi. L’idea della scrittura come ascolto, non dunque come sovrapposizione di segni, ma come creazione di uno spazio vuoto, come un modo per sgomberare il foglio, per sbarazzare la pagina, come luogo dove far risuonare, a volte soltanto con un’inflessione diversa, inedita, le voci degli altri. «L’artista si fa sismografo che capta le vibrazioni emanate dal vuoto stesso».
Ercolani si rifà a Eraclito, alla saggezza greca, alle parole di Al-Ghazâli, mistico persiano vissuto intorno all’anno 1000, alle concezioni di Marius Schneider, per mettere in evidenza l’importanza dei suoni, della voce, la necessità di una distanza dal linguaggio comune per giungere alla conoscenza. Una conoscenza che passa attraverso stati di estasi conseguiti grazie all’insistenza di suoni, di canti, un’anima che si traduce in gesto vocale. In questo paesaggio fonico trova spazio, se ne è già parlato, anche il delirio, questo flusso di immagini, di frasi, di parole la cui ragion d’essere è quella di tentare di «ricreare un mondo perduto». E’ un discorso che non accetta mediazioni, che non si piega alla dimensione di un dialogo. È una parola presente, ma intangibile, intraducibile. Scrive Ercolani: «Il delirio è ciò che non potremmo mai sapere: è la voce del non-io e con quella parola non si può venire a patti». E’ rifiuto della banalità dell’esistente. Ed è con questa realtà che l’arte si misura. Adesso comprendiamo perché Ercolani concede tanta importanza alla scrittura apocrifa, alle parole dei matti, alla riflessione critiche sulle pagine altrui. Egli avverte la necessità di trasformare la pagina in una cavità che risuona, di avvicinarla al canto delle sirene – sia esso una melodia o il silenzio, come voleva Kafka, poco importa – a quel vuoto dove il rischio più grande è quello di perdere, di non trovare la propria voce.

7. Una garza di parole

     Occorrerà tornare, prima di concludere, al primo punto, all’idea che sta alla base del titolo dell’opera di Ercolani: l’opera non perfetta, interminata, inesauribile. Ci sono altri modi di interpretare quella condizione inconclusa, quell’irrefrenabile dinamismo della scrittura. Uno di essi ci viene suggerito non tanto dagli artisti, dagli scrittori (Van Gogh, Walser, Hölderlin, per esempio) che durante il loro percorso hanno conosciuto i sintomi della follia fino a lasciarsene in qualche caso travolgere, ma da quei folli, perlopiù anonimi, che dalla follia sono giunti a tracciare un gesto espressivo, a produrre opere che hanno trovato la loro più celebre formulazione nell’Art Brut di Jean Dubuffet. Ci parla – il dinamismo di cui si diceva – di un movimento che cerca diversi e alternativi supporti rispetto a quelli, più usuali, del foglio di carta o della tela: i lenzuoli del manicomio ricoperti con una fitta scrittura a biro da Giuseppe Fornaciari, le carte d’identità contraffate di Vincenzo Sciandra, i muri dei vicoli di Catellammare del Golfo dipinti con i cuori gialli e rossi, le date, i nomi, i corpi spezzati da Giovanni Bosco. E poi ancora la carta straccia, la carta da pacchi, le buste di cartone, le scatole di cioccolatini. È una pulsione irrefrenabile, un contagio, una maledizione? Può essere. Ma forse questa condizione estrema rappresenta il tentativo di riconoscere e di ricoprire, con una garza di parole e di segni, le ferite del mondo. E’ come se l’artista irregolare o folle – vedendo fuori di sé le macerie che invadono la propria mente – cercasse, con una parola, con una traccia grafica, di dare una forma, di ricomporre la sconvolta superficie della realtà, tentasse di ricucire i frammenti del paesaggio. È questo forse l’ultimo insegnamento che possiamo trarre dal libro di Marco Ercolani, e da tutta questa intricata vicenda di arte e follia: l’idea – il sogno, meglio – di una scrittura che insegue un traguardo di giustizia, che vuole finalmente raddrizzare le storture, cambiare il volto, anche il più tenacemente immodificabile, delle cose.

______________________________
Nota

Tutte le citazioni sono tratte da L’opera non perfetta. Note tra arte e follia 1999-2009 di Marco Ercolani, Nicomp L. E, Firenze 2010. Le altre opere citate sono: Vite dettate, Liber, Pavia, 1994; Il mese dopo l’ultimo, Graphos, Genova, 1999; A schermo nero, QuiEdit, Verona, 2010; Anime strane, Greco & Greco, Milano, 2006; Sento le voci, La Vita felice, Milano, 2009.
_______________________________

***

Pubblicità

7 pensieri riguardo “Sette movimenti tra arte e follia”

  1. Leggo qui considerazioni su un percorso di ricerca che, a loro volta, muovono ad altre considerazioni. Ritrovo l’ascolto profondamente rispettoso del divergente, la cura della scrittura apocrifa che ho apprezzato in altri scritti di Marco Ercolani – includo anche Turno di guardia – insieme a voci amate e smarrite – Hölderlin-Scardanelli tra tutte.

  2. Sì, Annamaria, è come dici. Ne “L’opera non perfetta” tutte le tematiche che prediligo – apocrifo, follia, poesia – sono convocate per cercare non tanto un nesso logico quanto una vicinanza, una somiglianza, un reciproco rispondersi e corrispondersi. Luigi, più di quanto avrei saputo fare io, ha cercato di avvicinare/distendere le tessere/pieghe del puzzle.
    Grazie del passaggio.

    m

  3. Per Francesco

    considero l’edizione in anteprima de “L’opera non perfetta” nella Dimora, con “questo” Klee in copertina, la VERA edizione del libro, quella che mi ha permesso di iniziare un dialogo con chi è in sintonia reale su temi a me cari come identità, follia, poesia.

    Marco

  4. Caro Marco, penso che Luigi Sasso, con questa ampia recensione, abbia non solo dato conto in modo splendido del libro, ma altresì abbozzato una vera e propria radiografia della tua ricerca e della tua scrittura. Molti passaggi vanno in questa direzione, in particolare il terzo paragrafo.

    fm

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.