Giuseppe Feola
“Altro non è il mio corpo che una via
intrecciata di tutti i sentieri
che, ere dopo ere, le
spirali della vita hanno tracciato.”
[…] Il “fanciullo che gioca”, archetipo della sapienza greca, segna una nuova, mitopoietica alba del significato, dell’ordine e della creazione. Il puer aeternus, ridestato o risorto, “pone mano a quelle sponde / cui il mare, che, silente, / di tempo lo nutriva, fa da specchio”. La luce dell’alba creatrice si riflette e si moltiplica nei limpidi specchi di una rinnovata autocoscienza.
Con raro e prezioso equilibrio, la visione mitica, cosmogonica si sposa ad una precisione definitoria, ad una nettezza di linee quasi da chosisme à la Ponge (il mondo come “meccano”, come mechané, come struttura organica ed equilibrata ma, insieme, come possibile inganno, come possibile raggiro dei sensi proprio là dove credono di attingere maggiore certezza e poggiare su di un più saldo terreno).
Eppure, i frammenti del mondo chiaroscurale potranno essere pietre con cui costruire un’ara per nuove consacrazioni, per nuovi sacrifici del senso vòlto alla formulazione di un nuovo significato. Dal canto suo, il poeta sta sulla riva di un “cupo, ottuso, mare”, a rispecchiarsi “nella sua notte che non vuol passare”. Se l’autocoscienza del dio-bambino creatore è limpida trasparenza, quella del poeta è invece segnata dall’insidia di un’oscurità nebulosa.
Il corpo stesso, in un testo splendido, è, con tutti i segni, tutte le tracce profonde e dolorose che esso reca, “Sigillo del Cielo”, sigla marchio e traccia (una delle infinite possibili) del cosmo, della creazione che essa stessa, dice l’Apostolo, “geme nelle doglie del parto”, e che dunque trova riflesso e parziale ricetto in ogni individualità sofferente.
Taglio chirurgico, ferita primordiale è, del resto, anche l’originaria separazione di Terra e Cielo, e insieme la scansione numerica del tempo e del moto, che turbò l’immobile eternità dell’Uno primordiale.
L’archetipo dell’axis mundi si fonde con il mito della Torre di Babele: l’ordine, il perno, la simmetria paiono dunque contaminarsi con il caos, l’indistinto, l’informe; e da questo Chaosmos, da questo ordine-caos, sembra possano rinascere un nuovo ordine, una uova struttura di senso, un nuovo ethos.
La spuma del mare, da cui nacque Venere, è, con straniamento violento del mito foscoliano, “sperma del Cielo”; fra le due metà divise della monade primordiale può darsi un nuovo, umido e fluido e fecondo, connubio. Questa ricomposizione della totalità nella Parola, questo ritorno all’Uno è precisamente ciò a cui tende, in modo quasi orfico, quasi onofriano, questa poesia; nella quale, in modo oggi raro, i miti classici ritrovano il loro autentico valore cosmogonico e sapienziale, la loro possibile lettura razionale (che non annulla, ma potenzia, il loro valore arcano, mistagogico), al di là di ogni compiacimento archeologico e di ogni vuoto invasamento.
(Matteo Veronesi, da Nuova provincia del 31 ottobre 2011)
Il gioco dell’infante
Il gioco dell’infante (I)
Lo smembramento di Zagreo
Ma questa luce intinta già di sera
non par che sondi
i vuoti fra le cose?
Un meccano smontato pare il mondo:
un arco, un tronco, un trave, un mezzo ponte;
i pezzi, pochi; e le sue viti esposte
in buon ordinamento
sul pavimento
di una stanza di giochi.
Il gioco dell’infante (IV)
Ora controlla il proprio passo e sta
solo un momento a contemplare dove
si trova, dopo tanto tempo: cosa
sono le tracce lì sull’erba? sassi
disposti a caso
dal gioco di un bambino?
o mutile rovine che riposano
al ciglio di un sentiero in lenta attesa
della sua sorpresa? o forse ancora lo
strano sito di un nuovo monumento,
di un’ara per sacrare nuove cose?
I custodi del Cielo
Il discorso della Terra / I gabbiani / Mattinale
I lari antichi ragliano nell’ombra
del cielo di cobalto:
cantano del disperso
seme del Padre.
La Terra, sgombra, ascolta,
chiusa nell’alto sonno che
seguì l’amplesso grande da cui nacque
il Tempo.
«Madre
nostra, che reggi i nostri piedi stanchi,
fessi di piaghe fino alle
midolla delle ossa, luogo fermo
dei punti a cui applicar le nostre leve,
nel nostro muto andare, sede stabile
sempre di tutte le sedi, rispondi: la
Notte e il Giorno che insieme generaste
quando verranno infine a compimento?
quando, infine, potremo riposare?»
Il vino si riversa sull’asfalto,
il fiume delle anime inargenta
la cicatrice impressa da Fetonte
sulle tempie di Urano primitivo.
«Ecco: ogni pietra tende alla sua valle,
al Mare tende l’acqua di ogni fonte;
scava l’onda la roccia d’ogni riva.
Debita fine attende – non temiate –
nervo e tessuto di ogni cosa viva:
a tutto sarà data
così la propria requie.
E questo è quanto.
E più non domandate».
Il Sé / Il Sigillo del Cielo
Altro non è il mio corpo che una via
intrecciata di tutti i sentieri
che, ere dopo ere, le
spirali della vita hanno tracciato.
La mia carne, il mio sangue, le mie ossa
vivono cieca memoria di tutti i
piaceri, delle noie, dei dolori
che le scosse del tempo alla mia pelle
antica hanno insegnato.
Due tracce parallele
all’inguine sinistro, zigrinate
come la grigia cote dello squalo;
nel fondo del mio fianco
una rete con degli ami; il paziente
malo lavoro al guscio del ginocchio
dell’entropia operosa; al ventre, un foro;
la trasparente luna dell’ustione
sopra i celesti fiumi del mio polso; il
risucchio vorticoso della nascita
alla vertigine del cranio. E sotto
l’erta terra bruciata dei capelli,
sotto la volta del mio cielo, il Sole
candido ha inciso, quasi
a memoria del suo figlio morto,
lo strano marchio di un nuovo Eridano.
Il gelsomino giallo
Il gelsomino giallo che fiorisce
nel vano silenzioso del balcone,
al suo apparire, istanzia l’ossessione che
nel chiostro della mente
le sue spire invernali ingigantisce.
Serpi tra loro allacciate alla danza
d’amore le sue fronde
distese ai firmamenti; stelle aperte
nei vortici del flusso universale
i suoi spettrali fiori; e il denso odore,
sacro miele che cola dalla cella
o balsamo che esala dalle sponde
del letto sepolcrale
d’un re detronizzato o dio del Sole.
Tutto quanto è raccolto dentro l’ombra
del testo in cui riposa la silente
attesa germinale del suo seme,
si manifesta poi,
a tempo stabilito,
in propria successione naturale:
musica delle cose che hanno vita, e
che, nell’estremo tendersi di corde
della natura sua, giorno e notte
coralemente fino a morte freme
– insieme di caratteri che il dito
della necessità
tracciò con la matita grossolana
del caso, e che la somma degli eventi in
connaturata forma poi ha sancito;
una figura od orma cui le cose
tengon dietro, come i torrenti seguono
il viso delle pietre,
secondo gravità,
e obbedisce la nuvola ai suoi venti.
Così la torma dei miei sentimenti
scorre e riposa
nel letto della vita:
un’anima dà forma,
senso, consecuzione,
agli atti manifesti che
rispondono agli stimoli casuali
del mondo e dell’ambiente; l’intelletto
si arrovella nel profondo, a stanare
la causa dei miei mali.
Tutto il resto, è sorte stabilita.
La voce
Al solstizio d’estate / Eziologia del Mondo
Il pozzo con un sole
inciso sopra il fianco, nel cortile,
mostra la bianca e nera
vïa della discesa ed ascensione.
Il mozzo della ruota del
decrepito vasaio siderale
ha preso a ridiscendere,
ora giunta alla sua culminazione.
Muta la luce e mutano
le ombre, senza tregua,
da quando l’universo
fece di sé un velo tra
Sé e la Luce dal quale trasse origine,
e l’Uno originale si divise
nei diecimila rivi d’energia
di cui s’innerva il buio siderale
in cui il Suo stampo ormai giace disperso.
Per risalire il corso del disordine,
dell’entropia da cui non v’è ritorno,
crea sistemi la natura, zone,
regioni d’ordine parziale: vita,
metabolismo, sesso;
senso, dissenso, istinto e percezione.
Intorno si strutturano
le cose, plasma ambienti la
muta forza che non si vuole arrendere:
si sospende a una parola, a una casa,
a un tempio, a un segnavia,
a un discorso tra te
e me, che sia un esempio
od uno specchio almeno di quel Primo
stato di pace nuda ed aurorale,
in cui quella tensione
pare si possa infine ridistendere:
l’arco dell’arte, la lira stonata,
discorde, dell’amore, l’amicizia:
la coscienza con tutte le sue corde.
E infine l’intelletto di un principio
a cui sospender, come a un chiodo infisso
nello stipite della sacra porta
d’una felice camera da letto,
la comunione ultima, vivente,
dell’attimo indicibile,
del detto e del non detto.
Questo tu fosti, o almeno questo osai
vedere in te, e nel mio specchio in noi
a te fare vedere:
la possibile vera compiutezza
di questi corpi nati per intendere ed
intendersi, conoscere ed amare,
condividere sensi ed intenzioni,
la composta tensione dei due capi
opposti della lira:
non solo ciechi
affetti e grumi sordi di emozioni.
Ma tu, più nuda del silenzio in cui
si rispecchiava il Verbo originario,
più sincera dell’Acqua in cui l’Artefice
si guardava sul fiore dell’Abisso,
dicesti: NO; chi nudo e solo nasce
solo e nudo morirà; non potrà
mutare ciò ch’è fisso;
non giunge a perfezione l’imperfetto;
non entra la parola nel
silenzio, né il silenzio
verrà alla sua espressione.
Nell’antico giardino delle Figlie
della Sera, così simile al luogo
dei miei giochi d’infante,
lì dove il Sole viene
alla sua Foce, lo sciame delle ore
portava all’alveare della mia
coscienza il miele amaro della tua
voce.
La porta dei sogni
La digestione del Reale
La ruota della guerra
infine s’è fermata:
i denti della sega che ha fiaccato
i cardini che serrano i
ginocchi, il variopinto
gioco d’acre sudore e dell’ingegno
che s’argomenta al fine suo ostinato:
i fili, l’alluminio, il fuoco, il ferro,
la plastica ed il legno;
la trottola di fumo che frastorna i
sensi ed ingombra l’intelletto: tutto
adesso finalmente è consumato.
Quell’alito dell’aria che ritorna
dal golfo occidentale è come un sonno
in cui affonda la barca della mente:
una promessa di riposo, un solco,
un segno dell’aratro
del tempo nella polvere: il respiro
dell’alba che riporta
il corpo ansioso dell’anima insonne
al sospirato fatidico gioco
nella camera ardente dei suoi sogni.
In una sola notte di malsonno
può ben determinarsi
un rito di passaggio inconsapevole,
o consapevole forse ‒ che importa? –, che
sancisce il consumarsi del tizzone
della passione d’una vita; cenere
ne rimane. Che il vento del
mattino se la porti
verso il mare, e nel salato silenzio
che mi assisté bambino si disperda,
passi la porta dell’oblio: svanisca,
mai più possa tornare.
La foglia
Questo settembre torrido
che rassomiglia a un maggio, questa strana
palude di calore in cui si ferma
ogni senso del tempo ed impazzisce
la bussola, ed illude
la direzione e il flusso del mio viaggio;
questo incrocio di strade, rotatoria,
od inversione ad U che non si sa
se porti ad un parcheggio in cui si chiuda
questo cieco girare in tondo in cerca
d’una vïa per cui si possa evadere;
questo sussulto grigio
d’indugi che prelude al-
la fine d’una storia;
questo affilar di spade
per i nodi e le Gordio di domani,
questa attesa all’imbarco per salire a
bordo; questo prurito
e sorda voglia di menar le mani:
tutto somiglia al fremer d’una foglia
che esprime i più diversi suoi colori nel
calore occidentale dell’estate
ormai alla fine, e poi nell’incipiente
autunno inesorabile, e compensa
la morte inevitabile
di stagioni transeunti e trapassate
con la consolazione magra d’esser la
vistosa e variopinta
guardiana e portinaia del confine.
***
devo tornarci ora di corsa, ma davvero interessante
chicca
bellissima la lettura di Matteo Veronesi, e insisto, notevole poesia quella di Giuseppe Feola.
una bbraccio