L’opera di un filosofo comporta una parte rilevante concessa all’oralità. Basti pensare alle lezioni (di norma egli è anche professore), alle conferenze, ai dibattiti. Oltre a ciò, nell’epoca dei mass-media vi sono le interviste, destinate alla stampa oppure a un’emittente radiofonica o televisiva. Michel Foucault, anche per via del suo impegno politico e del fatto che alcune sue opere hanno preso in esame, in prospettiva storica ma con ricadute sull’attualità, temi di interesse collettivo (come ad esempio la follia e l’apparato psichiatrico, la prigione e i sistemi di potere, la sessualità e la costituzione del sé), è stato assai spesso sollecitato a pronunciarsi. E in effetti le interviste occupano una parte rilevante delle migliaia di pagine riunite nei quattro volumi dei Dits et écrits foucaultiani, apparsi postumi nel 1995. Tuttavia, a differenza di altri filosofi, Foucault si è sempre astenuto dal pubblicare in Francia un libro di interviste. Ora, però, scopriamo che almeno in un caso l’idea era stata da lui presa in considerazione. Nel 1968, infatti, aveva accettato che venissero registrate varie sedute di un suo dialogo con un critico letterario, che avrebbero dovuto condurre alla realizzazione di un volume edito da Belfond. Per una qualche ragione, il progetto non si è concretizzato e i nastri registrati sono andati persi, ma la parte iniziale del dialogo era stata trascritta all’epoca e viene adesso pubblicata col titolo Le beau danger. Entretien avec Claude Bonnefoy (Paris, Éditions de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, 2011).
Che cosa aveva di particolare la proposta di Bonnefoy, tanto da indurre Foucault ad accogliere l’idea di conferire a questa particolare intervista la forma durevole di un libro? La data del colloquio potrebbe trarre in inganno: benché esso abbia luogo nell’autunno 1968, non vi si parla di politica e, per quanto non si sia ancora spento il clamore suscitato due anni prima dalla pubblicazione di Les mots et les choses, Foucault non viene invitato a tracciare un bilancio del proprio percorso intellettuale. Il tema del dialogo è più ristretto, ma anche più insolito e rischioso: si tratta, per il filosofo, di parlare del rapporto che intrattiene con la scrittura, dunque del lato nascosto del proprio lavoro, di quello che egli stesso definisce «il rovescio dell’arazzo». Foucault spiega i motivi per cui ha accolto lo stimolo che gli è venuto dall’intervistatore: «Se mi sono prestato con piacere a questo genere di dialoghi, era proprio per disfare il mio linguaggio abituale, per cercare di scioglierne i fili, per presentarlo in modo diverso da come si presenta di solito. Varrebbe forse la pena di ripetere sotto forma più facile ciò che ho già detto altrove? Per me è più arduo ma, credo, più interessante restituire alla sua originaria filaccia, al suo disordine, al suo flusso un po’ impalpabile quel linguaggio che ho cercato di padroneggiare e di presentare come un monumento al tempo stesso voluminoso e liscio».
Benché le sue opere presentino evidenti qualità stilistiche, Foucault non vuole rivendicare per sé un ruolo da scrittore. Anzi, rivela che solo in età adulta ha superato le proprie resistenze verso l’idea di dedicarsi alla scrittura. È stato un soggiorno in Svezia nel 1957 a fargli percepire le difficoltà legate al doversi esprimere in una lingua non sua, lo svedese o l’inglese, e a dargli il bisogno e il gusto di scrivere nella propria lingua. Ciò tuttavia non lo ha condotto a praticare una scrittura intransitiva al modo dei letterati, perché per lui si tratta comunque di «dire delle cose». Il fatto di occuparsi dei testi altrui (che a seconda dei casi sono opere di letteratura, di filosofia, ma anche di medicina, di biologia, di linguistica, di economia politica) non è rassicurante come appare a prima vista. Facendo riferimento, cosa per lui insolita, al proprio ambiente familiare (suo padre era chirurgo), Foucault spiega di aver tratto da esso l’inclinazione ad usare la penna al modo di un bisturi e a considerare gli autori, siano essi remoti o contemporanei, come cadaveri da anatomizzare. A questo proposito, ci tiene a rendere omaggio a due suoi maestri: Blanchot, il quale ha saputo evidenziare il rapporto che esiste fra la scrittura e la morte, e Nietzsche, secondo cui «la filosofia era innanzitutto diagnosi». Per Foucault vale lo stesso: «Quando inizio a scrivere uno studio, un libro, qualsiasi cosa, non so davvero dove andrà, né a cosa condurrà, né ciò che dimostrerò. Scopro quel che devo dimostrare solo nel movimento stesso con cui scrivo, come se scrivere fosse appunto diagnosticare […]. Penso di essere, in questo, del tutto fedele alla mia eredità». Ma al modo di pensare tipico dell’ambiente di provenienza, egli ha saputo anche ribellarsi, scegliendo di dedicare la sua prima grande opera alla follia, argomento che, all’epoca, i medici consideravano con diffidenza, risultando arduo stabilire una causa organica dei disturbi psichici.
Per quanto l’Histoire de la folie assegni un ruolo rilevante a figure di scrittori come Artaud e Roussel, ciò che al filosofo interessa non è la loro vita, o il particolare tipo di turbe e sofferenze che l’hanno resa tormentosa, bensì il fatto che, nonostante questo, le loro opere siano entrate a far parte dello spazio letterario: «Come può accadere che un uomo affetto da malattia mentale, o che tale è giudicato dalla società e dalla medicina del suo tempo, scriva un’opera che subito, oppure anni, decenni, secoli più tardi venga davvero riconosciuta in quanto opera, e in quanto una delle opere maggiori della letteratura e della cultura? In altri termini, la questione è quella di sapere come può accadere che la follia o la malattia mentale divengano creatrici. […] In un’epoca, in una cultura, in una certa forma di pratica discorsiva, il discorso e le regole di possibilità sono tali che un individuo può essere psicologicamente e in certo modo aneddoticamente folle, ma che il suo linguaggio, che è per l’appunto quello di un folle, può – in virtù delle regole del discorso nell’epoca in questione – funzionare in maniera positiva».
Quando Claude Bonnefoy lo sollecita a tornare, da queste considerazioni di carattere generale, al tema del proprio rapporto con la scrittura, e anzi col piacere di scrivere, Foucault avverte l’esigenza di precisare che per lui non è in causa un piacere, ma piuttosto una costrizione interiore. «Quest’obbligo viene annunciato, notificato in modi diversi. Per esempio attraverso il fatto che ci si trova in una grande angoscia, in una grande tensione, quando non si è prodotta, come ogni giorno, la propria paginetta di scrittura. Scrivendo questa pagina si concede a se stessi, alla propria esistenza, una specie di assoluzione. Tale assoluzione è indispensabile per la felicità della giornata. Non è la scrittura ad essere felice, è la felicità di esistere che dipende dalla scrittura, e questa è una cosa un po’ diversa».
Se un discorso del genere apparirà senz’altro condivisibile a molti scrittori, più soggettiva ed estrema risulta un’altra dichiarazione del filosofo, il quale confessa il proprio sogno irrealizzabile (e quasi mallarmeano) di giungere al libro definitivo: «Si scrive sempre, in fondo, non soltanto per redigere l’ultimo libro della propria opera, ma, in maniera assai delirante […], per scrivere l’ultimo libro del mondo». Questo però, dal suo punto di vista, implica la volontà non di affermare la propria individualità, bensì piuttosto di perderla: «Si scrive anche per non avere più volto, per seppellirsi sotto la propria scrittura. Si scrive per far sì che la vita che abbiamo attorno, di lato, fuori, lontano dal foglio di carta, questa vita che non è divertente, ma noiosa e piena di preoccupazioni, che è esposta agli altri, si riassorba nel piccolo rettangolo di carta che abbiamo sotto gli occhi». Egli considera legittimo persino l’insidioso accostamento (suggeritogli da Bonnefoy) tra il tema della sparizione dell’uomo su cui si concludeva Les mots et les choses e il desiderio, da lui avvertito, di perdere il proprio volto nella scrittura.
A queste ultime argomentazioni si potrebbe obiettare che non c’è alcun bisogno di sforzarsi per ottenere in anticipo ciò che accadrà comunque, ossia la sparizione del soggetto (e anche del suo contesto vitale) nella scrittura, per il semplice effetto della morte e del trascorrere del tempo. Ad essere raro, semmai, è il fatto che i libri (i quali conservano davvero una traccia del soggetto e del contesto) sopravvivano e continuino a sollecitare l’interesse dei lettori. Ma almeno questo auspicio implicito, nel caso di Foucault, si è certamente realizzato.
***
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
Madonna Foucault! Bisognerebbe parlare di lui almeno per un anno. E della urgente necessità di ridurre il peso del soggetto nella società, in subordine il peso della persona dell’autore nella letteratura… (che se volessimo davvero entrare nel molteplice della contemporaneità gli anderèbbe fatta da anonimi… lo diceva anche lo stesso Foucault… ognuno con più personalità lettararie, aggiungo io mutuando da Pessoa). Altro che cinici incisori di realtà… che in sintesi, questa incisione, starebbe a dire che vergano o sognano di vergare con sufficiente forza la loro firma sui contratti editoriali, universitari, televisivi, giornalistici, cinematografici ecc Dio bonino Foucault!
:)
fm
Un post ottimo (come sempre)
Quel «Si scrive anche per non avere più volto, per seppellirsi sotto la propria scrittura », dice di due momenti (movimenti): la sfigurazione del sé mediante quel bisturi/scrittura (altrimenti usato per “anatomizzare” un altro autore)
e la successiva decomposizione e disseminazione (sparizione) una volta diventato autore- cadavere nell’opera (”da anatomizzare” a sua volta).
Entrambi questi movimenti, oltre che con la morte (anche la propria morte anticipata), come già stato detto, hanno a che fare anche con l’altro tema qui a rapporto, quello della follia o quantomeno pulsione-possessione dello scrivere
la follia (solo figurata) di sfigurarsi, cancellarsi, usando la scrittura- bisturi, (o magari con lo stesso bisturi mettersi veramente a nudo, togliendosi la pelle del volto…e in questo altro senso non avere più il volto)
la follia di sparire, nel senso di rendersi invisibili come anche a volte immaginano i bambini – che immaginano questo per diventare potenti, anche di fronte al male, non certo per morire… – e questo diventare potenti lo lego qui (magari in maniera del tutto arbitraria e banale, e me ne scuso), al «proprio sogno irrealizzabile», «assai delirante […], per scrivere l’ultimo libro del mondo».
Sopra ho scritto ottimo come sempre e dunque come sempre grazie (all’autore e a Francesco!)
un caro saluto
Credo che Giuseppe scriva sempre di qualcosa che lo riguarda molto intimamente. Questo post è esemplare, perché coglie Foucault in un attimo cruciale non solo per lui: la dichiarazione di una poetica estrema, quel “seppellirsi sotto la propria scrittura” e ridurre il mondo a quello che conta: il rettangolo del foglio. Ciò a cui gli scrittori REALI ambiscono da sempre, siano essi poeti, critici o narratori.
Ma non solo. Hitchcock montava i suoi film solo perché significassero se stessi in quell’esatta inquadratura che era solo lui a volere.
Grazie.
m
Grazie a tutti, in particolare a Giuseppe per i suoi testi.
fm
sparire nella scrittura…interessante…
(come in una tela di Fontana?)
senza nulla togliere a Foucault, quando si sparisce nella scrittura il caso è uno solo:
la scrittura è talmente fluida da assorbire tutto l’essere
così che l’essere diventa scrittura :-)
è anche così che nascono le immagini…