Michaux: il rallentare
Né l’immobilità parmenidea, né lo scorrere eracliteo. La cosa poetica può essere altro. Vi si può annunciare quello stato di contrazione, di ri-tenuta del moto, che è il rallentamento. Una momentanea entropia, una sorta di ambigua passività necessaria alla rivelazione: allentando la sua vista, il poeta si prepara a rivelare ciò che lo sguardo rapido e “frontale” del soggetto comune non ha mai rivelato. Il rallentante, in circostanze del genere, non è né un io né il mensurabile kronos. Corrisponde a uno stato dell’essere o della verità in procinto di manifestarsi là dove solo gli è possibile, ossia in quel luogo che verrà chiamato “lontano interiore”.
Per enunciarne lo svelamento occorre che qualcuno, il poeta, rinunci ad accedere agli enti attraverso maschere pronominali precostituite. L’“accelerante” sapere dell’io-persona-presenza cede al “rallentante” senza nome, all’anonimo “si” livellatore. Nuvola, velo che protegge dai rumori del mondo, questo “si” assurge a una sorta di sublime anonimia in Henri Michaux, e non va confuso con l’impersonale “si” che Heidegger riferiva all’Esserci quotidiano e inautentico.
Il rallentamento, nella prosa poetica La rallentata (in Lontano interiore, 1938), attua un’epoché nei confronti dei pronomi personali-deittici, i poli che fungono da collegamento con il mondo-spazio e il mondo-tempo.
Ora l’istanza indicante fa tutt’uno con l’abisso “nirvanico” e deregolativo della non-persona. Il “si” espanso vi rifrange, spazializzandolo e teatralizzandolo, quel procedere sempre più lento del tempo verso una stasi peraltro infinitamente differita.
Rallentata, si tasta il polso delle cose; vi si russa; si ha tutto il tempo; tranquillamente, tutta la vita. Si inghiottono i suoni, li si inghiotte tranquillamente; per tutta la vita. Si vive nella propria scarpa. Lì si fanno le pulizie. Non si ha più bisogno di chiudersi. Si ha tutto il tempo. Si degusta. Si ride nel proprio pugno. Non si crede più di sapere. Non si ha più bisogno di contare. Si è felici [heureuse] bevendo; si è felici non bevendo. Si fa la perla. Si è, si ha il tempo. Si è la rallentata. Si è usciti dalle correnti d’aria. Si ha il sorriso dello zoccolo. Non si è più stanchi [fatiguée]. Non si è più toccati [touchée]. Si hanno i ginocchi in fondo ai piedi. Non si ha più vergogna sotto la campana. Si è posato il proprio uovo, si sono posati i propri nervi.
Vi è deposizione, vi sono monadi sceniche che la raccontano, con un minimo di ekphrasis. Piccole uova ammassate dentro un voluminoso uovo-campana, vale a dire il guscio metaforico di questo “si”, di questa innominazione del soggetto che, protesa nondimeno a ogni avventura, aggetta sull’essere. Filo anonimo che scorre al di qua del sapere («non si è più impazienti di sapere»), «tra centro e assenza», delebile microcosmo cui è permesso riecheggiare alla seconda potenza solo frammenti di quotidianità (la più frusta, beckettiana quotidianità). Vi è rappresentazione, dunque. Essa concerne un organismo senziente e memorante ai livelli più bassi. I rudimenti del suo agire («si tasta», «si russa», «si inghiottono», ecc.) sono molecole danzanti in una sonnolenza emulsiva. Non si incontrano verba videndi e più in là Michaux annota: «non si ha più lo sguardo del proprio occhio». L’uovo-campana è in grado di contenere solo alcune porzioni di una storia, di un totum, per segnalare le quali la parola s’imbozzola nel breviloquio iterato, tramite un decorso sintattico scandito anaforicamente dal “si”. Scansioni ravvicinate che ritengono il flusso del tempo: «Si È la rallentata». La rallentata fa dell’essere, in quanto être au ralentie, ciò che nella cosa poetica è custodito.
L’essere-che-(si) rallenta, confrontandosi a una corporeità diffusa dove è in questione, tra l’altro, la “vacanza” del soggetto, rallenta a sua volta l’avanzare delle frontiere, delle partizioni tra corpo proprio e corpo della terra, organico e inorganico, attivo e passivo, interno ed esterno. Un esercizio di spossessamento che ci ricorda un po’ le pratiche ascetiche orientali. A emergere lentamente è in ogni modo il “lontano interiore” in quanto sito trans-liminare, e la rallentata, a livello d’immagine, svela la sua verità nella curva, nell’ondulazione di una tangenza.
Si sente la curvatura della Terra. Si hanno ormai i capelli che ondeggiano naturalmente. Non si tradisce più il suolo, non si tradisce più l’alborella, si è sorella grazie all’acqua e alla foglia. Non si ha più lo sguardo del proprio occhio, non si ha più la mano del proprio braccio. Non si è più vani [vaine]. Non si invidia più. Non si è più invidiati [enviée]. Non si lavora più. La maglia è là, fatta, dappertutto.
Siamo giunti a una svolta. La rallentata ha generato la maglia, tessuto la nuova trama, predisposto il rivestimento rigenerante del mondo. Ora non le resta che difendere questa nuova interiorità dagli ostacoli del fittizio esterno: «Le case sono ostacoli. I traslocatori sono ostacoli. La figlia dell’aria è un ostacolo». Nel reagire ai corpi della reificante presenza – quei corpi che, in un tutt’altro contesto di poetica, componevano il montaliano “schermo” delle cose – essa finisce paradossalmente per somigliare a una macchina da guerra: «Rigettare, urtare, difendere il proprio miele con il sangue, evincere, sacrificare, far perire…», mentre un “io” vergine sta per sporgersi, sia pure titubante, dall’informale “si”-uovo: «E io mi dicevo: “Uscirò? Uscirò? Oppure non ne uscirò mai?”».
La verità “protetta” della rallentata è, possiamo adesso intuirlo, il differimento. Ponendo il soggetto in uno stato di indeterminazione e di attesa, il rallentante gli impedisce di farsi hic et nunc – nell’angusto e inautentico “presente grammaticale” – perno dell’esperienza e del senso, rinvia il tutto a un momento migliore, quando egli potrà esperirsi finalmente come egoità profondamente rivisitata, una creatura in ascolto dell’essere, e lasciarsi alle spalle l’autistica situazione di partenza, «la mia odiosa autonomia». Giunge allora il tempo dell’incontro, che è attesa e profezia, come si legge in una poesia di Lointain intérieur:
Ma Tu, quando verrai? (…)
spingendo in me la tua spaventosa sonda,
la terribile fresatrice della Tua presenza,
erigendo in un istante sulla mia diarrea
la Tua diritta e insormontabile cattedrale;
proiettandomi non come uomo
ma come obice nella via verticale,
TU VERRAI.
L’io si sente investito dal “tuono” dell’universo, attraversato dalla sua «spaventosa sonda», dalla «terribile fresatrice» della sua presenza. Questa immane forza cosmica, che ha trapassato il soggetto dopo averne abbattuto le difese, verrà a sua volta introiettata dalla scrittura. La «via verticale» indicata coinciderà di lì a poco con il percorso magico-rituale della parola alla conquista di un mondo differente. L’atto ricreante ci sembrerà allora, contraddicendo il ritmo inaugurale, accelerazione violenta, come quella esercitata dal Drago in Peintures («Un drago è uscito da me, cento code di fiamme e nervi») o dalle produzioni tardive sotto l’effetto degli allucinogeni (vedi Misérable miracle).
Nell’introdurre il libro Epreuves, exorcismes, di poco posteriore (1946), Michaux chiamerà “dipendenza” la situazione iniziale, alle soglie di questo sorprendente rigenerarsi dell’io, ed “esorcismo” (variante del comportamento magico) il mezzo per conseguirlo. L’esorcismo è uno «slancio simile a freccia, focoso e quasi sovrumano», un momento straordinario della vita: «Questa ascesa verticale ed esplosiva è uno dei grandi momenti dell’esistenza. Non ci si stancherà mai di consigliarne l’esercizio a quelli che vivono loro malgrado in uno stato di infelice dipendenza. Ma l’avviamento del motore è difficile, una quasi-disperazione ci sorprende». Il fine per cui il poeta si batte è comunque sempre il medesimo: «Mettere in difficoltà le potenze del mondo ostile che ci circondano».
Superato lo stadio iniziale di vigile passività, la poesia, come direbbe Nietzsche, è lì per «distruggere, scompaginare, e con ironia rimettere insieme» i frammenti del senso. Ma per Michaux, maestro dei paradossi, questo «rimettere insieme» ha poco a che vedere con l’utopia del ricostruire. E come l’accelerare conserva l’impronta mnestica del rallentare, così il differente non differisce fino in fondo da ciò che era “prima”. In quell’opera canonica che è Au pays de la magie (1941), il mago riconosce per esempio la vanità del voler risanare del tutto le piaghe dell’uomo e del mondo, sa che il vero atto del risanare è soltanto un rallentare la guarigione, complice quel processo fabulatorio che restituisce la memoria del rallentamento alla piaga “oggettivata”, divenuta iscrizione sul muro indelebile, interno-esterno, del soffrire:
Sanguinante sul muro, vivente, rossa e per metà infettata, sta la piaga di un uomo; di un Mago che l’ha messa lì. Perché? Per ascesi, per meglio soffrirne. Su di sé, infatti, non potrebbe fare a meno di guarirla grazie al suo potere taumaturgico, in lui talmente naturale da essere totalmente inconscio. Ma, in tal modo, egli la conserva a lungo senza che essa si rimargini. Questo procedimento è corrente. Strane piaghe che si incontrano con fastidio e nausea, sofferenti su muri deserti…
Nel paese della magia
In Michaux il contatto magico può corrispondere a un lento dispiegare, vale a dire alla dolce violenza con cui chi svela interrompe l’occultante accumularsi delle pieghe. In fondo il dispiegamento – ecco forse il nocciolo della magia – non è altro che la messa a fuoco dell’«ampiezza a nostra disposizione, inesauribile», quella di un corpo espanso (e piatto) a cui ogni piega sia stata tolta; un’ampiezza che in ultima istanza confina con il nulla, proprio perché rappresenta la dimensione della fine.
C’è un testo di Au pays de la magie che lo dovrebbe provare. Identificandosi con il “figlio”, che qui emblematizza la pointe estrema del filo genealogico, il soggetto-mago michauxiano si appresta a “dispiegare” se stesso al fine di “spiegare” il vivente, ma con la convinzione che dopo tale prova di dispiegamento-disvelamento morirà. La verità rivelata dell’“ampiezza” non è altro che il nulla al quale ogni essente è destinato:
Il figlio, il figlio del capo, il figlio del malato, il figlio dell’aratore, il figlio dello sciocco, il figlio del Mago, il figlio nasce con ventidue pieghe. Bisogna spiegarle. La vita dell’uomo allora è completa. Sotto questa forma muore. Non gli rimane alcuna piega da disfare.
Raramente un uomo muore senza avere ancora qualche piega da disfare. Ma è accaduto. Parallelamente a questa operazione l’uomo costruisce un nucleo. Le razze inferiori, come la razza bianca, considerano più il nucleo che il dispiegamento.
Il Mago vede piuttosto il dispiegamento. Solo il dispiegare importa. Il resto non è che epifenomeno.
E ora lasciamo la parola a Maurice Blanchot, che ha colto con grande acume la funzione della magia in Michaux: «Il mondo di Michaux è allo stesso tempo spontaneità imprevedibile e inerzia infinita. Spontaneità e passività sono le due caratteristiche del mondo magico. La coscienza si è smarrita tra le cose. È diventata essa stessa una cosa. Non ha più limiti né forme. Tende ancora a una certa finalità, ma la realizza con mezzi assoluti. Tutto è possibile – per esempio l’illusione dell’essere interiore che realizza tutto ciò che immagina – e nel contempo nulla lo è, dal momento che lo spirito, intrappolato nello spessore della materia, è soltanto pazienza cristallizzata, indifferenza al gouffre, pasta vischiosa che non lievita più. (…) Questo è il sogno angoscioso della coscienza magica. Vuole uscire da se stessa, ma non può uscirne se non rendendo presente un mondo dove essa si incontra sempre. Questa coscienza tende a superarsi, e superarsi significa per lei espandersi ovunque, diluirsi in ogni cosa, trovarsi là dove non si trova». (6)
(Continua…)
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Note
(6) M. Blanchot, Henri Michaux ou le refus de l’enfermement, Farrago, 1999, pp. 60-61.
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Il saggio di Gilberto Isella è tratto da:
Aa. Vv.
(a cura di Mario Fresa e Tiziano Salari)
La poesia e la carne.
Tra il labirinto dei corpi e l’inizio della parola
Milano, La Vita Felice, “Saggi”, 2009.
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Lascio commentare chi sa farlo e passerò ancora a leggere.