Foucault: pensare la storia della verità con Nietzsche
Il 2 dicembre 1970, Michel Foucault tiene la lezione inaugurale della nuova cattedra di Storia dei sistemi di pensiero, istituita per lui al Collège de France. Il testo, che è di carattere programmatico, sarà pubblicato poco tempo dopo, nella forma di un volumetto dal titolo L’ordre du discours(1). In questo scritto, fin quasi dall’esordio, il filosofo espone la sua tesi di fondo, secondo cui «in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e ridistribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità»(2).
Nell’ambito di tali procedure, si notano in primo luogo quelle di esclusione. La più comune è l’interdetto: non tutti possono parlare di qualsiasi cosa in ogni circostanza (così, tra gli argomenti più frequentemente soggetti a proibizioni vi sono la sessualità e la politica). Un secondo metodo di esclusione si manifesta come partizione o rigetto: esempio tipico è quello dell’opposizione tra ragione e follia, che il filosofo ha esaminato approfonditamente in una celebre opera, Histoire de la folie à l’âge classique(3). La parola del folle viene di solito ritenuta senza effetto e senza importanza, e anche l’ascolto psicoanalitico di essa rappresenta, a giudizio di Foucault, solo un altro modo per ribadirne la differenza rispetto al discorso considerato normale. Principio di esclusione è anche l’opposizione del vero e del falso. In apparenza, la volontà di verità ha sempre svolto un ruolo positivo, ma di fatto ha funzionato anche, nel contempo, come metodo di selezione e costrizione. In ogni campo del sapere esistono delle regole che permettono di separare le affermazioni che, in un determinato momento storico, possono essere accettate come vere, dalle altre, respinte perché non possiedono i medesimi requisiti. È quanto Foucault ha già mostrato in un’altra sua grande opera, Les mots et les choses(4).
Dopo aver esaminato le procedure che controllano e delimitano il discorso dall’esterno, il filosofo passa a considerare quelle che sono attive al suo interno. Anche in questo caso ne indica tre, ad iniziare dal commento: ogni società individua certi testi (religiosi, giuridici, letterari) che considera particolarmente importanti, dunque meritevoli di generare a loro volta tutta una categoria di discorsi destinati a commentarli, allo scopo di metterne in luce l’implicita ricchezza di senso. Un secondo criterio di controllo interno è costituito dall’autore, inteso non come persona ma come principio di raggruppamento dei discorsi; infatti, mentre molti enunciati circolano senza bisogno di essere attribuiti a qualcuno, per i testi letterari, filosofici e scientifici si avverte la necessità di ricondurli ad un autore (storicamente, non è sempre stato così) (5). La terza procedura di limitazione è data dal sistema delle discipline, ad esempio quelle scientifiche. Esse sono costituite da «un ambito di oggetti, un insieme di metodi, un corpus di proposizioni considerate come vere, un gioco di regole e di definizioni, di tecniche e di strumenti»(6). Se un enunciato non rispetta queste caratteristiche, rischia di essere considerato estraneo alla disciplina entro cui vorrebbe trovar posto.
C’è poi un terzo gruppo di procedure, volte a limitare il numero dei soggetti parlanti cui può essere consentito di accedere al discorso. Tra queste, Foucault indica in primo luogo ciò che definisce il rituale: almeno in certi campi, chi parla deve non solo essere qualificato per farlo, ma anche rispettare un ordine di ruoli, di gesti e di circostanze, in modo da conferire alle proprie parole efficacia e valore costrittivo. Esistono poi le società di discorso, che hanno la funzione di produrre e conservare determinati enunciati, ma solo per farli circolare entro uno spazio chiuso. Le dottrine (religiose, politiche o filosofiche) in apparenza funzionano in senso opposto, nel senso che si tende a divulgarle, e tuttavia vincolano chi vi aderisca al rispetto dell’ortodossia, pena l’espulsione o il rigetto. Esiste infine l’appropriazione sociale dei discorsi, che avviene tramite il sistema educativo. Quest’ultimo non opera in uno spazio astratto, bensì viene tenuto sotto controllo dall’apparato politico dominante, in funzione dei propri interessi, e dunque in maniera tale da non offrire a tutti le medesime possibilità di acquisizione del sapere.
La filosofia, invece di indagare criticamente su questo vasto apparato di tecniche volte a padroneggiare e limitare le possibilità enunciative, ha finito assai spesso col rafforzarlo, insistendo su nozioni (come quelle della verità ideale, del soggetto fondatore, dell’esperienza originaria, della mediazione universale) che hanno avuto l’effetto di elidere la realtà materiale e sociale del discorso. Chi invece voglia, come Foucault, orientarsi in senso opposto, dovrà «rimettere in questione la nostra volontà di verità; restituire al discorso il suo carattere di evento; eliminare infine la sovranità del significante»(7). Dato che, nella tradizionale storia delle idee, si è sempre cercato «il punto della creazione, l’unità di un’opera, di un’epoca o di un tema, il contrassegno dell’originalità individuale, e il tesoro indefinito dei significati nascosti», ora diviene necessario procedere in tutt’altro modo, opponendo «l’evento alla creazione, la serie all’unità, la regolarità all’originalità, e la condizione di possibilità al significato»(8).
Pur senza fare esplicito riferimento a correnti filosofiche, Foucault sta in pratica congedando tutte quelle che, in Francia, hanno caratterizzato il secondo dopoguerra (l’hegelismo, il marxismo, la fenomenologia, l’esistenzialismo, lo strutturalismo). Questo, però, non restringe affatto il suo orizzonte progettuale, che appare anzi estremamente ampio. Egli raggruppa le analisi che auspica di poter condurre in due insiemi. Il primo, che definisce critico, dovrebbe studiare perché e come si sono formate le tecniche di esclusione e limitazione del discorso. Fra gli interdetti di linguaggio vi sono quelli inerenti all’ambito sessuale, cui in effetti Foucault dedicherà, almeno in parte, le indagini che confluiranno, anni dopo, nei tre volumi dell’Histoire de la sexualité(9). Ma sono di tipo critico anche ricerche come quelle sul costituirsi storico della volontà di sapere, oppure delle pratiche e dei sistemi discorsivi che caratterizzano il sistema penale, o gli sviluppi della medicina fra il XVI e il XIX secolo, o ancora i modi in cui la critica letteraria ha costruito le nozioni di autore ed opera. Il secondo insieme di ricerche, che Foucault considera di tipo genealogico, dovrebbe vertere invece sulle serie di discorsi, al fine di esaminare «quali sono state le loro condizioni di apparizione, di crescita, di variazione»(10). Anche a questo proposito, il filosofo indica alcuni possibili oggetti di studio storico (come le teorie economiche nei secoli XVI e XVII, oppure i discorsi, non soltanto biologici, relativi all’ereditarietà), ma soprattutto ci tiene a rimarcare che la prospettiva critica e quella genealogica devono essere strettamente connesse fra loro.
Si può dunque dire che, in L’ordre du discours, Foucault delinei un amplissimo campo di lavoro interdisciplinare. È chiaro che, negli anni successivi, egli potrà svolgere solo alcune delle ricerche che aveva ipotizzato nel suo discorso inaugurale. Ciò dipende anche dal fatto che in quel periodo, dal 1970 fino alla morte prematura nel 1984, egli avrà modo di spostare più volte il fulcro dei propri interessi teorici. E tuttavia l’insieme dei tredici corsi da lui tenuti al Collège de France (corsi i cui testi sono ancora in via di pubblicazione) fornisce una dimostrazione impressionante della sua capacità di affrontare, con grande competenza e originalità di pensiero, ambiti tematici assai diversi fra loro: si va dalle istituzioni penali all’apparato psichiatrico, dalla guerra alla biopolitica, dalle teorie e pratiche sessuali nel mondo greco-romano alle tecniche di costituzione della soggettività(11).
Senza ovviamente poterci addentrare in un terreno così vasto, ci limiteremo a considerare il passaggio da L’ordre du discours al corso del medesimo anno accademico, anzi alle sole lezioni iniziali di esso. Perché questa strana limitazione? La nostra ipotesi è che Foucault abbia conferito a tali lezioni un carattere metodologico e che, sapendo di poterle pronunciare in una situazione meno solenne e cerimoniale rispetto all’inaugurazione della cattedra, si sia concesso la possibilità di formulare in esse un’idea di filosofia un po’ diversa, ed anche un po’ più audace, rispetto a quella che aveva esposto in L’ordre du discours.
Prima di cercare di dimostrarlo, sarà opportuno ricordare alcune caratteristiche generali del corso 1970-1971, i cui appunti sono stati pubblicati col titolo Leçons sur la volonté de savoir(12). Parliamo di appunti perché il testo è stato stabilito a partire non dalle registrazioni sonore (che non si sono conservate), bensì proprio dal manoscritto redatto da Foucault come traccia da seguire al momento dell’esposizione orale. Benché presentino a tratti un carattere schematico, gli appunti sono comunque chiari ed offrono svariati motivi di interesse, a cominciare dal fatto che le analisi foucaultiane s’incentrano sulla Grecia antica, con largo anticipo, dunque, rispetto allo studio sistematico che il filosofo verrà poi conducendo in proposito a partire dal 1980. Così il filosofo riassume i temi trattati nella parte più ampia del corso, relativa alle istituzioni greche arcaiche: «Sono stati studiati di volta in volta: – la pratica del giuramento nelle contestazioni giudiziarie e l’evoluzione che va dal giuramento-sfida delle parti avverse che si espongono alla vendetta degli dèi al giuramento assertorio del testimone che è ritenuto affermare il vero per averlo visto e avervi assistito; – la ricerca di una giusta misura non solo negli scambi commerciali ma anche nei rapporti sociali all’interno della città, tramite l’istituzione della moneta; – la ricerca di un nomos, di una giusta legge di distribuzione che assicuri l’ordine della città, facendo regnare in essa l’ordine del mondo; – i rituali di purificazione dopo gli omicidi. La distribuzione della giustizia è stata, nel corso di tutto il periodo preso in esame, la posta in gioco di importanti lotte politiche. Esse hanno, in fin dei conti, dato luogo a una forma di giustizia legata ad un sapere in cui la verità veniva considerata come visibile, constatabile, misurabile, soggetta a leggi simili a quelle che reggono l’ordine del mondo, e la cui scoperta detiene in sé un valore purificatorio. Questo tipo di affermazione della verità doveva risultare determinante nella storia del sapere occidentale»(13).
Come già detto, però, ci interessa qui la parte introduttiva al corso, costituita specialmente dalle prime tre lezioni, tenute nell’ultimo mese del 1970. Il 9 dicembre, il filosofo esordisce annunciando che il lavoro che si propone di svolgere, in quell’anno e nei successivi, consisterà nell’elaborare dei «frammenti per una morfologia della volontà di sapere»(14). Foucault ribadisce che l’opposizione tra il vero e il falso non ha nulla di naturale, ma si configura in modi diversi a seconda dei vari contesti storici e produce anche fenomeni di esclusione. Tuttavia la formula da lui scelta, «volontà di sapere», non gli sembra esente da problemi. Ad esempio, con l’impiego del primo dei due termini, non si rischia di reintrodurre quel soggetto fondatore che si intendeva mettere fuori causa? Inoltre, come raccordare fra loro le modificazioni della volontà di sapere e «i processi reali di lotta e di dominio che si svolgono nella storia delle società»(15)? O ancora, non c’è il pericolo di riproporre in maniera un po’ diversa l’idea, del tutto tradizionale, secondo cui gli esseri umani hanno un naturale desiderio di apprendere?
Lasciando in sospeso le altre domande, il filosofo si sofferma in particolare su quest’ultima, e lo fa chiamando in causa il ben noto incipit della Metafisica di Aristotele: «Tutti gli uomini hanno, per natura, il desiderio di conoscere; lo dimostra il piacere causato dalle sensazioni, poiché, anche al di fuori della loro utilità, esse ci piacciono per se stesse e, più di tutte, le sensazioni visive»(16). Secondo Foucault, questo passo implica in sé diverse asserzioni: che esiste un desiderio di conoscere, che tale desiderio è universale (in quanto si trova in tutti gli uomini) e che è dato dalla natura. Aristotele cerca di dimostrarlo tramite un entimema, tecnica retorica che si ha «quando, date certe premesse, risulta per mezzo di esse qualcosa di altro e di ulteriore per il fatto che esse sono tali o universalmente o per lo più»(17). Nel caso specifico, la dimostrazione è data dal fatto che le sensazioni (specie quelle visive) suscitano piacere, e lo fanno di per sé, indipendentemente dalla loro utilità.
Foucault obietta che in questa argomentazione vengono attuati tre spostamenti rispetto all’asserzione iniziale: 1) si passa dalla conoscenza alla sensazione; 2) il naturale desiderio di conoscere viene collegato alla sensazione fuori da ogni utilità, come se anche la non-utilità fosse naturale; 3) si passa dal «desiderio» al «piacere» di conoscere. Questi spostamenti possono essere chiariti attraverso un confronto con brani di altre opere aristoteliche (De anima, Etica Nicomachea, Etica Eudemia). Senza ricostruire tutta quest’analisi condotta dal filosofo francese, ricordiamo solo la conclusione che egli ne trae: Aristotele vuol stabilire una continuità fra il semplice piacere della sensazione e la più nobile e completa forma di conoscenza, rappresentata dalla filosofia. La funzione di quest’ultima «consiste nell’assicurare che ciò che esiste davvero di conoscitivo a partire dalla sensazione, dal corpo, è già, per natura e in funzione della causa finale che lo dirige, dell’ordine della contemplazione e della teoria»(18).
Nella lezione successiva, del 16 dicembre 1970, Foucault conclude la delineazione del modello aristotelico. A suo giudizio, esso, per poter funzionare, deve presupporre la verità, alla quale viene assegnato il ruolo di assicurare il passaggio dal desiderio alla conoscenza; ed è sempre la verità a far sorgere, dalla connessione di questi due elementi, l’identità del soggetto. Ma esiste, nella storia della filosofia, qualcuno che abbia sviluppato al massimo grado tale modello? Secondo Foucault, si tratta di Spinoza. Per dimostrarlo, egli cita un passo dal Trattato sull’emendazione dell’intelletto: «Decisi infine di ricercare se si desse qualcosa che fosse un bene vero e condivisibile, e dal quale soltanto, respinti tutti gli altri, l’animo fosse affetto; anzi, se esistesse qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema»(19). Spinoza sottolinea, più ancora del desiderio di conoscenza, quello di felicità, e solo successivamente mostra la funzione cardine della verità, che è nel contempo fonte di conoscenza e di gioia. In tal modo egli si spinge un po’ oltre Aristotele, pur senza voler sottoporre il paradigma teorico ideato da quest’ultimo ad una contestazione radicale.
A svolgere tale ruolo, secondo Foucault, provvede qualcun altro. Ecco come, e da chi, viene elaborato il modello alternativo: «In La gaia scienza, Nietzsche definisce un insieme di rapporti completamente diverso: – la conoscenza è un’“invenzione” dietro cui si trova qualcosa che è del tutto differente da essa: un gioco d’istinti, d’impulsi, di desideri, di paura, di volontà d’appropriazione. È sulla scena in cui questi lottano che la conoscenza ha modo di prodursi; – si produce non come effetto della loro armonia, del loro felice equilibrio, bensì del loro odio, del loro compromesso incerto e provvisorio, di un patto fragile che essi sono sempre pronti a tradire. La conoscenza non è una facoltà permanente, bensì un evento, o almeno una serie di eventi; – è sempre serva, dipendente, interessata (non a se stessa, ma a quel che è suscettibile di interessare all’istinto o agli istinti che la dominano); – e se si dà come conoscenza della verità, è perché produce la verità, tramite il gioco di una falsificazione prima, e sempre rinnovata, che pone la distinzione tra il vero e il falso»(20). È chiaro che, dal punto di vista di Foucault, tali posizioni nietzschiane sono condivisibili, e tuttavia, come abbiamo anticipato, egli ha ritenuto strategicamente inopportuno dichiararlo in maniera netta nella lezione inaugurale. Certo, anche in L’ordre du discours egli si richiamava, en passant, a tutti coloro che hanno rimesso in questione la volontà di verità, «da Nietzsche ad Artaud a Bataille»(21). Ed è vero altresì che evocava indirettamente il filosofo tedesco quando parlava di ricerche da condurre secondo una prospettiva genealogica(22). Resta però il fatto che, in quel testo, Foucault non assegnava alle idee di Nietzsche la funzione di un punto di riferimento essenziale. Sembra dunque lecito interpretare le lezioni successive come un secondo «discorso sul metodo». Del resto, coloro che conoscono l’insieme delle sue opere non possono sorprendersi: infatti, fin dal primo libro importante, quello sulla storia della follia, egli aveva dichiarato di voler porre il proprio lavoro «sotto il sole della grande ricerca nietzschiana»(23).
Ma torniamo alla lezione del 16 dicembre, e dunque alla contrapposizione fra i due modelli teorici. Secondo Foucault, nel suo sforzo di oltrepassare i limiti della conoscenza e di portarsi in una specie di esteriorità ad essa, Nietzsche si espone a un’obiezione di tipo kantiano: «O ciò che si dice sulla conoscenza è vero, ma questo può accadere solo all’interno della conoscenza. Oppure si parla fuori dalla conoscenza, ma allora nulla permette di affermare che ciò che si dice è vero»(24). Per uscire dal dilemma, esiste una sola via: quella che conduce a negare la coappartenza di verità e conoscenza. Infatti, mentre Kant postulava nel contempo una verità inaccessibile e una conoscenza limitata, Nietzsche procede a una «disimplicazione» dei due elementi. Ricordiamo che il confronto tra questi filosofi ha radici lontane per Foucault. Già nella sua introduzione all’Antropologia kantiana, lungo saggio del 1961 rimasto inedito fino a pochi anni fa, egli stabiliva il nesso: «Quale forma di accecamento ci ha impedito di vedere che l’articolazione autentica del Philosophieren era di nuovo presente, e sotto una forma ben più vincolante, in un pensiero che non aveva forse esso stesso sottolineato nel modo più esatto ciò che conservava in sé di filiazione e di fedeltà nei confronti del vecchio “Cinese di Königsberg”? Bisognerebbe probabilmente capire cosa significa “filosofare a colpi di martello”, cogliere con uno sguardo iniziale che cos’è il Morgenrot, comprendere ciò che torna a noi nell’Eterno Ritorno, per vedervi la ripetizione autentica, in un mondo che è il nostro, di quello che, per una cultura già lontana, era la riflessione sull’a priori, l’originario e la finitudine»(25).
Non è dunque Kant ma piuttosto Spinoza a costituire l’avversario più temibile, proprio in quanto «lega nella maniera più rigorosa la verità e la conoscenza»(26). Nietzsche, che si propone all’opposto di separarle, deve pertanto sbarazzarsi di Spinoza, a cui pure sa di essere affine come pensatore(27). Lo fa in vari modi, ossia mostrando che «conoscere è detestare […], poiché si conosce per dominare, per prevalere», che lo sviluppo storico della conoscenza è guidato «da una regola di volontà», e infine che «dietro l’atto stesso della conoscenza, dietro il soggetto che conosce nella forma della coscienza, si dispiega la lotta degli istinti, degli io parziali, delle violenze e dei desideri»(28). Foucault ha in mente un preciso passo della Gaia scienza, nel quale si legge: «Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere! dice Spinoza, con quella semplicità e sublimità che è nel suo carattere. Ciò nondimeno: che cos’è in ultima analisi questo intelligere se non la forma in cui appunto ci diventano a un tratto avvertibili questi tre fatti? Un risultato dei tre diversi e fra loro contraddittori impulsi a voler schernire, compassionare, esecrare? Prima che sia possibile un conoscere, ognuno di questi impulsi deve avere già espresso il proprio unilaterale punto di vista sulla cosa o sul fatto: in seguito nasce il conflitto tra queste unilateralità, e a partire da esso talora un termine medio, una pacificazione […]. Noi, che siamo consapevoli soltanto delle ultime scene di conciliazione e della liquidazione finale di questo lungo processo, riteniamo perciò che intelligere sia qualcosa di essenzialmente contrapposto agli impulsi: mentre esso è soltanto un certo rapporto degli impulsi tra di loro. […] Sì, forse esiste nelle nostre lotte interiori parecchio eroismo nascosto, ma non certo qualcosa di divino, che riposa eternamente in sé, come pensava Spinoza»(29).
La lezione del 23 dicembre 1970 risulta assente dal manoscritto. Tuttavia il curatore del volume, Daniel Defert, confrontando gli appunti presi quel giorno da un’uditrice con quelli redatti da Foucault come base per una conferenza tenuta nell’aprile 1971 all’università McGill di Montréal in Canada, ritiene che vi sia una sostanziale sovrapponibilità. Dunque lo seguiremo, sostituendo la lezione mancante con le note preparatorie per la conferenza, che ha un titolo a prima vista paradossale: Comment penser l’histoire de la vérité avec Nietzsche sans s’appuyer sur la vérité(30).
Il filosofo francese prende avvio dalla citazione di un celebre passo nietzschiano: «In qualche angolo sperduto di quest’universo, il cui bagliore si spande in innumerevoli sistemi solari, ci fu una volta un astro su cui degli animali intelligenti hanno inventato la conoscenza. Fu l’istante più menzognero e arrogante della storia universale»(31). Parlare della conoscenza come di un’invenzione significa, secondo Foucault, varie cose: che essa non rappresenta un istinto inerente alla natura umana, che non è preceduta da un modello anteriore di carattere divino, che non si costituisce come decifrazione della struttura stessa del mondo e che è il risultato di un’operazione complessa. Dopo aver ricordato il brano antispinoziano di Nietzsche, il filosofo francese lo commenta sottolineando il carattere crudele della conoscenza: «Non si tratta di riconoscersi nelle cose, ma di tenersene a distanza, di proteggersi da esse (tramite il riso), di differenziarsene attraverso la svalorizzazione (disprezzare), di volerle respingere o distruggere (detestari)»; ma occorre tener presente che è in causa «una malvagità rivolta anche verso colui che conosce»(32).
Per Nietzsche, la conoscenza non ha come scopo l’utile, ed è crudele in quanto comporta la rinuncia alla comodità delle illusioni. Essa va oltre l’apparenza, ma non per contrapporle l’essere autentico (alla maniera platonica), bensì soltanto per stanare la potenza celata dietro di essa. Tale operazione non serve dunque a depurare la conoscenza da elementi che ne sono parte integrante, come l’istinto, l’interesse, il gioco, la lotta. Del resto, è possibile conoscere solo in maniera prospettica e incompiuta. La verità costituisce un’invenzione tardiva e segue un suo corso storico, non tuttavia nel senso che occorre considerarla come la meta finale, da sempre promessa, di un lungo sforzo dell’umanità per raggiungerla. Già prima che si manifestasse l’esigenza della verità, esistevano altre due forme del conoscere: l’una finalizzata al bisogno di padroneggiare le cose, in rapporto alle esigenze corporee e vitali; l’altra più trasgressiva e malvagia, volta a scoprire per svelare e profanare. Solo in seguito è comparso l’atteggiamento ascetico, quello di chi aspira alla verità e vorrebbe, neutralizzando il corpo, poter esaminare tutto con occhio distaccato e imparziale. Si tratta ovviamente di una speranza illusoria, perché non esiste una conoscenza in sé, così come non esiste un asettico soggetto di essa. Scrive Nietzsche: «D’ora innanzi guardiamoci meglio […] dal pericoloso, antico favoleggiamento concettuale, che ha impiantato un “puro, senza volontà, senza dolore, atemporale soggetto della conoscenza”; guardiamoci dalle prensili braccia di tali concetti contraddittori come “pura ragione”, “assoluta spiritualità”, “conoscenza in sé” […]. Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un “conoscere” prospettico; e quanti più affetti lasciamo parlare sopra un determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro “concetto” di essa, la nostra “obiettività”»(33).
In effetti, spiega Foucault, la conoscenza si basa su una rete di relazioni, su un gioco di diversità in se stesse inconoscibili. Tuttavia la volontà di potenza che agisce in noi ci induce a cercare delle analogie all’interno di questa caotica molteplicità, ad imporre a certe differenze un contrassegno che le unifichi, costituendole come cose, rendendole pertanto utilizzabili e dominabili. Solo a partire da qui possono sorgere dati come il cogito o la coppia soggetto-oggetto, che la filosofia tradizionale considerava invece il fondamento stesso della conoscenza. Simili dati sono, oltre che tardivi, inconsistenti: «Nietzsche introduce in luogo e al posto del cogito […] il gioco del contrassegno e del volere, della parola e della volontà di potenza, o ancora del segno e dell’interpretazione»(34).
Se la conoscenza precede la verità, significa che esse appartengono a due ordini diversi. Afferma il filosofo tedesco: «La verità non è […] qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, – ma qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo, anzi a una volontà di soggiogamento, che di per sé non ha mai fine: introdurre la verità, come un processus in infinitum, un attivo determinare, non un prendere coscienza di qualcosa che sia “in sé” fisso e determinato. È una parola per la “volontà di potenza”»(35). La tradizione credeva che la volontà avesse solo la funzione ancillare di favorire l’accesso all’unica cosa essenziale, ossia la verità. Nietzsche sconvolge tale quadro, sostenendo che la verità è una violenza fatta alle cose, e che non perde nulla ad ammettere il proprio carattere di finzione. Per lui, dunque, «la volontà di potenza è il punto d’esplosione in cui verità e conoscenza si separano e si distruggono a vicenda»(36).
Nella lezione del 17 marzo 1971, Foucault sintetizza in maniera molto efficace i caratteri del paradigma proposto dal filosofo tedesco: «Il modello nietzschiano vuole […] che la Volontà di sapere rinvii a tutt’altro che alla conoscenza, che dietro la Volontà di sapere ci sia non una sorta di conoscenza preliminare, che sarebbe qualcosa come la sensazione, bensì l’istinto, la lotta, la Volontà di potenza. Il modello nietzschiano vuole, inoltre, che la Volontà di sapere non sia legata originariamente alla Verità; vuole che la Volontà di sapere componga illusioni, fabbrichi menzogne, accumuli errori, si dispieghi in uno spazio di finzione in cui la verità non sarebbe essa stessa che un effetto. Vuole, per di più, che la Volontà di sapere non sia data sotto la forma della soggettività e che il soggetto sia soltanto una specie di prodotto della Volontà di sapere, nel doppio gioco della Volontà di potenza e della Verità. Infine, per Nietzsche, la Volontà di sapere non suppone che una conoscenza esista già preliminarmente; la verità non è data in anticipo, ma viene prodotta come un evento»(37).
Cosa rimane di integro dopo i colpi di martello nietzschiani, e che beneficio può trarre Foucault dal richiamarsi a questo modello teorico? Egli non ha alcuna difficoltà a rispondere alla domanda. A suo giudizio, infatti, il metodo inaugurato da Nietzsche offre numerosi e importanti vantaggi, in quanto permette: «– di parlare di segno e d’interpretazione, della loro inscindibilità, al di fuori di una fenomenologia; – di parlare di segni al di fuori d’ogni “strutturalismo”; – di parlare d’interpretazione al di fuori d’ogni riferimento a un soggetto originario; – di articolare le analisi dei sistemi di segni sulle analisi delle forme di violenza e di dominio; – di pensare la conoscenza come un processo storico prima di ogni problematica della verità, e in modo più fondamentale che non nel rapporto soggetto-oggetto»(38).
Si può dunque concludere dicendo che, sia per Nietzsche che per Foucault, non si tratta di negare (in una prospettiva scettica) l’idea di verità in quanto tale, bensì di proporne una diversa concezione. Ad essere da loro valorizzata è una verità che occorre produrre anziché credere di scoprire come preesistente, una verità passionale piuttosto che freddamente oggettiva, una verità non settoriale ma tale da coinvolgere l’intera esistenza. Si capisce meglio, a questo punto, perché il filosofo francese, pur indagando in maniera genealogica sul costituirsi storico delle diverse forme della volontà di sapere, non abbia mai cessato di combattere, anche nei modi della militanza politica, per ciò che riteneva giusto e vero. Così, nel corso tenuto al Collège de France nel 1979-80, egli ha messo in chiaro la propria posizione, precisando che essa implica una contestazione del potere costituito più ancora che della verità: «Non è esattamente l’atteggiamento dell’εποχή, dello scetticismo, della sospensione di tutte le certezze o di tutte le posizioni tetiche della verità. È un atteggiamento che consiste, in primo luogo, nel dirsi che nessun potere va da sé […], che nessun potere, per conseguenza, merita di essere accettato fin dall’inizio»(39). In tal senso, appare significativo anche il fatto che egli abbia dedicato il suo ultimo corso all’esame della parrēsia antica, ossia della volontà di dire il vero pure quando ciò conduceva a sfidare le autorità pubbliche e le convenzioni sociali (come nei casi di Socrate e dei cinici). Il titolo di questo corso appare pertanto emblematico, e si presta a riassumere un po’ tutto il percorso intellettuale di Foucault: Le courage de la vérité(40).
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Note
(1) M. Foucault, L’ordre du discours, Paris, Gallimard, 1971 (tr. it. L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 1972).
(2) Ibid., pp. 10-11 (tr. it. p. 9; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
(3) M. Foucault, Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique, Paris, Plon, 1961; nuova edizione, col titolo Histoire de la folie à l’âge classique, Paris, Gallimard, 1972 (tr. it. parziale Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1963; nuova edizione completa, ivi, 2011).
(4) M. Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Paris, Gallimard, 1966 (tr. it. Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1967).
(5) All’argomento, Foucault ha dedicato un’importante conferenza, Qu’est-ce-qu’un auteur? (1969), in Dits et écrits, I, Paris, Gallimard, 2001, pp. 817-849 (tr. it. Che cos’è un autore?, in Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 1-21); quest’edizione in due volumi verrà in seguito indicata con la sigla DE.
(6) L’ordre du discours, cit., p. 32 (tr. it. pp. 24-25).
(7) Ibid., p. 53 (tr. it. pp. 39-40).
(8) Ibid., p. 56 (tr. it. p. 42).
(9) M. Foucault, La volonté de savoir, L’usage des plaisirs e Le souci de soi, Paris, Gallimard, 1976-1984 (tr. it. La volontà di sapere, L’uso dei piaceri e La cura di sé, Milano, Feltrinelli, 1978-1985).
(10) L’ordre du discours, cit., pp. 62-63 (tr. it. p. 46).
(11) I riassunti dei corsi (tranne quelli degli ultimi due anni, che non sono stati redatti) si possono leggere in un volume apposito: M. Foucault, Résumé des cours 1970-1982, Paris, Julliard, 1989 (tr. it. I corsi al Collège de France. I Résumés, Milano, Feltrinelli, 1999), ma figurano anche in DE e in coda ai singoli volumi già editi.
(12) M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France (1970-1971), suivi de Le savoir d’Œdipe, Paris, Gallimard-Seuil, 2011. Il corso si chiamava in effetti La volonté de savoir, ma al momento di pubblicarlo gli editori hanno scelto di adottare una formula più ampia, al fine di evitare l’omonimia col già citato primo volume dell’Histoire de la sexualité.
(13) Résumé du cours, in Leçons sur la volonté de savoir, cit., pp. 220-221.
(14) Ibid., p. 3. Il curatore del volume, Daniel Defert, cita nella sua postfazione (ibid., p. 262) il passo di una lettera scrittagli da Foucault il 16 luglio 1967, nella quale la medesima formula veniva usata in riferimento all’opera nietzschiana: «Leggo Nietzsche; credo di cominciare a capire perché mi ha sempre affascinato. Una morfologia della volontà di sapere nella civiltà europea».
(15) Ibid., p. 5.
(16) Aristotele, Metafisica, A, 1, 980 a, tr. it. Milano, Bompiani, 2011, p. 3.
(17) Aristotele, Retorica, I, 2, 1356 b, in Opere, 10, tr. it. Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 9.
(18) Leçons sur la volonté de savoir, cit., p. 14.
(19) Baruch Spinoza, Trattato sull’emendazione dell’intelletto, in Opere, tr. it. Milano, Mondadori, 2007, p. 25.
(20) Résumé du cours, in Leçons sur la volonté de savoir, cit., pp. 219-220.
(21) L’ordre du discours, cit., p. 23 (tr. it. p. 18).
(22) Su questo tema, cfr. Nietzsche, la généalogie, l’histoire (1971), in DE, I, pp. 1004-1024 (tr. it. Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, pp. 29-54).
(23) Préface (1961) a Folie et déraison, cit., in DE, I, p. 190 (tr. it. Prefazione alla prima edizione, in Storia della follia nell’età classica, 2011, cit., p. 45).
(24) Leçons sur la volonté de savoir, cit., p. 26.
(25) M. Foucault, Introduction à l’«Anthropologie» de Kant, in Emmanuel Kant, Anthropologie du point de vue pragmatique, Paris, Vrin, 2008, p. 68 (tr. it. Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in Immanuel Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, Torino, Einaudi, 2010, p. 81). Per l’appellativo citato fra virgolette, cfr. Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere, vol. VI, tomo II, tr. it. Milano, Adelphi, 1968; 1986, p. 119: «Anche il grande cinese di Königsberg era soltanto un grande critico».
(26) Leçons sur la volonté de savoir, cit., p. 28.
(27) Si veda quanto ammette nella lettera del 30 luglio 1881 a Franz Overbeck (in F. Nietzsche, Epistolario 1880-1884, tr. it. Milano, Adelphi, 2004, p. 106): «Sono assolutamente sbalordito, incantato! Ho un predecessore, e quale poi! Spinoza mi era quasi sconosciuto: il fatto che io ne abbia sentito ora il bisogno è stato un “moto istintivo”. […] Il suo orientamento complessivo coincide con il mio».
(28) Leçons sur la volonté de savoir, cit., p. 26.
(29) F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere, vol. V, tomo II, tr. it. Milano, Adelphi, 1965; 1991, pp. 224-225. La frase in latino («Non ridere, non piangere, né detestare, ma comprendere!») è una citazione non letterale dalla prefazione alla terza parte dell’Etica (cfr. B. Spinoza, Opere, cit., pp. 895-896).
(30) Leçons sur la volonté de savoir, cit., pp. 195-210.
(31) F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Opere, vol. III, tomo II, tr. it. Milano, Adelphi, 1973; 1980, p. 355.
(32) Leçons sur la volonté de savoir, cit., p. 197.
(33) F. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere, vol. VI, tomo II, cit., p. 323.
(34) Leçons sur la volonté de savoir, cit., p. 204.
(35) F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, vol. VIII, tomo II, tr. it. Milano, Adelphi, 1971; 1979, p. 43.
(36) Leçons sur la volonté de savoir, cit., p. 210.
(37) Ibid., p. 190.
(38) Ibid., p. 205.
(39) M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au Collège de France (1979-1980), Paris, Gallimard – Seuil, 2012, p. 76.
(40) Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France (1983-1984), Paris, Gallimard – Seuil, 2009 (tr. it. Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Milano, Feltrinelli, 2011).
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Consiglio a tutti di leggere con attenzione questo saggio. La parresia, il dire il vero, il coraggio, i cortocircuiti fra Nietzsche e Foucault: sono tutte parole dell’inattuale umano, non del triste attuale che ci soffoca; sono parole che ci aiutano a “essere” ancora.
L’ha ribloggato su Enchiridione ha commentato:
“Si può dunque concludere dicendo che, sia per Nietzsche che per Foucault, non si tratta di negare (in una prospettiva scettica) l’idea di verità in quanto tale, bensì di proporne una diversa concezione. Ad essere da loro valorizzata è una verità che occorre produrre anziché credere di scoprire come preesistente, una verità passionale piuttosto che freddamente oggettiva, una verità non settoriale ma tale da coinvolgere l’intera esistenza.”