La parola dell’occhio

Marco Furia
Marco Ercolani

Una felice eredità

Vivere un’immagine affinché altri, anche a distanza di secoli, la vivano a loro volta: ecco un dono che non ha prezzo”. In questa frase di Marco Furia, tratta dalla sua plaquette La parola dell’occhio (Edizioni L’Arca Felice, collana “In Limine”, Salerno 2012), è racchiuso il senso di questo prezioso libriccino, dove l’autore commenta dodici dipinti di pittori classici e contemporanei, viaggiatore innamorato di immagini lasciate a noi in eredità da artisti amici e affini.

“Se la conoscenza è il destino dell’uomo, l’arte sarà sempre sua preziosa alleata”. Furia elenca ponti, passi, castelli, vedute, nature morte, come fossero appena visti e subito ricreati dall’innocenza della sua parola, che li descrive e li evoca con elegante stupore: “la parola dell’occhio”. Ripercorre un mondo composito e multiforme dove inventare immagini è atto vitale fertile e inesauribile, che non smette mai di creare, nel presente e nel futuro, gli spettatori di quei dipinti. “Il suo scopo non è quello di approntare una ‘valutazione’ delle loro qualità stilistiche o della loro costituzione formale; il proponimento mira invece a far da coro, potremmo dire, alle medesime vibrazioni avvertite dai pittori nel momento della stessa creazione artistica” (Mario Fresa). Ormai lontano dalle prose acuminate e lancinanti degli esordi, Furia inventa, per sé e per noi, un piacevole e consolante illuminismo che lo rende wanderer, a suo modo walseriano, di capolavori dell’arte visiva, descrivendo la densità dei colori, la percezione dei chiaroscuri, i ritmi delle immagini. “È spesso compito degli artisti” – scrive il poeta genovese – “illuminare aspetti di cui con difficoltà si ammette l’esistenza, rendere palesi lineamenti che di solito si preferisce tenere nell’ombra”. Da Natura morta con stearica rosa di Henri Rousseau a Passo del S. Gottardo dal centro del Ponte del Diavolo di William Turner, da Casa in Provenza di Paul Cézanne al Ponte di Charing Cross di André Derain, da Veduta di Delft di Johannes Vermeer a Scampagnata di Maurice Vlaminck, il poeta descrive con dolcezza assorta le cose dipinte ma scava dentro ogni opera l’”ineludibile esigenza di un’ininterrotta tensione etica ed estetica”. La plaquette si chiude infatti così: “Il grido, talvolta, esprime più della grammatica”.
La verità di questa frase illumina a ritroso l’intero testo. Ci insegna che le immagini del pittore, se sono la gioia che ci nutre, gli “stati di coscienza, nuovi eppure antichi” profondamente radicati dentro di noi anche durante i secoli, sono anche la forma che ci commuove ogni volta come qualcosa di intenso e di nuovo, evento “sublime” ma disponibile, offerto ai nostri occhi attenti e alla nostra coscienza poetica. Furia sfida, in questa breve plaquette, l’egoismo e l’opportunismo dell’artista contemporaneo, e afferma: “L’arte, quella vera, non si dimentica degli altri”. L’arte, infatti, ci percorre sempre, come un vento di cui siamo alleati. E il poeta, il pittore, “ringraziano” chi li ha preceduti e chi li seguirà, in un’ideale comunità di esseri che non appartengono a nessuna legge stabilita, a nessuna ideologia prefissata, e si fanno cenni, con dipinti e parole, da mondi lontani nel tempo ma vicini nell’emozione (“gli artisti sanno guardare lontano”): cenni di amicizia, intimi e universali, che hanno come scopo soltanto la bellezza comune delle opere e del loro crearle: “La coscienza di un uomo può raggiungere dimensioni davvero immense e il gesto cosciente non soltanto rappresenta, soprattutto è”. (Marco Ercolani)

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(da: Marco Furia, La parola dell’occhio)

Turner, 1804

L’acquerello “Passo del San Gottardo dal centro del ponte del Diavolo”, dipinto da Turner nel 1804, è immagine ricca di vertiginosa inquietudine.
La scena non è rassicurante: una voragine rocciosa si apre al centro del quadro, mentre sul ciglio sinistro, lungo una stretta via illuminata dal Sole, due muli portano il loro carico protetti da un robusto muretto.
Visione romantica, certamente, i cui tratti propongono dimensioni colossali e indefinite, eppure improntate a un affascinante realismo.
La natura può essere incombente, può far sentire l’uomo minuscolo e inerme.
L’abisso, con quel suo sprofondare in un’ombra scura e ghiacciata, contrasta con i colori più chiari della scoscesa parete sinistra e con una piccola porzione di cielo solcata da nubi rosee ma anche fosche.
La situazione meteorologica è incerta, senza dubbio molto variabile: al balenare dei raggi solari potrebbero repentinamente seguire piogge gelide e perfino spruzzi di neve.
Sul lato sinistro, tuttavia, si svolge un comune itinerario di trasporto: le bestie da soma paiono portare il loro carico senza eccessiva preoccupazione.
Quel muretto, sotto il quale è stato aperto un corto arco al fine di consentire il libero scorrimento di un ripidissimo e sottile corso d’acqua, è sufficiente difesa.
E se, più avanti, il sentiero sembra privo di analoga protezione, possiamo immaginare che ciò sia dovuto al fatto di non riuscire a scorgere, data la distanza, taluni particolari.
Quanto all’artista, ci sembra quasi di vederlo sull’aereo ponte del Diavolo nell’atto di tracciare lo schizzo della veduta: al suo occhio fanno da contrappunto le sagome incurvate dei muli, verso cui egli guarda.
Dove non ci sono rocce, ghiacci, acque gelate e abissi, nei faticosi passi di due animali addomesticati, le pupille del pittore trovano un ancoraggio, una pausa, una tregua.
L’attività dell’uomo si mostra anche lassù.
Non si tratta di ottimistica valutazione delle umane capacità tecniche (che sarà propria, circa un secolo dopo, dei futuristi), ma d’intensa attenzione, consapevole e appassionata, nei confronti di un’emozionante convivenza di opposti.
Quotidianità e vertigine sono tenute assieme da un gesto, qual è quello dell’acquerellista, che può concedere ben poco alla correzione.
Più che di un pensare, si tratta qui di un esserci: quell’immagine è fisionomia, tratto di esistenza, vivido lineamento.
Anche noi indugiamo con lo sguardo sulla voragine e poi sul cammino non incerto che si svolge lungo il ciglio, anche noi da simile pausa troviamo l’energia capace di ritemprarci e permetterci di ritornare a osservare l’orrido.
I due mondi restano distinti eppure inscindibilmente uniti.
Sì, perché quel tortuoso percorso affacciato sul baratro non è più uno fra altri, bensì è proprio quello, ossia quei pigmenti, quell’acquerello opera della sensibilissima mano di Turner nel 1804.
Un 1804 che ora sentiamo non poi così lontano e che, per merito del dipinto, è entrato a far parte di noi, oltre le frontiere dello spazio e del tempo, grazie a una rappresentazione in grado di rivolgersi direttamente al nostro desiderio di sentire comprendendo, di avvicinare mondi e situazioni, di non fermarci di fronte a qualunque fenomeno o evento che possa arricchirci e, dunque, migliorarci.
Quei muli non esistono più, quell’esposto sentiero è in disuso, forse è in parte o del tutto scomparso, forse è inserito nell’elenco delle escursioni alpine della zona e, da molto tempo, nemmeno l’artista è più, eppure quell’immagine si rivolge a noi qui e ora, parla di un esterno che è anche un vivido interno, provoca emozioni attuali, presenti.
L’impegno richiesto non è quello riguardante un’indagine storica (di cui non si vuole escludere a priori l’importanza), ma quello di riuscire a essere assieme al quadro, a partecipare a un’esistenza che, lo avvertiamo distintamente, ci riguarda da vicino.
Anzi, che ritroviamo già là, quasi in attesa di un necessario riconoscimento.
La vita propria dell’opera d’arte non è mai fine se stessa, poiché si offre al rapporto con l’altro, allo scambio.
La mancanza di parola non deve ingannare, poiché ci sono forme di (profonda) comunicazione tali da non seguire le vie del comune linguaggio, eppure capaci di raggiungere quel nucleo persistente e privo di prefissati confini che è emozione, passione, interesse e, alla fine, spiccata attitudine alla conoscenza.
Se la conoscenza è il destino dell’uomo, l’arte sarà sempre sua preziosa alleata.

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6 pensieri riguardo “La parola dell’occhio”

  1. Grazie, Francesco. Lieto di vedere qui la mia nota di lettura alla bella plaquette di Marco Furia, nelle edizioni d’arte dell’Arca Felice.

  2. cè una grazia in questo libro, davvero singolare.Una grazia tutta luminosa in modo che l’occhio di chi osserva i dipinti proposti dall’autore- possa veramente “vederli” insieme a lui .
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