Giulia Corsino
Se in Italia si è giovani poeti fino a ben oltre i quarant’anni, quando si incontra una voce nuova e originale ben al di sotto di quella soglia è bene cercare di tenerla a mente e di darle rilevanza. E’ il caso di Giulia Corsino, autrice poco più che ventenne, siciliana di origine anche se oggi vive in Lombardia. Il suo esordio è estremamente precoce (il primo romanzo fu pubblicato quando la scrittrice aveva solo quindici anni), così come sostanziosa è la sua produzione in poesia, che si configura già ora come una raccolta pressoché compiuta. Da questo lavoro proponiamo i testi che seguono, dove si evidenziano le peculiarità della scrittura di Giulia Corsino: un utilizzo asciutto e consapevole della parola, una spiccata sensibilità verso il mondo degli affetti, la capacità di astrarre concetti profondi ma senza ricorrere alla sicurezza di una eccessiva razionalizzazione.
Diversificati fra loro appaiono anche i registri stilistici utilizzati, eterogeneità che deriva anche in parte dal fatto che le poesie presentate sono state estratte dalle sezioni di un lavoro più ampio. E’ vero che forse si può parlare di una direzione che, in questo senso, non appare ancora del tutto determinata; va però detto che, anche alla luce della giovane età dell’autrice, questa appare essere una potenzialità piuttosto che un limite. Ed è una potenzialità che già si realizza in modo compiuto in molte poesie, fra le quali spiccano anche quelle in un dialetto che si carica di una espressività aspra ed al tempo stesso affascinante. (ft)
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Testi
Il lampo
Al buio della stanza ti strappò,
scaraventando la sua cascata
di luce, il lampo. Scrosciando ricadde
nel ventre della terra e tu con esso.
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A Vincent, nel giorno del suo compleanno
Petrarca avrebbe scritto qualcosa
su questo anniversaire.
A me ricorda solo che le tre-cento
lune sono andate da quando
ascoltavo Schubert e vedi ora
la “riproduzione casuale” d’un programma Media Player
mi gioca un brutto tiro:
Schubert, ancora Schubert!
Pareva – ma non eri il solo,
certo – e più di tutti fosti
perché in fondo non sei stato.
Ciò che resta sempre uguale
– a parte Schubert inciso su vinile –
è il mio amore folle e indimostrato
che si nutre di se stesso e se stesso solo ama
in un altro (da sé), in un altro
ora che ho smesso la venerazione di te.
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Matina
Scurava. U celu mi parrava attonna
di lacrimusa motti e di carizzi
ca sanunu e sunu senza toccu.
Pinsava ca l’amuri nun pò siri
‘stu scogghiu cca allàtu e mi sintia
l’unna trasiri rintra. Ma ppi mia
era megghiu anniari
c’attaccarimi a quacchi autra banna.
Mattina
Faceva buio. Il cielo mi parlava ancora di morte lacrimosa e di carezze che risanano senza tatto. Sentivo che l’amore non può essere questo scoglio qua accanto e mi sentivo l’onda entrare dentro. Ma per me era meglio annegare che dovermi aggrappare a qualcosa.
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Cantu di l’emigratu
Cu ti lassa t’a trova,
cu ti peddi ti senti
di rintra, ‘nde vurèdda,
‘na figghia ca nun pò
vìriri a luci e l’ama
la matri puttànnula
‘ndo ventri ppi sempri cc’arìdda.
Mi facisti l’occhi niuri di suli,
mi facisti i manu ruri p’ammansàriti,
i peri chiatti p’anchiuvàrimi
a ‘sta terra tutta zùcchuru e petri.
I’e annùnca cu sugnu iu supra u mari
senza patrùni, ppe strati lisi,
mmenz’a ‘sta genti ca nunn’è schiava i nuddu?
Sugnu n’cardìddu i niru strabbiùtu,
nu bastàddu ca si strascìna appressu
‘na catìna i zàgari e pruvulàzzu,
sugnu n’omu ch’e gìgghia duppi,
ca talìa sulu ‘n terra
p’ammucciàri a vui a biddìzza rispiràta
ca m’a patturùtu ccu dulùri.
Canto dell’emigrato
Chi ti lascia ti trova,/ chi ti perde ti sente/ dentro, nelle viscere,/ una figlia che non può/ vedere la luce e l’ama/ la madre portandola/ nel ventre per sempre con sé./ Mi hai fatto gli occhi neri di sole,/ mi hai fatto le mani dure per ammansirti,/ i piedi piatti per inchiodarmi/ a questa terra tutta zucchero e pietre./ E allora chi sono io sopra il mare / senza padrone, per le strade consunte,/ in mezzo a questa gente che non è schiava di nessuno?/ Sono un cardellino di nido smarrito,/ un cane bastardo che si trascina dietro/ una catena di zagare e polvere,/ sono un uomo con le ciglia folte, /che guarda solo a terra,/ per nascondere a voi la bellezza disperata/ che mi ha partorito con dolore.
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Preghiera sul filo d’erba
Fammi morire a me stessa e rinascere
nel filo d’erba: mi calpesti il piede
di chi non si trattiene oltre il forse.
Trafiggi questi occhi, infrangendomi
ogni specchio: che abbia una finestra
affacciata su tutte le finestre
della terra; amare te in loro,
sapermi un nulla raccolto nel palmo
della tua carità, sentirmi assolta.
Spogliami d’ogni senso: mi confonda
nella pioggia d’un tenero mattino.
Sfaldami il cuore, scioglimi dai nodi
del pensiero e mozzami la lingua.
Prenditi il mio pudore e violentalo.
Abbattimi. E brucia fin la cenere.
Spargi tu la mia polvere inerte.
Quel che è rimasto legalo a una croce,
non darti cura però d’innalzarla.
Allora finalmente questo ghiaccio
potrà rigarsi di lacrime. Subito
ti ritroverò qua accanto, dove
sedevi da principio, ma avrai perso
la forma che ho lasciato: in te ancora
luce, ancora un uomo, ancora ognuno.
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Il vecchio Democrito
Tutto è scomponibile. Poi l’atomo
non lo vedo più. Non arrivo mai
a poter dire di aver visto tutto
o il tutto d’uno. Io stesso,
lo scomposto uomo di qualche lustro
nell’infinita generazione,
pretendo con l’esercizio di fare
a brani la mia carne e la mia mente,
per possederla, forse…?
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Dissociazione
Io al posto mio non l’avrei mai fatto.
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Chopin
Ipocrisia e disperazione.
Schiarite che allargano
il cuore
su orizzonti semi-vuoti,
agonie sublimi
e scale a chiocciola di cristallo
– smarrimento nell’attimo di pausa.
Vuoto mai.
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Rivoluzioni copernicane
Giovane eppure anch’io
ho avuto, sai, le mie rivoluzioni
copernicane, ho visto le idee
care cadere col fragore
del crollo e poi un giorno un risolino
– perduta la memoria del motivo –
io, necessariamente,
piccola nello specchio avevo torto
se gli eventi non dettero ragione
a me. È nel presente
– quando la nostra idea è ancora in trono –
che siamo giusti, ma per il presente,
s’intende.
***
Inquietudini
La suoneria di un
cellulare, la brace
di una sigaretta
mentre l’aereo è in volo,
gli occhi dello sconosciuto
che ti fissava
già da un pezzo
dietro la vetrina.
***
una nuova voce di poeta, veramente forte, fremente e controllata.
Grazie a Francesco Tomada per la scoperta e,ovviamente, a..Francesco Marotta che saluto con il cuore
l.f.
la descrizione di Chopin è…una scultura di cristallo :-)
complimenti all’autrice rivelata!
e agli interrogativi sempre da interrogare…
Splendida “Preghiera sul filo d’erba”. Una parola fisica, che tocca
veramente ciò che dice. Leggendola mi è venuta in mente la poesia di Nadia Campana…non so se c’entra, ma a me ha fatto lo stesso grande effetto. Un caro saluto a tutti e complimenti a Giulia Corsino.