William Carlos Williams
These
are the desolate, dark weeks
when nature in its barrenness
equals the stupidity of man.
The year plunges into night
and the heart plunges
lower than night
to an empty, windswept place
without sun, stars or moon
but a peculiar light as of thought
that spins a dark fire –
whirling upon itself until,
in the cold, it kindles
to make a man aware of nothing
that he knows, not loneliness
itself – Not a ghost but
would be embraced – emptiness
despair – (They
whine and whistle) among
the flashes and booms of war;
houses of whose rooms
the cold is greater than can be thought,
the people gone that we loved,
the beds lying empty, the couches
damp, the chairs unused –
Hide it away somewhere
out of mind, let it get to roots
and grow, unrelated to jealous
ears and eyes – for itself.
In this mine they come to dig – all.
Is this the counterfoil to sweetest
music? The source of poetry that
seeing the clock stopped, says,
The clock has stopped
that ticked yesterday so well?
and hears the sound of lakewater
splashing – that is now stone.
(Da: Collected Later Poems, 1951)
Queste sono
le desolate cupe settimane
quando la natura, arida, eguaglia
l’umana vacuità.
L’anno affonda nella notte,
ma più giù che la notte il cuore affonda
fino a una vuota plaga
corsa e corsa dal vento
senza luce di sole stelle o luna.
Solo è una luce, come di pensiero,
e tetro un fuoco ne serpeggia,
mulinante, che freddo
avvampa infine in consapevolezza
di nulla che si conosca
e non è solitudine nemmeno
– anche uno spettro lo si abbraccerebbe –
vuoto, disperazione…
(e chi geme, chi sibila…) tra i lampi
e i tuoni di guerra:
case che oltre il pensabile
hanno fredde le stanze,
partita la gente che amammo
e vuoti i letti, umidi i divani,
le poltrone deserte.
Nascondile queste cose dove ti pare,
che mettano radici via dalla memoria
e crescano lungi da occhi
ed orecchi gelosi,
senza rapporto, sole.
Tutti a questa miniera vengono a scavare.
E’ questa la matrice
della più dolce musica? La fonte
di poesia che dice,
se l’orologio è fermo,
fermo è l’orologio che ieri
scandiva gli attimi
così sicuro?
E battere ascolta
il fiotto dell’acqua lacustre
che ora è pietra.
(Traduzione di Vittorio Sereni)
***
Non desta meraviglia (piacevolmente tutt’altro) il post che Francesco Marotta
ha dedicato a William Carlos Williams e, in particolare, a questa poesia. Francesco si è riferito sicuramente, come molti o pochi altri di noi, al libro che Einaudi pubblicò nel lontano 1961 sulle “Poesie” del poeta americano, tradotte e presentate da Vittorio Sereni e Cristina Campo. Stiamo parlando di grande poesia e di un grande poeta, per chi non l’avesse inteso, ma la scelta di Francesco per Williams è ancora più profonda di quello che sembra. Willima Carlos Williams (1883-1963)
ha rappresentato non solo il riscatto ma addirittura la fondazione della poesia americana agli albori del Novecento per i primi cinquant’anni del secolo scorso. Con Williams, e in prospettive e posizioni stilistiche diverse, ci ritroviamo in un’eccitante compagnia di poeti: da Robert Frost ad Allen Tate, da Marianne Moore a John Ciardi, ad E.E. Cummings. Nel libro citato sono inequivocabili “Due letture” di Cristina Campo: Williams viene letto dalla curatrice-traduttrice come un poeta cinese, “un archetipo dell’artista libero dal suo tempo e dal suo spazio”. Detta così, questa definizione sembra attagliarsi a qualsiasi poeta giacché ogni poeta aspira a liberarsi del tempo e dello spazio che gli sono prossimi e che probabilmente lo opprimono, lo condizionano, ne bloccano la scrittura. Williams, però, ci metteva anche del suo per sentirsi e volersi indipendente: di origine caraibico (per parte di madre, a sua volta di sangue spagnolo) e inglese (per parte di padre), fu un poeta riservato e scrupoloso, attento a dividere il suo lavoro di pediatra-ginecologo dal suo impegno poetico, vissuti entrambi al numero 9 di Ridge Road a Rutherford nel New Jersey. Una vita solitaria, quella di William Carlos Williams, che si riscopriva nei versi (“Collected Poems”, 1921-31) pregnante e caustica nella sintassi metrica (diremmo con neologismo: “disappuntata”), nella schietta e fulminante trasformazione della singola parola, della singola sequenza – secca, limpida -, di una consapevole e vigile asciuttezza semantica. Vittorio Sereni sottolineava come la poesia di Williams fosse una poesia che fa nascere le idee dalle cose (no ideas / but in things) e se anche questo può sembrare ovvio e prevedibile in un poeta qualsiasi, resta da dimostrare perché allora molti poeti contemporanei presumono di fare a meno dalla complicazione di intenti e sentimenti, fermandosi (un po’ sciattamente) all’epifenomeno di se stessi.
Non c’è nulla di più “semplice” nell’architettura criptica e capziosa di Williams: tutto si concentra e si espande: un fiore, un paesaggio, un lago, una riflessione. E non c’è nulla che voglia essere a tutti i costi lirico. Ma cosa c’entra tutto questo con Francesco Marotta? Perché ha scelto questa poesia (“These”) e questo poeta? Chi conosce Francesco come poeta (al di là dell’uomo di cultura e dell’amico) non ha difficoltà a rispondere: anche in Francesco Marotta c’è la stessa, sospesa e rigenerante, distaccata e penetrante illuminazione del reale e del presente e Francesco Marotta è un poeta di oggi.
Antonio