L’arte del monologo
Diciamo la verità: un drammaturgo ricorre al monologo quando non sa come procedere nell’azione e quindi nella stesura di una commedia o di un dramma. Il monologo teatrale spezza appunto l’azione, alterandone la continuità spazio-temporale e rimodulandone l’impianto drammaturgico. Sorprende e talora sconcerta scoprire all’interno di una sequenza drammatica questa sorta di “fermo-storia”, quest’interruzione nel flusso narrativo di una vicenda.
I drammaturghi concepiscono solitamente il monologo come una pausa di introiezione e lo configurano come strumento stilistico (o artificio scenico) necessario per riannodare i temi della storia, per accordarli espressivamente alle potenzialità della recita, affidandone la resa spettacolare al personaggio di maggior peso, cioè il protagonista.
Il monologo teatrale è, dunque, uno strumento drammaturgico il più delle volte spontaneo e autosufficiente, è quell’artificio scenico che rinfocola l’azione del dramma, è un trucco che l’autore confeziona come per dichiarare “a parte” – prescindendo per un attimo dalla storia – le proprie intenzioni sull’opera che ha scritto e che presenta al pubblico. È una struttura, o sotto-struttura, a sé stante, il monologo: nasce come “soliloquio” (il personaggio parla a se stesso, come fa ad esempio Amleto) e diventa più propriamente “monologo” quando il personaggio parla ad altri o addirittura al pubblico.
La condizione elettiva del monologo teatrale è che il personaggio – vale la pena ribadirlo scolasticamente – sia solo in scena: la solitudine del personaggio è necessaria per i fini drammaturgici ed espressivi che l’autore enuncia e intende perseguire. Erano soli, d’altra parte, i narratori (corifei, aedi, simulacri delle divinità) che introducevano gli avvenimenti e i personaggi nelle tragedie e nelle commedie dell’età di Sofocle e di Aristofane. Quei narratori svolgevano il doppio ruolo di anticipatori degli eventi (creavano cioè l’approccio alla vicenda scenica, stimolando l’ascolto e l’attenzione degli spettatori) e di prefatori di quegli stessi eventi di cui fornivano una prima lettura critica o, semplicemente, un vademecum di percezione. Il monologo di quei prefatori conteneva già il germe di un’autonoma struttura stilistica e drammaturgica, presentandola cioè come una componente non casuale dell’opera, secondo un dettato estetico che l’avvicinava molto alla poesia, alla recita di una poesia didascalica.
In questo senso, il soliloquio si evolveva: da occasionale elucubrazione, intima e individualistica, diventava esternazione poetica all’interno di un evento drammatico. In pratica, cioè nella pratica teatrale, il monologo acquisiva il carattere di una cesura necessaria nel continuum drammaturgico: superando la dimensione della riflessione sottaciuta dilagava come momento autocritico della vicenda e ne puntualizzava gli intenti e gli scopi, la complessità e la bellezza. Non sempre, pertanto, il monologo era una frattura irrisolvibile nel percorso narrativo: si inseriva anzi in quella struttura di base magnificandola, esplorandone le risorse espressive, rinforzandone la qualità scenica.
Aveva bisogno di grandi interpreti, il monologo: diversamente, con interpreti mediocri, si assisteva e si assiste tuttora ad una raffazzonata “tirata”, confezionata da attori cagneschi per procurarsi fiacchi applausi di sortita.
La verità è che il monologo si caratterizza per la sconfinata libertà e la specialissima capacità di affabulare, di tenere insieme pretesti e sviluppo di una trama, di raccontare per invenzioni escatologiche, di rendere vivi e presenti i fantasmi dell’immaginazione e di coniugare, e a volte di far coincidere, la realtà oggettiva con quella, intricata e tuttavia esplorabile, del pensiero, del ricordo, dell’invettiva, della solitaria illuminazione. È il regno, il paradigma dell’affabulazione (Pasolini), di quella seducente e non facilmente imitabile captazione immediata del senso, di quel senso che, al di là dei significati che pure produce, aleggia per la scena, sul pubblico e nel carisma dell’interprete che assume su di sé il non comune compito di esprimere tanta energia.
Storicamente, i drammaturghi si sono dedicati al monologo (ne hanno cioè potenziato l’essenza e la divulgazione) allorché scoprirono che insistere su una scena fissa e con un solo personaggio era una sfida più che un ripiego, catalizzava l’attenzione del pubblico su un modulo espressivo che richiedeva profondità e accuratezza nella stesura, arieggiando un parlato che doveva solo sembrare confidenziale ma che doveva imporsi, piuttosto, come fatico e talvolta catartico.
Ci sono sempre stati dei monologhi, c’è sempre stato uno ”spazio libero” tra i dialoghi nelle rappresentazioni teatrali, ma quello spazio era considerato, dai capocomici–autori, spurio e fortuito. Serviva talora ad aspettare che spettatori ritardatari prendessero rapidamente posto o che l’atmosfera creata dall’imminente recita fosse calorosa e disponibile da parte del pubblico. Quello spazio libero veniva riempito, a vario titolo, con un brevissimo sunto della vicenda che si andava a rappresentare o con considerazioni personali dei capocomici su argomenti e pretesti più disparati. Siamo nella Commedia dell’Arte, nella consuetudine del parlare a braccio, seguendo saltuariamente un esile canovaccio. Ma era comunque un parlare da soli, un’impervia ma accattivante tentazione di dire qualsiasi cosa, di straparlare, di sproloquiare, alternando o fondendo il registro comico a quello grottesco e a quello drammatico (il grammelot nasce da queste interferenze).
Con i capocomici che cominciarono a ordinare i loro innumerevoli brogliacci (storie, fantasie, facezie) e con i drammaturghi che cominciarono a sostituirsi ai capocomici (e quindi a regolare lo spontaneismo scenico sulle linee di un copione da seguire), il monologo cominciò a diventare, come si è detto, un artificio e non più un espediente, da considerare proficuamente per lo sviluppo di un plot e per la resa scenica di un momento intimo, di un’azione raggelata nel suo intrinseco e misterioso divenire.
La drammaturgia elisabettiana del Cinquecento aveva più volte fatto ricorso al monologo, sia nella versione chiusa del soliloquio, sia in quella più esplicita e intensa del percorso drammaturgico da promuovere. In realtà, si passava da una configurazione nucleare ad un’altra, da un’espressività racchiusa nell’interiorità di un personaggio (Amleto) ad un’espressività che faceva parte stavolta della vicenda rappresentata (il folletto Puck del Sogno di una notte di mezz’estate), dell’evento scenico (il fatto) che non poteva compiersi e manifestarsi se non col suo farsi (il play).
Il monologo diventava così sincronico con la storia e ne suggellava poeticamente la complessità del messaggio. Ed era, quindi, atteso. Si allontanava il nuovo monologo da un teatro di lettura (il Closet Drama Play), riscattandosi dalla piattaforma enfatica dell’interludio (un intermezzo di raccordo e di supporto) ma si distingueva anche da quel teatro didattico e perbenista che si prefiggeva di emendare colpe o smanie inconfessabili (Morality Play).
Molti teatranti (francesi, italiani, inglesi, spagnoli) lo usavano come sermone per catechizzare o eccitare “anime prave e deboli” ma non sapevano e forse non si rendevano conto che stavano usando uno stilema drammaturgico di grande impatto scenico, una struttura estetica autonoma e originale. Si cominciò a definirlo “drammatico” il monologo, per compenetrarlo compiutamente nell’ordito conflittuale della vicenda scenica ma era una definizione ridondante. Al di là della connotazione drammatica, il monologo acquista una fisionomia e un linguaggio suoi propri: interrompe e riprende l’azione, riassume e riconverte l’emozione dell’ascolto, dà lustro e ampiezza agli “sconfinamenti poetici” del drammaturgo e, non ultimo, consolida ed esalta la tecnica e la bravuta dell’attore o dell’attrice chiamati ad interpretarlo. Autori come Alfred Tennyson o Robert Browning si cimentano nel monologo tra Ottocento e Novecento, ma molto prima di loro ci avevano provato con insuperabile maestrìa Molière (Tartufo) e Edmond Rostand (Cyrano) e ci proveranno Luigi Pirandello (nel pressoché monologo de L’uomo dal fiore in bocca), Anton Cechov (Fa male il tabacco), Samuel Beckett (L’ultimo nastro di Krapp), Harold Pinter (Terra di nessuno), Eduardo De Filippo (Questi fantasmi!).
Si è soli o quasi soli in scena e si parla di situazioni di vita che riguardano poi alla fine il proprio vissuto, o l’idea che si ha del proprio vissuto, riacciuffato e ripresentato attraverso la febbrile filigrana dell’intermediazione psicologica, per una trasparente e indocile autorappresentazione.
Ivàn Ivànovič Njuchin di Cechov (di Fa male il tabacco) comincia a parlare del tema della conferenza – i danni provocati dal tabagismo – ma finisce per parlare dell’insofferenza e del fastidio che gli procura la moglie ossessiva. Così Spooner di Pinter (da Terra di nessuno) discetta a più riprese sulle potenzialità mistificatorie o evolutive della metafora, di quella figura retorica o di quel modo di dire convenzionale che si appiattisce appunto nella convenzionalità del dire, nella chimerica smania del pensare. Così Pasquale Lojacono di Eduardo (da Questi fantasmi!) che sul balcone illustra al suo dirimpettaio, il muto professor Santanna, la squisitezza di una tazza di caffè preparata in un pomeriggio tranquillo mentre si agitano, a sua insaputa, trame e personaggi di una relazione adulterina che il buon Lojacono non coglie se non come benefica apparizione di un munifico fantasma domestico. E così sarà per i drammaturghi più cupi e introversi (Strindberg, Beckett, Schnitzler) che concepiranno soliloqui interrotti e ricorrenti, brevissimi o lunghissimi, contrappuntati da una scansione scenica e narrativa diremmo subliminale, dominata da un’agnizione amara e disperata della realtà e del vivere.
Nel monologo cosiddetto drammatico del Novecento si contempla persino la sfiducia del drammaturgo verso il teatro nella sua unicità e nella sua “utilità” estetica. Si affaccia una sfiducia nell’autore, un pessimismo irreparabile che contamina il linguaggio, rendendolo aereo e destrutturato per una poetica che travolge e riconfigura l’unità scenica del luogo e dell’azione, consegnandola ad un nonsense figurativamente espressivo (quello che Martin Esslin definì “Teatro dell’assurdo”). Ma in questa spoliazione testuale (o, per meglio dire, del meta-linguaggio testuale), il monologo resiste in brevi accordi, in sequenze reiterate, come ultimo baluardo del dire, del comunicare e, con maggiori difficoltà, del recitare.
Il monologo diventa preponderante su tutto il resto del copione, lo rivitalizza e se ne discosta per tornare a essere, qui e là, illuminante come collante necessario di quel coacervo verbale-gestuale che è un testo teatrale. Il monologo drammatico non poteva non diventare (o non poteva non tornare ad essere) compiutamente letterario nel monologo interiore nei romanzi di James Joyce, di Virginia Woolf, di Robert Musil, di Marcel Proust. Stavolta è un “parlare a se stessi” depositato nella forma scritta, destinato a essere letto e non più ascoltato, a stabilire quell’ideale identità o complicità che solo la lettura – una lettura certamente impegnativa e a volte errabonda – stabilisce tra chi ha scritto e chi apprezza appunto leggendo.
E gli attori come intendono e come affrontano un monologo? Di solito gli attori sono restii a cimentarsi in quest’avventura scenica che, come tutte le avventure, nasconde insidie e riverbera limiti. Non è facile stare sulla scena da solo per un tempo che soltanto la bravura dell’interprete può dilatare o circoscrivere in una fruizione partecipativa da parte del pubblico. Il monologo impegna vocalmente e fisicamente un attore: c’è un ritmo interno al monologo da rendere come se fosse spontaneo mentre sappiamo benissimo che spontaneo non è. Trae in inganno il parlato dell’interprete, con l’illusione che tutto venga “improvvisato” al momento e, di sicuro, l’improvvisazione è un ulteriore artificio che l’attore “aggiunge” alla partitura di un testo da e per monologo. Grandi interpreti hanno magnificato il monologo elevandolo a spettacolo completo in versioni davvero sontuose, con l’ausilio di ricordi personali, di divagazioni extra-testuali, di canzoni, di pantomime. Basti pensare alle performance di Vittorio Gassman (Camper), di Carmelo Bene (Pinocchio), di Luigi Proietti nel celebre A me gli occhi, please di Roberto Lerici.
E nel monologo (o col monologo) si sono impegnati negli ultimi anni moltissimi attori e attrici: alcuni di prestigio, altri di rincalzo o per imitazione. Sia gli uni che gli altri hanno inaugurato quella stagione di interpreti monologanti che ha contraddistinto spettacoli di arte varia di tipo auto-referenziale (non tutti eccellenti) che va sotto il nome di One-Man Show. L’essere soli sulla scena, con un testo composito da rappresentare in solitudine (dire-parlare-cantare), ha scoraggiato e incoraggiato gli interpreti per motivi che sono intuibili (durata e arditezza dello spettacolo, consunzione e volgarizzazione del genere) ma tutto, ovviamente, ricade e si giustifica sul e dal testo che si rappresenta, dalla regìa innovativa che disciplina la resa scenica e dall’attore o dall’attrice che si accolla tale fatica, che tende ad essere sempre più congrua e selettiva. Un mirabile esempio di testo composito o di monologo dai molteplici registri è stato il “Teatro Canzone” del compianto Giorgio Gaber. Anche gli spettacoli che allestisce Arturo Brachetti, tra travestimenti e colpi di scena, sono monologhi performativi, come lo sono gli spettacoli dei “Momix” o “Le Cirque du Soleil” tra mimo e acrobazia, come lo è Roberto Benigni quando, da solo, illustra e legge i canti danteschi della Divina Commedia.
Surclassato o abusato dagli intepreti maschili, il monologo ha trovato fortuna anche tra le attrici che hanno scelto di confrontarsi temerariamente con questo tipo di progetto scenico. Le attrici avevano già incontrato brevi monologhi (o lunghe dissertazioni) nel repertorio classico moderno (da Le tre sorelle di Cechov a La donna del mare di Ibsen) ma hanno scelto di impegnarsi sulla scena quando si sono imbattute in scrittrici di inarrivabile spessore (Anna Maria Ortese, Natalia Ginzburg, Elsa Morante) oppure in storie e suggestioni più propriamente personalistiche come “I monologhi della vagina” del 1996 della scrittrice newyorchese Eve Ensler. Bisogna dire che “I monologhi della vagina” – portati sulla scena in Italia, fra le altre, da Marina Confalone, Claudia Gerini, Anna Bonaiuto e, in giro per il mondo anglo-sassone, da Susan Sarandon, Whoopi Goldberg, Glenn Close – hanno costituito una sorta di happening esistenzialistico più che di spettacolo teatrale vero e proprio, per i valori di denuncia sociale del machismo e di quello che oggi tristemente chiamiamo “femminicidio”.
L’attenzione e la sensibilità delle nostre migliori attrici hanno consentito spettacoli dai risultati non convenzionali e non scontati per un repertorio “femminile” che di fatto è secondario rispetto a quello maschile ma prove di riscatto e di libertà non sono mancate (e vi rientra, in queste occasioni di identità, il breve monologo di Filumena Marturano di Eduardo quando la protagonista racconta l’umiliante passato di serva-amante).
Resta da chiedersi com’è che si scrive oggi un monologo ma bisognerebbe chiederlo ai drammaturghi per sapere se scrivere un monologo risponda ad un’esigenza estetica primaria o se non costituisca, per la crisi degli allestimenti teatrali, una scelta superstite, un’opzione di sopravvivenza. È una questione spinosa che tutti, alla fine, tendono a nascondere o evitare, anche perché, per i drammaturghi, parlare di monologhi e poi scriverne è più prossimo ad una solitudine oggettiva che a quella metaforizzata sulla scena. Il monologo dell’io, in fondo, è sempre più scorbutico e scontroso da rappresentare: è un artificio e, come tale, rischia di essere tanto agevole quanto incompleto e occasionale, come succede a volte a tutto ciò che si scrive.
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Un testo molto interessante. E sarebbe interessante anche approfondire l’eventuale relazione (citata alla fine di questo testo) che lega l’attuale crisi teatrale, soprattutto per quel che riguarda la mancanza di fondi economici, con la decisione dell’artista, consapevole o inconsapevole, di costruire la propria opera in forma di monologo. Ricorderei anche, tra i monologhi importanti più recenti, “Scemo di guerra” di Ascanio Celestini, a mio parere uno spettacolo di qualità molto elevata.
Grazie, Antonio.
Cento e ancora cento e cento di questi post!
RS
Antonio carissimo,
conoscendo il tuo amore e la grande passione per ilTeatro, scritto, diretto, insegnato, posso dirlo?, c’era da aspettarsi un post come questo. C’è sempre da imparare dai tuoi scritti perchè dopo averli letti, ci accorgiamo che molto mancava alla nostra precedente conoscenza. per questo ti ringrazio ed ogni tanto, quando vado a rileggere qualche tuo testo, mi rendo conto che, nel passato quando mi sopno cimentata in qualche commedia per il popolo tutto, o in qualcosa che pensavo, ma solo perchè qualcuno me lo aveva detto,fosse drammaturgia, mi rendo conto che ci vogliono mezzi e strumenti culturali non indifferenti per affrontare alcuni generi letterari. così, ma è ovvio che ognuno di noi dietro quello che riesce a produrre, ha una storia personale che non sempre può inglobare una conoscenza alta, mi ritiro come un gambero e ti rendo l’onore che meriti perchè, come del resto per tutti i tuoi post, in una manciata di minuti apprendo concetti che sembravano scontati e che invece non lo erano.
L’arte del monologo, sulla quale hai dissertato così bene, mi fa pensare che, quelle volte che sono riuscita ad ascoltarne qualcuno e mi sono annoiata, è stato perchè,in effetti, arte non era.
Anch’io, come Francesco, ti auguro altri cento splendidi post.
A entrambi il mio abbraccio di cuore
jolanda
Eduardo De Filippo era solito dire: “Credi di far teatro e ti accorgi che non è come pensi”. Quante volte si è ripresentata questa massima, o questa iattura, nella mente e nella coscienza di chi si dispone a far teatro o si prefigge di far teatro?
Tante volte, cioè sempre. E allora che cos’è far teatro? Scrivere, certo, ma non basta: bisogna saper “scrivere teatro” e non limitarsi ad una maestrìa o a un’abilità compositiva. Per il teatro scrivono i battutisti (quelli che coniano battute, slogan, aforismi), scrivono i teatranti in senso lato (dagli attrezzisti col sacro fuoco dell’arte agli attori che non si fidano degli autori), scrivono i giornalisti, i critici, i registi. Per carità, tutti hanno diritto a esprimersi, ci mancherebbe: non mi sorprende sapere di “uno” che si sveglia la mattina e scrive una commedia: il sospetto mi attanaglia quando questo novello autore si sveglia e scrive una commedia la seconda, la terza mattina, come se scrivere dipendesse da come ci si sveglia… Questa prolusione è per aver apprezzato, innanzi tutto, e poi per ringraziare, Jolanda Catalano per la sua sommessa e coraggiosa dichiarazione di “spontaneità” (molto verace e cordiale) nei confronti della scrittura teatrale e di tutto ciò che la scrittura teatrale, per forza di cose, nasconde al pubblico o ai neofiti del teatro. Personalmente ammiro i filodrammatici che fanno teatro con molta passione e tanti sacrifici ma quello è un teatro di ricalco che diverte o commuove sul tracciato già sperimentato del teatro d’autore o, semplicemente, del teatro consolidato al repertorio e ai gusti del pubblico. Gaetano Failla si chiede con garbo che relazione ci sia tra scrivere per esempio monologhi e la fattibilità scenica di questi progetti… Come rispondere a questo quesito in modo soddisfacente? Potrei pormi questo questo problema: a un salumiere che ci sta impacchettando cinque-sei bocconcini di mozzarella chiederemmo mai se quei bocconcini sono in grado di sostituire una prosperosa mozzarella di bufala?
O a un venditore di calzature chiederemmo se le scarpe da ginnastica che ci sta vendendo potremmo usarle anche per una cerimonia come un funerale? O alla banca chiederemmo se una pensione minima di seicento euro potrà mai far accendere un mutuo per l’acquisto di una casa di lusso? Non sembrino irriverenti gli esempi che ho contemplato né sembri odioso e fuori luogo l’atteggiamento derisorio che li ha ispirati. La verità è un’altra e riguarda la dimensione sociale e produttiva, fiscale e finanziaria di chi scrive per il teatro o di scrive tout court. È la dimensione di un lavoro che talvolta si fa con mestiere e talvolta con intenti più profondi. La fattibilità realizzativa di un monologo non riguarda quasi mai il testo ma altri fattori, tutti necessariamente imprescindibili. Per dire, i bocconcini valgono una mozzarella, le costose Nike un funerale e una striminzita pensione è per la banca una ghiotta occasione di accumulazione. E allora se non è il testo a stimolare la fattibilità scenica, a che cosa bisogna ascriverla quest’opportunità? Semplice: al sistema-teatro com’è concepito oggi. Il sistema-teatro è composto da neofiti, dilettanti, maneggioni, favoriti e qualche volta da autori veri e propri. I monologhi non riducono i costi di una messinscena solo perché c’è un solo attore sulla scena; i monologhi sono spettacoli completi come tutti gli altri (lo esige anche la Siae) ma hanno bisogno di tante circostanze favorevoli per potersi inserire nella programmazione di una stagione teatrale. Hanno bisogno di interpreti di prestigio o di richiamo, di allestimenti accurati e possibilmente innovativi, di una politica teatrale che invogli il pubblico a teatro. Poi, magari, viene in risalto il testo, ma solo dopo e non necessariamente. Beninteso, tutto ciò è perfettamente nella norma del teatro italiano di oggidì. Quanto alla qualità elevata di spettacoli o interpreti vige una consuetudine tacita fra i teatranti italiani: mai esprimere giudizi di valore sui colleghi autori. È una forma di ipocrisia, certo, ma è perfettamente compatibile con il seme germinativo del teatro: la maschera – ύποκριτής – è fondante, rassicurante, consolatoria, per chi l’adopera e chi la subisce. Il guaio o la colpa è che a fare la storia del teatro non sono quelli che scrivono sulla propria pelle ma quelli che scrivono sulla pelle degli altri (certi critici, certi prof universitari, certi registi, etc.etc.).
Eduardo De Filippo l’avrebbe definita una “zarzuela”: responsabilmente la definisco una decadenza ma si combatte anche quella, anche oggi, nonostante tutto.
Grazie per la pazienza a Jolanda Catalano e a Gaetano Failla.
E grazie a Reb Stein che mi lascia la libertà non solo di scrivere ma di testimoniare per cento volte. La gratitudine non è un modo di dire: è stato un modo di essere per queste cento volte.
Antonio