Il divenire di un’alba
Ci sono spettacoli della natura silenziosi e minimi, privi di effetti strabilianti, pacati e leggeri da passare per ovvi e irrilevanti. Ci sono poi osservatori attenti e frugali che assimilano quegli spettacoli come facendo finta di impossessarsene voracemente, lasciando agli occhi il compito di ispezionarli nella loro completezza e al respiro e al pensiero di stabilire una comunicazione, un bisogno di compiutezza.
Alfonso Gatto (1909-76) scrisse questa poesia nella raccolta La memoria felice (1937-39):
Un’alba
Com’è spoglia la luna, è quasi l’alba.
Si staccano i convogli, nella piazza
bruna di terra il verde dei giardini
trema d’autunno nei cancelli.
È l’ora fioca in cui s’incide al freddo
la tua città deserta, appena un trotto
remoto di cavallo, l’attacchino
sposta dolce la scala lungo i muri
in un fruscìo di carta.
La tua stanza
leggera come il sonno sarà nuova
e in un parato da campagna al sole
roseo d’autunno s’aprirà.
La fredda
banchina dei mercati odora d’erba.
La porta verde della chiesa è il mare.(1)
Proviamo a immaginare il momento e il luogo dove si compie quest’evento: il momento non è quello di un verso – “è quasi l’alba” – ma, d’altra parte, neanche il titolo è assoluto, è relativo ad un insieme di altre occasioni, di altri pensieri, di tante altre albe. È indeterminata quest’alba che ci racconta e ci rappresenta Alfonso Gatto: è una fase del giorno che abitualmente ci perdiamo ancora dormendo a quell’ora, ma se lavoriamo di notte o abbiamo passato la notte insonni, riscopriamo quanto sia quieto e nuovo il far del giorno. Ogni alba annuncia un giorno diverso, ogni alba illumina o nasconde qualcosa in più e ogni alba si condensa e si confonde (stimola ed accentua) con il luogo dal quale assistiamo al suo farsi.
L’alba ha fugato la notte, ha rischiarato l’altra natura (quella della terra e del mare e non solo quella del cielo), ha illuminato con la sua luce livida i colori che la notte aveva assoggettato in un’unica tonalità di nero, di grigio, di scuro. Non sono ancora i colori chiassosi del giorno ma sono come rianimati, risvegliati da un docile torpore. La luna è spoglia perché il suo candore d’argento si è sfaldato con il chiarore dell’alba, si è svestita del suo abbagliante lume notturno e impallidisce nel suo contorno ormai diafano. Questo è il momento dell’alba ma qual è il luogo dove avviene lo spettacolo? Dov’è Alfonso Gatto a guardare tutto ciò che avviene in un tempo così breve? Potrebbe essere nella natìa Salerno, a ridosso di una collina e da lì osservare giù in basso i treni di una ferrovia, oppure trovarsi alla marina di Orbetello (dove infelicemente morì) o ancora sulle terrazze coltivate della costa ligure. O, semplicemente, in un paesaggio mediterraneo dove si mescolano l’antico e il nuovo, il vecchio e il moderno: convogli ferroviari che vengono scomposti per ordinare altri treni, giardini che cominciano a risplendere di verde nella piazza che stempera lentamente il manto oscuro che ancora la incolora, mentre l’autunno si fa sentire, già di primo mattino, nel cigolìo dei cancelli che vengono aperti per le fabbriche, le case, i depositi.
È un’ora intensa e breve quella dell’alba: si presenta piena di presagi e aspettative ma tutto si risolve e si consuma in pochi attimi. La luce da fioca diventa netta, i rumori non sono più sordi ma vibranti e basta un trotto di cavallo di un calesse solitario o del carretto degli ortaggi, lontano nel tempo e nello spazio, a far lievitare e precipitare la memoria di altri tempi, di spazi lontani. La città si risveglia ancora sparuta nelle sue figure mattiniere: l’attacchino che sparge la colla e stende i manifesti ai muri con dolcezza, come se stesse affrescando un tempio, operai e impiegati che attendono un autobus o rifare a piedi il percorso di ogni giorno per andare a lavorare. E tu, noialtri, che magari ci attardiamo a letto dopo una notte di pensieri e propositi, ci faremo sorprendere ancora una volta da un sonno tardivo nella nostra stanza inondata da questa luce leggera, che ci sembrerà via via più fervida, filtrando un sole roseo, quello di un autunno seduttivo e immaginario, con macchie di colore come di un disegno infantile di campagna.
Oltre la stanza, giù per la strada, nella città che ripete i suoi ritmi, le panche dei mercati profumeranno dell’erba delle primizie, fredde e fresche, tra voci sparse, gesti consueti, clienti e ortolani che argomentano sui prezzi, le stagioni, i malanni. L’alba si è consumata, i colori hanno ripreso le loro solite vivide tonalità ma la natura del cielo e della terra, degli uomini e dei pensieri, ha ancora un ultimo segnale da mandare, vuole ancora insistere sul suo spettacolo di approccio alla vita, prima di lasciare il passo alla consuetudine della vita. Le porte si aprono per far entrare la giornata con i suoi scenari abituali, con le sue rinnovate epifanie e la porta verde della chiesa altro non è che il mare, che invade placido e lussureggiante la vista e il ricordo, il senso più intimo e sconfinato di ciò che abbiamo visto cominciare di primo mattino.
Ma era proprio questa l’alba che voleva rappresentarci Alfonso Gatto? Era proprio quel fenomeno naturale che la maggior parte di noi non vede e non segue mentre è di ordinaria compagnia per pescatori e marinai o per chi smonta da un turno di notte?
L’ermetismo – questo raffinato approccio poetico per il quale il non-detto è inciso con vigile controllo nel detto-altrimenti e che anche Gatto perseguì – non può l’ermetismo, come richiamo e paradigma, spiegare se l’attenzione del poeta (tormento interiore o noia di vivere) è sempre e solo allusiva o è sempre e solo oggettiva. L’alba di Alfonso Gatto è percepita, nella sua naturalezza, come una componente, quasi un’aggravante della quotidiana e irrinunciabile necessità di ritrovarsi nelle cose e in se stessi, per ogni volta che le cose si ripetono uguali e per quella volta che cominciamo a intenderle diverse. Il significato di un’alba è ben diverso da quello di un tramonto e non perché siano opposti o si fondino su colori e suoni contrastanti. Il significato di un’alba si rivela nella casualità della scoperta e nella scoperta della sua trascurata profondità di senso.
Un’alba – quest’alba di Alfonso Gatto – diventa lo scotto, il pegno che paghiamo alla nostra indolenza e si pone anche come specchio insidioso della nostra incostante voglia di capire, di assommare, di assumere desideri e rinunce.
Il ritmo dei versi è fluido tra increspature e pause, tra contrasti di immagini e parole: solo un poeta come Alfonso Gatto può allineare in sequenze morbide e piane visioni e concetti tanto distanti tra loro. Le immagini hanno e promuovono insieme il senso dell’oggettività e il significato dell’astrazione, il passo della quotidianità e il tocco dell’alterazione. La retorica dell’arte poetica si fonde con la naturale tensione del dire altrove, nel cercare altrove i termini e i confini di un poetare che non concede nulla al lirismo meditato per stupire e non tralascia nulla che non possa liricamente essere trasportato altrove.
Ma cos’è quest’altrove? È una dimensione della coscienza, un’intercapedine della memoria, la premonizione di una sofferenza, di un dolore? Si ha l’impressione di trovarsi in uno sfatto lirismo, di un’inguaribile tristezza: la verità è un’altra (l’alterità ormai ci ha condizionati): ci troviamo da quelle parti – tempo e spazio, memoria e coscienza, cuore e vita – dove tutto è da ricostruire e sentire, dove la conoscenza ha bisogno di ricominciare e il sentimento di riproporsi come liberazione.
Come molti altri poeti del Novecento, anche Alfonso Gatto è un poeta dimenticato: lo ricordiamo per le numerose raccolte di versi (da Il capo sulla neve a La forza degli occhi, da Amore della vita a Osteria flegrea), come attore occasionale nei film di Pasolini e Francesco Rosi, come fondatore e redattore con Vasco Pratolini della rivista Campo di Marte, come correttore di bozze, come cronista dell’Unità, come “comunista dissidente” negli anni Cinquanta. Lo ricordiamo anche come poeta che più volte ha prediletto il tema delle albe, degli amici e familiari scomparsi, apprezzato fra gli altri da Montale (che scrisse il suo epitaffio), poeta persino dei bambini. Una vita travagliata quella di Alfonso Gatto, come di tutti i poeti che osservano la natura delle cose e degli uomini e sanno parlarne con distaccata passione, come se quelle cose appartenessero solo agli uomini ma gli uomini spesso lo ignorano e pensano ad altro, oppure non pensano per niente.
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(1) ALFONSO GATTO, Tutte le poesie, Mondadori Oscar, 2005-2011
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Fu la prima e unica volta : a Villa Borghese , nel ’70 , a due passi dalla Casina delle rose , in una domenica mattina di Febbraio . Non c’era nessuno e faceva un freddo cane . Lo riconobbi subito dagli occhi con cui mi fissava venendo verso di me ; occhi grigio azzurri , come azzurro e blu erano camicia cravatta e cappotto ( al che sembrava blu anche il nero delle scarpe ) .
Io ero emozionatissimo e quando lo fermai mi uscì un ” sono contento di vederla ” che evidentemente emozionò anche lui che ricordo rispose con una bellissima luce negli occhi ” i suoi motivi fanno contento anche me “. Mi chiese ” cosa facevo di bello ” e quando risposi che lavoravo in banca e scrivevo anch’io commentò amabilmente ma con un certo fervore ” ma chi glielo fa fare , smetta che è ancora in tempo ! Pensi alle ragazze che è meglio ! ” , al che io parlai di “necessità” ecc. ottenendo il suo placet ” beh , se è così auguri Leopoldo , lei ne ha proprio bisogno visto che c’è la banca di mezzo ! “, seguito dal suo sommesso accomiatarsi che ho ancora qui davanti agli occhi in technicolor .
Io che conoscevo quasi a memoria il suo “Isola”- lascito di mio nonno paterno – ne uscii come potete immaginare con il cuore in lenta decelerazione e parecchio in debito d’ossigeno . Ero poco più di un ragazzo che aveva appena incontrato il verde ( e l’azzurro e il blu ) della poesia che avrebbe voluto scrivere da sempre .
AMORE –
Nella sera armoniosa che rivela
favole calme e sogni al mio passato
l’amore così timido mi svela
desideri perduti , quasi il fiato
delle prime parole in cui si vela
idillio eterno il mondo immaginato .
O di silenzio calda già s’inciela
la rondine nel volo e l’incantato
fanciullo lascia a scorgere serena
la notte che all’oriente s’allontana .
E del mio cuore nulla saprò dire
ad altri mai , fu tenero ed in piena
di sua pietà travolto lasciò vana
memoria al tempo , un sogno di morire .
ALFONSO GATTO – Da “Isola” , 1929-1932
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Con molta ammirazione per l’intervento di Scavone .
E un grazie a Francesco .
leopoldo attolico –
Se questa poesia fosse stata scritta da Leopardi, avremmo, senza ombra di dubbio, parlato di
paesaggio-stato d’animo.
Ma come – si potrebbe obiettare – cosa c’entra una siepe e un cor che si spaùra con questa
delicatissima alba di Alfonso Gatto?
Eppure, anche dopo aver letto e gustato la profonda e seducente nota di lettura di Scavone,
potremmo, forse, paragonare quella siepe che impedisce lo sguardo su un oltre con l’altrove
di cui parla il critico. Dietro la siepe c’è un mistero non svelato, mondi sconosciuti ; dentro
un’alba c’è un mistero che si svela ogni mattina ma che, comunque, al di là della fenomenologia,
mistero e magia rimane.
Questo concetto, così ben in evidenza nella nota, fa pensare che non sempre ciò che si vede è
tale e basta o ciò che si scrive o la grande produzione artistica in genere. Ben altre dimensioni
e interpretazioni possono stare dentro il risultato di un’esperienza.
Così, si può passare a un piano successivo, più alto, quello che dalle cose-rumori-paesaggi-
persone, fanno dire al poeta, esplicitamente o non, ciò che il suo sentire contiene in quel preciso
momento. E, come spiega Scavone, quei sentimenti possono appartenere a tutti gli uomini o,
almeno, a coloro che, avendo la fortuna di vedere sorgere un’alba, si pongono nella condizione
del fanciullino pascoliano, in uno stato di stupore contemplativo, di innocenza negli occhi e nel
cuore, per cui lo spettacolo che la natura elargisce, può dare a ciascuno quello di cui ha bisogno.
Un’alba può essere gioia o rimpianto, sgomento quando la vita pressa e il dolore indica la fine,
o forse, e più compiutamente, rinnovamento, un rimescolare le carte della propria vita e rendersi
conto che ogni attimo non sarà mai uguale a quello passato o a quello che, si spera, verrà.
Si sa che ogni poesia, al di là delle intuizioni o illuminazioni del poeta, si presta a molteplici
interpretazioni. Questa di Scavone è intensa e non tralascia nulla come se, nell’addentrarsi
nella poesia di Gatto, avesse scavato fin nei più intimi meandri del suo cuore per donarci
un’indicazione di lettura, bella, docile agli occhi e trasparente proprio come quel cielo che si
risveglia all’alba e quel mare che, via via, diviene sempre più azzurro per accogliere, ( la porta della chiesa
è il mare ) o allontanare pensieri di vita.
E l’alba è una Donna che, per stare in equilibrio tra cielo e mare deve, necessariamente,
reinventarsi giorno dopo giorno.
Grazie Antonio, grazie Francesco, davvero emozionata vi ringrazio con un grande abbraccio di cuore.
jolanda
L’mpaginazione non è il massimo e chiedo scusa,non era certo così che l’avevo pensata.
bacioni
jolanda
In una recente intervista ad Antonello Guerrera (la Repubblica, 21 ottobre u.s.), Raffaele La Capria ha dichiarato che «Un buon lettore deve possedere una capacità di lettura che definirei il “gusto del-la lettura”. Non serve conoscere tante nozioni, quello della lettura è un dono. Come diceva Steiner, il buon lettore prende un libro che è come un violino e deve saperlo suonare. Se no, resta un pezzo di legno».
Quest’incipit – che potrebbe sembrare e passare per taluni come un capzioso auto-incensamento o una carognesca captatio benevolentiae – più apertamente ma con fermezza vuole circoscrivere e de-finire sia chi legge (con cognizione e passione) sia chi legge e rilegge (con la medesima esigenza espressiva) ciò che altri hanno letto. Non c’è un prima e un dopo nelle letture comparate di un testo, in questo caso di una poesia di Alfonso Gatto: c’è un insieme, c’è un transfert, c’è una sollecitudine da allertare e riscoprirla come propria, custodita nel “prima” e riverberata e riacquisita nel “dopo”. I poeti, poi, quando li incontriamo dal vivo – come accadde a Leopoldo Attolico, che ce e se lo ram-menta – non ci sembrano grandi perché inarrivabili e inimitabili, sono grandi perché ci fanno capire, con la loro casuale presenza o la loro stradale epifania, che sono grandi perché non abbiamo il co-raggio di seguirne il percorso, di poterci sentire parte di quel percorso. Timidezza, certo, e senso della misura ma la consapevolezza di se stessi attraverso i grandi, e per il beneficio dei grandi, dev’essere giudiziosamente sfrontata e smisurata. Avessimo incontrato di persona Dante o Torquato Tasso, come ci saremmo sentiti?
La verità è che quando incontriamo i grandi, faccia a faccia, per caso, avevamo già immagazzinato e apprezzato la loro grandezza, avvertendola in qualche modo nostra o prossima. Leopoldo Attolico cita “Amore” e “Isola” di Alfonso Gatto, cioè di un poeta che ci ha parlato in un modo tanto som-messo quanto arduo di colori e sentimenti, di sensi e desideri, di memorie e smanie. I sei versi di “I-sola” ci ammaliano per la cadenza sospirata, come un fiato che si condensa su tre respiri (i tre distici), come l’immagine fervida che parte dal corpo, che è corpo e percezione, natura e cognizione di sé. La Capria ha dichiarato, ibidem, che «Non si diventa poeti da un giorno all’altro». Principio inconfutabile anche se molti si dichiarano poeti e scrittori per auto-eliberazione; tuttavia, c’è da chiedersi quando si diventa poeti, in quale giorno, in quale stagione, secondo quali risorse. Il debito di ossigeno – di cui parla Leopoldo nell’incontro degli anni ’70 – è quello che un poeta, di solito, produce ai suoi lettori (Jolanda lo chiama “pugno allo stomaco”) e non solo perché ci sorprende per la bellezza ma perché, a leggere quei versi, proviamo anche noi su noi stessi il tempo, il ritmo, la sequenza di quelle parole comuni o inventate che sono diventate in quel caso, in quei versi, fonti e materie del nostro essere lettori e del nostro diventare lettori privilegiati o, perché no?, pre-poeti. In questo senso, possiamo scoprire o intuire o proporre – come suggerisce Jolanda – un legame o una continuità tra la siepe di Leopardi e l’alba di Gatto: una continuità indotta da una lettura a tutto campo, è ovvio, che non intende semplicisticamente transodificare un dato (assumere cioè un cano-ne certo e riconoscibile per riprodurlo apocrifo) ma che, letterariamente, amplia il discorso sulle somiglianze tra i processi di percezione e introiezione: tra la natura, la riflessione e l’io.
Il ritmo sembra lo stesso ma, a ben guardare, il ritmo è sempre lo stesso quando ci si pone davanti a qualcosa che ci è estraneo ed esterno (la siepe o l’alba) ma che diventerà o deve diventare proprio e comune. La poesia del Novecento (non solo italiano) ha navigato intorno a quest’acquisizione po-etica del senso, o a quest’interiorità sensuale della poesia. Gli esempi non mancano: dall’asciuttezza semantica (Bertolucci, Giudici) alla corposità stilistica (Montale), dall’irritualità (Pasolini, Cattafi) alla piana irruenza (Luzi, Zanzotto). E forse non è arbitrario ritenere che una filiazione genealogica si possa instaurare da un poeta come Pascoli ai poeti del secondo Novecento: non propendo perso-nalmente per la tematica del “fanciullino” ma per la frammentazione sinfonica del verso e per la sua sorprendente nuclearità che Pascoli operò sulla sintassi della sua metrica. In un’intervista impossibi-le degli anni settanta (quelle che Andrea Camilleri inventò per la Radiodue), Alberto Arbasino iro-nizzò moltissimo sul grè-grè/cip-cip pascoliani e sulle sue insistite onomatopee ma lasciò capire, Arbasino, con qualche dispettosa benevolenza, che al di là dello sberleffo c’era da considerare un dato essenziale nella poesia di Pascoli: era una poesia che, tra rumori e suoni – molto più dei simbo-listi francesi, alludeva a quel paradigma di contrasti e confronti che i poeti del Novecento comincia-rono a compitare e organizzare tra il loro essere nel mondo e il loro essere nel proprio io. Già Contini e Pasolini avevano indicato in Pascoli un precursore del verso libero novecentesco. Sembra una banalità o un’esagerazione ma non si arriva al “Meriggiare pallido e assorto” o al “Com’è spo-glia la luna, è quasi l’alba” se non dopo aver introiettato, per un poeta, il percorso che altri hanno tracciato sulle proprie inquietudini o le occasioni fallite. E i poeti ritornano su quei percorsi infinite volte, come se quel tragitto fosse sempre in divenire, come se ogni stazione di servizio fosse solo un arrivo momentaneo e non un traguardo, di stimolo per i lettori e non di conforto per il poeta. Alfon-so Gatto ha scritto di tantissime “albe” ma anche di tramonti, senza essere per questo un poeta auro-rale o crepuscolare. La poesia di Alfonso Gatto è stata la poesia di una sostenibile ma lancinante rappresentazione della vita dell’io: come tanti, no come pochi.
Ringrazio Leopoldo Attolico e Jolanda Catalano per l’attenzione e gli spunti suggeriti e concludo citando di Alfonso Gatto “Allegoria delle meraviglie” (1968-69):
« La meraviglia – gridala – è del cielo
aperto a dirsi cielo dentro il cielo.
La meraviglia – tàcila – è del cuore
rinchiuso a dirsi cuore dentro il cuore».