Antonio Devicienti
Il Vermeer di Grünbein
Durs Grünbein è poeta doctissimus che sa offrire al lettore il piacere del sentimento dell’immaginazione, per dirla con Fernando Pessoa, o dell’emozione derivante da una tessitura finissima di allusioni, rimandi, criptocitazioni, per cui la raccolta poetica Koloß im Nebel (Colosso nella nebbia, Suhrkamp, Berlino, 2012 e non ancora tradotta in Italia) si configura come una colossale, appunto, miniera di suggestioni e stratificazioni culturali che confermano la tendenza del poeta di Dresda ad esplorare la nostra vastissima eredità storico-culturale e ad interpretare la contemporaneità riflettendo su personalità, opere, risultanze del cosiddetto passato traverso il vaglio sorvegliatissimo della ragione e della forma.
All’interno del ponderoso volume (226 pagine fittissime di versi) si può leggere un testo che reputo di notevole fattura e capace di aprirsi a molteplici suggestioni (cercherò di dimostrarlo) e che mi sembra particolarmente adatto per invitare ad un accostamento alla poesia dell’autore di Dresda chi ancora non la conoscesse, ad un’ulteriore lettura chi abbia già fatto esperienza del suo mondo poetico che si offre anche stavolta quale inesauribile caleidoscopio di riferimenti e di interpretazioni: Die weiße Schürze (Il grembiale bianco) da pagina 202 a pagina 206.
Si tratta di un poemetto in 11 strofe di 10 versi ciascuna, per un totale quindi di 110 versi; il metro (mi limito qui ad un accenno estremamente generale, dal momento che l’analisi metrica sarebbe invero di gran lunga più complessa) è costituito da esapodie giambiche con schema variabile di rime o assonanze, ma quel che veramente importa è riconoscere anche qui, come in numerosissimi altri casi all’interno della produzione del poeta tedesco, la presenza determinante della forma chiusa, di una cercata ed autoimposta, rigorosissima disciplina metrico-prosodica che, probabilmente, trova la sua radice maggiore nel famoso assunto goethiano Wer großes will muß sich zusammen raffen. / In der Beschränkung zeigt sich erst der Meister / Und das Gesetz nur kann uns Freyheit geben (sonetto Natur und Kunst dell’anno 1800: chi aspira alla grandezza deve saper concentrare le forze. / Nel limite si rivela il magistero / e solo la regola ci procura libertà), ma che è anche connessa con la predilezione da parte di Grünbein per il rigore e per la chiarezza d’ascendenza cartesiana. Proprio Cartesio (che durante il suo soggiorno tedesco concepisce il Discours de la Méthode) è il protagonista dello splendido, articolatissimo poema Vom Schnee, vera e propria sfida intellettuale ed artistica lanciata da Grünbein a se stesso e, non a caso, Cartesio è presenza centrale anche in Stockholm, ein Abschiedsblick (Stoccolma, sguardo d’addio), testo inserito nella stessa sezione (la numero 6) del Grembiale bianco. Ma già in Schädelbasislektion (Lezione sulla base cranica, del 1991) sono raccolti testi quali Der cartesische Hund (Il cane cartesiano), Ode an das Dienzephalon (Ode al diencefalo), Zerebralis (Cerebralis), così come Homo sapiens correctus e Meditation nach Descartes (Meditazione cartesiana) si possono leggere in Falten und Fallen (Pieghe e trappole del 1994). Ritroveremo significative tracce cartesiane pure nel Grembiale bianco. Leggendo la poesia di Grünbein occorre fare l’abitudine, l’ho già affermato, alle connessioni inter- e sovratestuali e a quest’inoltrarsi per itinerari che apparentemente allontanano dal punto di partenza, per poi ritornarvi e per riallontanarsene di nuovo poco oltre.
Nel Grembiale bianco Grünbein immagina un’amicizia profonda tra il pittore Johannes Vermeer (Delft, 1632 – 1675) ed il naturalista Antoni (o Anthonie) van Leeuwenhoek (Delft, 1632 – ivi, 1723) e mette in scena un loro incontro, nella casa dell’artista, poco prima della morte di quest’ultimo. In realtà non esistono prove, ma solo ipotesi intorno ad un qualche rapporto amicale tra i due; è certo soltanto il fatto che Leeuwenhoek sia stato il curatore fallimentare dell’eredità di Vermeer; il poeta sassone, affascinato da entrambe le figure e dal contesto storico-culturale in cui vissero, non ha certo bisogno di controprove documentali per dar vita all’incontro-dialogo tra di loro: invitato da Vermeer, Leeuwenhoek gli rende visita e prende così avvio l’episodio che andiamo a leggere e che è capace di immergerci dentro una luce e dentro colori davvero vermeeriani, dal momento che risulta impossibile scorrere queste pagine senza veder richiamati davanti agli occhi della memoria di volta in volta la Veduta di Delft, o l’Astronomo o la Donna in azzurro che legge una lettera. Nel Koloß ci viene offerto un plausibile interno vermeeriano, dipinto con le parole ed il metro della poesia, nel quale, come per condensazione di tutte le informazioni disponibili, di tutte le ipotesi formulabili e di tutte le suggestioni agenti, Grünbein traccerà, entro la compressione di un singolo episodio, l’intera parabola umana ed artistica di Vermeer, assemblando anche elementi non sempre sorretti da prove documentali, ma che sono legittimati dalla libertà d’invenzione rivendicata al pensiero poetante.
«Mach’s dir bequem, Freund Leeuwenhoek. Und übergeh
das Chaos hier im Haus. Der reinste Augiasstall
ist das, beim Herkules!» (vv. 1-3)
“Accómodati, amico Leeuwenhoek. E perdona
il caos qui dentro. È una vera e propria stalla di Augia
questa qui, per Ercole!”
Esordisce così il poemetto e già abbiamo un riscontro della sapienza linguistica e del gusto per i giuochi linguistici dell’autore di Dresda che, come aveva sottolineato il grande Heiner Müller suo mentore ed anche estensore della Laudatio in occasione del conferimento del prestigiosissimo Büchner-Preis a Grünbein nel 1995, possiede un dominio davvero magistrale della lingua tedesca: l’aggettivo rein (alla lettera significa puro) è qui impiegato sia nel significato usuale che assume in una ricorrente locuzione tedesca (vero e proprio, come infatti ho tradotto, o anche puro, ma similmente all’italiano, allorché diciamo, per esempio, è una pura follia, è un puro caso, eccetera), sia in connessione con il mito di Eracle/Ercole il quale, appunto, riuscì a ripulire (a rendere pura) la stalla di Augia; ma non basta: è riconoscibile l’ossimoro del tutto ironico tra rein e l’Augiasstall, quest’ultimo a sua volta antonomasia per luogo assai sporco; è probabile che l’allusione, apparentemente innocente, al mito delle dodici fatiche preluda al faticoso dispiegarsi del mestiere di Vermeer il quale, è noto, dipingeva con esasperante lentezza e con ferrea disciplina, caparbiamente insoddisfatto dei propri risultati; ma si allude anche a quello che verrà detto tra breve.
Leeuwenhoek pronuncia alcune parole di saluto:
«(……….) Aschfahl,
erzählt man sich, gebeugt, schleicht unser Mann umher.
Die Fama lügt! Mein Malerfürst schaut blendend aus.»
Cui risponde il pittore:
«Wie Hiob selbst. – Nun ja, man schuftet wie ein Pferd.» (vv. 5-8)
“(……….) grigio come la cenere,
si racconta, piegato, si trascina il nostro uomo.
Menzognere dicerie! Il principe dei pittori appare in forma smagliante.”
“Proprio come Giobbe. – E sì, fatico come un cavallo.”
Die Fama, scrive Grünbein, indubbio rimando virgiliano, colto latinismo niente affatto isolato nella più recente produzione poetica del Nostro e che convive con l’espressione faticare come un cavallo, che anche in tedesco è di carattere colloquiale e che va a formare un mosaico linguistico composto da espressioni appartenenti talvolta al sermo cotidianus, tal altra al registro colto; nel caso specifico il modo di dire wie ein Pferd schuften sviluppa ovviamente il tema della stalla, che nelle parole di Vermeer allude al duro lavoro da espletare per poter sfamare acht Kücken (otto pulcini, otto piccolini), che, com’egli spiega all’amico,
«Ich spucke Blut, lieg schlaflos nachts. Von wegen Haus:
ein Nest ist das, darin acht Kücken, Schnäbel aufgesperrt» (vv. 9, 10)
“sputo sangue, non dormo la notte. A causa della famiglia:
è un nido questo, con otto pulcini dai becchi spalancati.”
Cosi il pittore descrive la propria situazione finanziaria ed il proprio stato psico-fisico. La miseria materiale dell’artista (o dello scienziato), ma anche la necessità di dover fare i conti con la brutalità della realtà quotidiana non è in assoluto una novità in letteratura; penso in questo momento, ad esempio, al romanzo di John Banville Kepler (tradotto in italiano con il titolo La notte di Keplero e pubblicato da Guanda nel 2002) o al Leben des Galilei (Vita di Galilei) di Brecht che, nella letteratura di lingua tedesca del Novecento, costituisce ormai un classico irrinunciabile. Grünbein prende le mosse proprio da questa situazione che potremmo definire estremamente prosaica per delineare, come già fanno Banville e Brecht, la grande avventura della mente. Sempre nel Novecento Grünbein trova in certi testi di Benn o di Enzensberger solidi punti di riferimento; a proposito di Benn basti citare qui Turin e Turin II assieme a Sils-Maria, tutti e tre dedicati alla figura di Nietzsche e che sottolineano la dialettica, anche tragica, tra le miserie dell’esistere e le aspirazioni o le realizzazioni del pensiero con tutto il travaglio filosofico e psicologico che ne consegue e Chopin, testo in cui del grande musicista vengono rappresentate le forti difficoltà relazionali, ma anche le straordinarie creazioni musicali; di Enzensberger menzionerei Mausoleum, la raccolta del 1975, che contiene molti lunghi testi i cui protagonisti, che spesso si esprimono in prima persona, sono scienziati, rivoluzionari, esploratori, il monologo del Veronese intorno alla sua Cena in casa di Levi contenuta in Der Untergang der Titanic (La fine del Titanic del 1978) e i seguenti versi che concludono una lirica dedicata a Paolo Uccello: (…..) Jeder glaubt, / er sei der Mittelpunkt. / Nur der Maler nicht. / Er arbeitet «ruhig, sauber, / wie die Seidenraupe / an ihrem Faden», arm, / unnütz, menschenscheu, / wild (…..) (Ciascuno crede / d’essere lui il centro. / Non il pittore. / Egli lavora “tranquillo, pulito, / come il baco da seta / al suo filo”, povero, / inutile, schivo della gente, / selvatico, Paolo di Dono genannt Uccello, Kiosk, Suhrkamp, 1995) in cui le parole tra virgolette sono del Vasari e l’impostazione dell’intero testo del poeta tedesco sottolinea la solitaria e non-narcisistica ricerca del pittore. Ma penso anche a Jan Wagner (nato nel 1971) che scrive un testo intitolato Guerickes Sperling (Il passero di Guericke) il quale darà il titolo all’intera raccolta del 2004 e dove il fisico Otto von Guericke (1602-1686) è alle prese con un esperimento relativo alla sua Vakuumpumpe, la pompa da lui costruita per dimostrare l’esistenza del vuoto: trovo interessante questo ritornare a riflettere sui decenni che per la Germania furono anche quelli della devastante Guerra dei Trent’Anni da parte di Wagner e Grünbein, che questi due autori vogliono indagare e la nascita del pensiero razionale e scientifico moderno e le condizioni sia culturali che spirituali della Germania contemporanea, la quale si ritrova a dover fare i conti con i propri terribili demoni, per cui il Seicento assurge a valido specchio di paragone per l’oggi e per il recente passato (leggasi dodicennio hitleriano e divisione della Germania).
Torniamo ora al nostro poemetto: l’amico si siede e contemporaneamente ode un bimbo entrare in cortile, mentre nel corridoio il Tak-Tak-Tak degli zoccoletti dei bambini risuona attraverso le pareti.
Vermeer si dichiara stanco morto ed indebitato fin sopra le orecchie (verschuldet über beide Ohren)
«(…..) Du weißt, kein Christenmensch bezahlt
mir all die Zeit, dort vor der Staffelei verschwendet.
Warum auch? Zeit: mir ganz allein gehört ja, pures Gold,
was durch die Finger rinnt wie Sand auf meiner Insel.
Kein Kaufpreis wiegt das auf. Ich selbst habs so gewollt.
Verarmen muß , wer so wie ich im Schneckentempo pinselt.» (vv. 15-20)
“(…..) Lo sai, nessuno mi paga
il tempo sprecato lì, davanti al cavalletto.
E perché mai? Tempo: soltanto a me appartiene, oro puro
quello che per le dita mi scorre come sabbia sulla mia isola.
Nessun prezzo può compensarlo. Io stesso ho voluto così.
Deve per forza impoverire chi come me dipinge a passo di lumaca.”
Siamo ancora nel cuore della questione che ha, in queste pagine, Johannes Vermeer come paradigma: le urgenze della vita pratica, talvolta incresciose e comunque ineludibili, e l’arte, che il pittore associa all’idea del tempo, o meglio, del tempo-che-è-oro il quale, quasi fosse egli un alchimista, gli scorre dalle dita e dell’isola, la sua isola, una sorta di cerchio anch’esso alchemico all’interno del quale condurre i propri esperimenti. Vermeer rovescia radicalmente la connessione vendita-oro (dipingere e quindi vendere per guadagnare) trasformandola in oro-tempo (un guadagno, niente affatto monetizzato né monetizzabile, che si trova già all’origine dell’atto nel caso specifico pittorico e che risiede nel tempo, in larga parte gratuito, del poiein artistico: Grünbein sa benissimo che fa dire queste cose ad un pittore dell’Olanda del XVII secolo, un Vermeer totalmente dipendente dalle commesse della borghesia mercantile di Delft e dintorni, una classe sociale portatrice in toto del credo capitalista di cui i Paesi Bassi erano, all’epoca, una delle realizzazioni più efficienti ed anche in piena espansione; sa inoltre altrettanto bene di essere egli stesso un artista situato all’interno del difficile, spesso ambiguo rapporto tra capitale e produzione artistica, anzi, Grünbein ha esperito un doppio status: dapprima cittadino della DDR, della zona grigia della sua memorabile raccolta d’esordio e quindi posto innanzi al dilemma se essere artista organico allo Stato che ne richiedeva i servigi o critico nei confronti di quello stesso Stato, con tutte le conseguenze del caso – Biermann, Kunze, Huchel, Sarah Kirsch ed altri docent – ha vissuto poi la riunificazione, cominciando a confrontarsi con la nuova Germania iperindustrializzata e liberista; ad un poeta come il Nostro sono inoltre ben presenti le letture da Lukacs, Adorno e, andando a ritroso, da Benjamin, Marx, Hegel circa il ruolo e la funzione dell’artista e il suo rapporto con i mezzi di produzione, con la società, con la politica, con la storia).
[…]
[Ringrazio Antonio per averci offerto questo suo contributo, notevole e suggestivo excursus tra pittura, poesia, scienza e filosofia. Invito tutti i lettori a scaricare e a leggere il saggio completo che comparirà a breve in “Quaderni delle Officine”, XXXVI, Dicembre 2013.]
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Nota biobibliografica
Di origine salentina, Antonio Devicienti vive e insegna in provincia di Varese. Suoi contributi critici, note di lettura e testi sia in prosa che in versi sono presenti su varie riviste cartacee (L’Immaginazione, Poeti e Poesia) e telematiche (Zibaldoni, Samgha) e in diversi volumi collettivi. Nel 2011 ha pubblicato presso LietoColle la sua prima silloge poetica, Linea borbonica.
Collaboratore di Carte Sensibili, gestisce il blog personale Via Lepsius.
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una tessitura finissima che nulla ha da spartire con l’oro della moneta, sonante, ma piuttosto con un altro genere di oro…quello del tempo eternizzato, e silenzioso, di un’epoca lontana.
così si mitizzano le bellezze dell’arte e del pensiero…
con la discrezione
che brilla come una perla sul nudo lobo dell’orecchio.
La lettura di questo prezioso contributo di Antonio Devicienti e le tessiture da lui sapientemente individuate e illuminate non possono che richiamare alla mente il dramma “Comenio” del pittore e scrittore Oskar Kokoschka, nel quale si descrive un incontro tra il pedagogo boemo, Comenius autore dell’opera “Orbis pictus “, e il pittore Rembrandt, nello studio di quest’ultimo. Anche in quel caso lo sfondo storico è la Guerra dei Trent’anni. Un saluto riconoscente.
@Carla: grazie per il Suo elegante commento.
@Anna Maria: grazie anche a te per l’apprezzamento, che mi risulta di particolare incoraggiamento e confesso la mia ignoranza: non conoscevo il dramma di Kokoschka, che mi procurerò e leggerò (non mi sorprenderebbe se anche quest’opera fosse stata tenuta presente dal poeta di Dresda); a tal proposito colgo l’occasione per dire, se la cosa interessa, che ho comperato il “Colosso nella nebbia” a marzo durante un mio viaggio in Germania e che già in quei giorni avevo letto il poemetto dedicato a Vermeer, decidendo di scriverne; erano dunque mesi che lavoravo all’articolo perché trovavo sempre nuovi riferimenti e ragioni d’approfondimento; constato con gioia che c’è ancora molto da scoprire, confermando la mia convinzione che i testi più riusciti di Gruenbein siano un prezioso, affascinante labirinto di rimandi.