Caillois e le pietre viventi
In Le fleuve Alphée, un’opera autobiografica apparsa nell’anno stesso della sua morte, Roger Caillois ha ripercorso la propria esistenza su un piano assai più interiore che esteriore, focalizzando l’attenzione sugli argomenti e gli oggetti che, nelle diverse età della vita, lo hanno incuriosito e affascinato. Nel libro egli accenna solo di sfuggita alle proprie opere, che pure sappiamo essere numerose e incentrate sui più svariati temi (dal mito al sacro, dal gioco alla guerra, dal sogno alla poesia). Con quel gusto del paradosso che da sempre lo caratterizza, egli sembra voler ricorrere a tutte le risorse di una cultura estesa e raffinata solo per ridimensionarne il valore, evidenziando semmai alcuni rari testi in cui gli era capitato di cedere a inclinazioni di tipo poetico o di manifestare interesse per l’osservazione della natura: due cose in apparenza opposte, ma unificate ai suoi occhi. Se un simile tracciato esistenziale e conoscitivo acquista un suo senso, e un suo culmine, esso consiste senza dubbio nella tardiva scoperta del mondo minerale(1).
Proprio perché, nell’autobiografia, lo sguardo rivolto al passato è così selettivo e teleologicamente orientato, Caillois avverte come singolare il fatto che, pur avendo trascorso l’infanzia (negli anni della prima guerra mondiale) in un villaggio di campagna, a stretto e appassionato contatto con la natura, da bambino era stato poco attratto dalle pietre. «Ignoravo quasi completamente – egli scrive – i minerali, che oggi svolgono un ruolo così importante nella mia vita. Ciò dipende dal fatto che ce ne sono pochi in una pianura sedimentaria. Se alla stessa età fossi vissuto in Alvernia o nelle Alpi, senza dubbio sarebbe stato diverso. Nella Champagne, il gesso regna indiscusso. Tuttavia, devo confessare che non ero nemmeno attirato dai noduli di marcassite, che in certe sue località sono abbondanti. Eppure l’interno raggiato, metallico, brillante, aveva di che stimolare l’immaginazione»(2). Gli occorrerà passare attraverso una lunga serie di esperienze per acquisire la capacità di prestare la debita attenzione alle pietre.
Forse per lui la svolta decisiva ha inizio quando, giovane e brillante intellettuale parigino, si reca in Argentina per un ciclo di conferenze, e, sorpreso là dallo scoppio della seconda guerra mondiale, si decide o rassegna a rimanervi fino al termine del conflitto(3). In questo periodo continua a scrivere e pubblicare, ma nel contempo è costretto a riflettere sugli eventi politici e bellici (cosa che lo induce ad attuare una graduale revisione delle posizioni ideologiche da lui sostenute in precedenza) e a confrontarsi con una situazione sociale e culturale assai diversa da quella francese. Ammetterà in seguito: «Il mio soggiorno nell’America del Sud, dove i libri e quelli che li leggono contano molto meno della natura e degli illetterati, fu per me una seria messa in guardia»(4). I viaggi da una regione all’altra del subcontinente americano gli fanno scoprire una natura che può essere rigogliosa ma anche crudele: quest’ultimo aspetto gli risulta evidente nel 1942, durante una visita in Patagonia, una regione che, per clima e paesaggio, si mostra particolarmente aspra ed ostile nei riguardi dell’uomo(5).
Lo stesso anno, Caillois si reca in Brasile, dove ha occasione di trovarsi per la prima volta fra le mani dei quarzi del tipo detto «fantasma», che lo colpiscono per la loro stranezza: «Si tratta di aghi esagonali, come tutti gli altri, ma al cui interno la loro stessa immagine, sempre decrescente, si ripete molte volte»(6). Più tardi, sarà una diversa particolarità ad incuriosirlo nelle labradoriti: questi minerali, osservati sotto una determinata angolazione, appaiono di un colore blu elettrico, lo stesso che si nota sulle ali di certe farfalle. Ritroviamo l’accostamento tra pietre e lepidotteri in un capitolo del libro Méduse et Cie, datato 1960(7). Lì, dopo aver sostenuto che, sul piano delle qualità estetiche, le ali delle farfalle non hanno nulla da invidiare ai dipinti realizzati dall’uomo (sicché le prime si differenziano dai secondi solo in quanto sono la realizzazione automatica di una specie anziché quella libera di un individuo), Caillois prosegue la dimostrazione passando a considerare le pietre. Anch’esse, per colori e disegni, somigliano talvolta a dei quadri, e non a caso fin dall’antichità vi sono stati collezionisti dediti alla ricerca di quei minerali che sulla loro superficie recassero immagini simili a paesaggi o a figure umane, ritenendoli opere d’arte prodotte dalla natura stessa. Questa passione per le pietre figurate, che ha condotto scrittori di ogni epoca a lasciar traccia della loro volontà di scorgere o fantasticare analogie tra l’aspetto di certi marmi, diaspri o agate e le rappresentazioni presenti nei dipinti umani, aveva già destato l’attenzione di altri studiosi, a cui non erano sfuggiti neppure i casi di pittori che avevano lavorato su pietra, aggiungendo delle figure alle linee e alle tinte proprie del supporto, così da ottenere un’opera d’arte diversa dal consueto(8). Dal canto suo, Caillois segnala un esempio di altro tipo, quello di un marmo (appartenente alla sua stessa collezione) che un artista cinese del XIX secolo si era limitato a firmare e intitolare, appropriandoselo e proponendolo come oggetto d’arte(9). Lo scrittore francese sostiene che in epoca moderna, con l’imporsi di una pittura non figurativa, la possibilità di rapportare i prodotti esteticamente rilevanti dell’uomo a quelli della natura si è molto ampliata. A suo avviso la propensione a cogliere somiglianze tra questi due ambiti ha ormai perso quel carattere chimerico che aveva di solito nei testi degli autori del passato: da quando l’arte procede davvero al modo della natura, ossia attraverso semplici accostamenti armonici di forme e colori, la ricerca delle analogie tra i due campi è divenuta una modalità di osservazione degli oggetti dotata di un suo fondamento logico.
Per comprendere dichiarazioni del genere, occorre ricondurle alla singolare concezione unitaria che è propria dell’autore. Già nel suo primo libro, datato 1935, Caillois aveva affermato a chiare lettere: «La natura è ovunque la medesima. Le stesse leggi reggono il mondo esterno e il mondo interno e nessuna essenziale soluzione di continuità appare, ad occhi avvertiti, tra l’ambiente e l’organismo che vi vive. Tutto è ambiente. Così, nessuna mutazione brusca si può cogliere tra la materia e l’energia, dotata essa pure di peso, e neanche, parallelamente, tra il corpo e la mente, che possiedono in comune l’una o l’altra proprietà»(10). Dapprima, gli era parso di poter evidenziare nel modo più efficace questa identità di leggi mettendo in relazione certe caratteristiche dell’aspetto fisico o del comportamento degli animali e certe attitudini psichiche o rappresentazioni mitiche dell’uomo(11). Solo più tardi i minerali hanno cominciato a diventare il punto di riferimento privilegiato all’interno di questa particolare strategia teorica.
Nel 1966 Caillois torna sul tema delle pietre figurate, in un saggio che ha per titolo L’agathe de Pyrrhus(12). L’agata in questione è quella di cui parla Plinio in un passo della Naturalis historia, e che avrebbe recato su di sé, ad opera della natura e non dell’uomo, l’immagine di Apollo intento a suonare la lira e circondato dalle nove Muse, ognuna riconoscibile per un suo attributo caratteristico. Benché l’autore latino si fosse limitato a descrivere un’agata a lui nota soltanto per fama, le sue parole erano state accolte per secoli come credibili. Ma è soprattutto tra Cinquecento e Seicento, nelle opere di Ulisse Aldrovandi e Athanasius Kircher, che si era tentata una classificazione delle pietre con immagini, dal punto di vista dei soggetti in esse evocati: fiumi o mari, piante o foreste, animali di vario genere (cani, pesci, draghi…), volti e figure di esseri umani, talvolta anche di interesse religioso (la Madonna col Bambino, Cristo in croce, santi, vescovi…). Sull’effettiva presenza e riconoscibilità di queste immagini non sembravano esserci, a quell’epoca, molti dubbi; semmai ci si divideva nel tentativo di spiegare, in modi a dir poco fantasiosi, la causa del prodursi di queste somiglianze. Non si tratta però di un fenomeno confinato nei secoli antichi, visto che ancora all’inizio del Novecento qualche isolato, come Jules-Antoine Lecompte, continua a ravvisare nelle pietre da lui trovate delle composizioni non meno minuziose di quelle dell’agata di Pirro: ad esempio l’immagine di Napoleone, con a fianco un’aquila e al di sopra un cerchio che rappresenta la corona, mentre tre macchie più chiare sul minerale ricordano altrettante isole (la Corsica, l’Elba e Sant’Elena) (13). È chiaro che con un autore del genere, che crede allo spiritismo e si meraviglia che le persone a cui mostra le sue pietre non riconoscano affatto quel che lui vi scorge, siamo ormai scivolati sul versante di un innocuo delirio.
A Caillois però non interessa soltanto ricostruire la storia dell’inclinazione dell’uomo ad osservare i minerali soggiacendo all’ingenuo piacere di scoprire su di essi figure a vario titolo già note. Egli procede in maniera più complessa, o contraddittoria: è chiaro che considera con bonaria ironia gli eccessi interpretativi, ma non nega affatto la legittimità della propensione a scorgere somiglianze: «Certo, l’immagine è equivoca, sollecitata, ricostruita, ma esiste, così com’è presente la pietra che ne è il supporto, entrambe inconfutabili»(14). Almeno in certi casi, infatti, «la somiglianza tra il simulacro e il modello è oggettiva, cioè percepita unanimemente o in modo abbastanza generale senza che gli osservatori vi mettano troppo del loro»(15). È chiaro però che egli non può più, come alcuni dei suoi lontani predecessori, vedere in tale somiglianza un prodigio che conferma l’onnipotenza divina. Quindi non gli resta che oscillare tra due idee antitetiche: che le somiglianze esistano, ancorché prodotte da una causa ignota (egli sembra escludere la semplice casualità come origine dei fenomeni considerati), e quella che non esistano, essendo il frutto di un’autosuggestione di chi guarda. Ma persino la credulità finisce coll’apparirgli positiva o giustificabile: «Senza questa mania permanente di interpretare tutto a casaccio, in accordo con la verosimiglianza o contro di essa, chissà se i progressi della conoscenza non mancherebbero nel contempo dell’impulso di cui hanno bisogno e dello strumento primario, del metodo stesso della loro riuscita?»(16).
Notiamo una volta per tutte che, anche se nei suoi libri Caillois fa spesso professione di rigore, non è certo questa la dote che più lo caratterizza(17). Egli dà prova invece di qualità diverse, se non opposte: la varietà di interessi, la capacità di collegare idee e fenomeni lontani fra loro, il gusto del mistero da chiarire o della provocazione che fa riflettere. Se di fronte alle pietre egli non riesce a superare le proprie contraddizioni (anzi, si direbbe, neppure le percepisce come tali), ciò costituisce probabilmente un sintomo del suo coinvolgimento emotivo rispetto a questo particolare argomento. Per averne una riprova possiamo considerare il saggio Une erreur de Lamarck(18). In esso si accenna alla storia della credenza, presente già in alcuni autori dell’antichità e del Medioevo, in una vita organica delle pietre, che consentirebbe ad esse di crescere e perfino di riprodursi. Anche dopo il sorgere, datato da Caillois alla seconda metà del Settecento, della mineralogia moderna, qualcosa di quest’idea ha potuto sopravvivere. Così, negli ultimi anni di quel secolo, nella visione trasformista di uno scienziato come Lamarck erano coinvolte anche le pietre: egli ipotizzava infatti che la diversità delle loro specie dipendesse dal fatto che si erano formate per modificazione di resti di corpi viventi (vegetali o animali), solidificatisi gradualmente, che avevano assunto da ultimo la consistenza di minerali. È chiaro che si tratta di una teoria strampalata, ma è proprio questo a renderla interessante agli occhi di Caillois: «Personalmente, traggo un grande piacere da queste costruzioni folli e tuttavia rigorose delle scienze ancora balbettanti. Sospetto anzi che possano tradurre una certa verità, in seguito trascurata perché non rientrava nel sistema più esatto che è stato infine privilegiato. Confido che questo aspetto umiliato sarà, un giorno o l’altro, riabilitato»(19). La simpatia mostrata dall’autore per un’idea priva di fondamento scientifico come quella della vita organica delle pietre non sorprende troppo, dato che altrove egli aveva già mostrato di condividerla. Si pensi a ciò che scriveva nel saggio sulle Sciences diagonales, in apertura di Méduse et Cie: «Una sorta di riflesso condizionato spinge lo studioso a considerare la comparazione, per esempio, della cicatrizzazione dei tessuti viventi con quella dei cristalli come un sacrilegio, uno scandalo, un delirio. È un fatto tuttavia che i cristalli ricostituiscono come gli organismi le parti mutilate accidentalmente e che la regione lesa beneficia di un’attività rigeneratrice supplementare che tende a compensare il danno, lo squilibrio o la dissimetria creata dalla lesione. Non vi sarebbe qui altro che un’analogia ingannevole, esprimibile con una pura e semplice metafora?»(20). Verrebbe spontaneo rispondere di sì, notando che la scelta delle immagini utilizzate dall’autore è di per sé tendenziosa, finalizzata a far apparire le pietre come viventi. Ma ciò che conta è comprendere, più in generale, che il discorso di Caillois sui minerali, finché si affida a una forma di tipo saggistico, non può risultare convincente, giacché tenta invano di conciliare l’approccio scientifico al problema con la forte fascinazione psicologica ed estetica che l’autore prova nei confronti dell’oggetto.
[…]
Tratto da:
Giuseppe Zuccarino
Da un’arte all’altra
Novi Ligure (AL), Edizioni Joker
“Materiali di Studio” / Letterature, 2009
(Pubblicato originariamente in «Riga», 23, 2004)
[Il saggio di Giuseppe Zuccarino sarà pubblicato integralmente in “Quaderni delle Officine”, XXXIX, Febbraio 2014.]
Note
(1) Ricordiamo che i libri di Caillois interamente o in parte dedicati alle pietre sono i seguenti: Méduse et Cie, Paris, Gallimard, 1960 (tr. it. L’occhio di Medusa, Milano, Cortina, 1998); Pierres, Paris, Gallimard, 1966 (tr. it. Pietre, Genova, Graphos, 1998); Images, images…, Paris, Corti, 1966; Obliques, Montpellier, Fata Morgana, 1967; L’écriture des pierres, Genève, Skira, 1970 e Paris, Flammarion, 1987 (tr. it. La scrittura delle pietre, Genova, Marietti, 1986); Cases d’un échiquier, Paris, Gallimard, 1970; Pierres suivi d’autres textes, ivi, 1971; Pierres réfléchies, Paris, Maeght, 1975 e, ampliato, Paris, Gallimard, 1975; Malversations, Paris, André de Rache, 1975 e Montpellier, Fata Morgana, 1993 (tr. it. Malversazioni, Roma, Meltemi, 2003); Obliques précédé de Images, images…, Paris, Stock, 1975 e Paris, Gallimard, 1987; Le fleuve Alphée, Paris, Gallimard, 1978 (tr. it. Il fiume Alfeo, Palermo, Sellerio, 1980); Le champ des signes. Récurrences dérobées, Paris, Hermann, 1978 (tr. it. Ricorrenze nascoste, Palermo, Sellerio, 1986); Trois leçons des Ténèbres, Montpellier, Fata Morgana, 1978 (tr. it. Tre lezioni delle Tenebre, in Pietre, cit.). Per i testi francesi di Caillois, rinvieremo quando possibile alla raccolta Œuvres, Paris, Gallimard, 2008 (d’ora in poi abbreviato in Œ.).
(2) Le fleuve Alphée, in Œ., p. 91 (tr. it. p. 14).
(3) Per la biografia di Caillois, si rimanda all’ampio studio di Odile Felgine, Roger Caillois. Biographie, Paris, Stock, 1994. Gli anni sudamericani e i loro effetti sul pensiero dell’autore sono ben documentati anche in Roger Caillois – Victoria Ocampo, Correspondance 1939-1978, Paris, Stock, 1997 (tr. it. Corrispondenza 1939-1978, Palermo, Sellerio, 2003).
(4) Le fleuve Alphée, in Œ., p. 115 (tr. it. p. 59).
(5) Cfr. Patagonie, testo apparso nel 1942 e ripreso poi in R. Caillois, Le rocher de Sisiphe, Paris, Gallimard, 1946; ora in Œ., pp. 385-393 (tr. it. Patagonia, in La roccia di Sisifo, Roma, Lucarini, 1990, pp. 43-54).
(6) Le fleuve Alphée, in Œ., p. 148 (tr. it. p. 119).
(7) Natura pictrix, in Méduse et Cie, in Œ., pp. 501-508 (tr. it. Natura pictrix, in L’occhio di Medusa, cit., pp. 37-49).
(8) Il precedente più autorevole è costituito dal saggio (citato da Caillois) di Jurgis Baltrušaitis, Pierres figurées, in Aberrations, Paris, Perrin, 1957; poi, in edizione riveduta, Paris, Flammarion, 1983 (tr. it. Pietre figurate, in Aberrazioni, Milano, Adelphi, 1983, pp. 56-91).
(9) A Caillois non sfugge l’analogia con la pratica duchampiana del ready-made (cfr. Natura pictrix, in Œ., pp. 505-506, tr. it. pp. 44-46). Se lo avesse conosciuto, egli avrebbe potuto ricordare quel ciottolo striato che nel 1856 Victor Hugo – il quale, com’è noto, era anche un pittore notevole – aveva assunto quale propria opera, apponendovi firma e data (cfr. il catalogo Victor Hugo pittore, Milano, Mazzotta, 1993, pp. 39 e 238).
(10) Procès intellectuel de l’art, Marseille, Cahiers du Sud, 1935; poi in R. Caillois, Approches de l’imaginaire, Paris, Gallimard, 1974, p. 40.
(11) È quanto accade ad esempio in una sua opera di grande rilievo, Le mythe et l’homme, Paris, Gallimard, 1938 (tr. it. Il mito e l’uomo, Torino, Bollati Boringhieri, 1998).
(12) L’agathe de Pyrrhus, in Images, images…, in Œ., pp. 732-744.
(13) Cfr. ibid., p. 736.
(14) Ibid., p. 739.
(15) Ibid., p. 740.
(16) Ibid., p. 744.
(17) È quel che gli faceva notare Georges Bataille: «Come fa a non accorgersi dell’imbarazzo che crea, esigendo un rigore di cui non aiuta nessuno a scorgere la connessione nei suoi scritti?» (lettera del 7 febbraio 1946, in G. Bataille, Lettres à Roger Caillois, 4 août 1935 – 4 février 1959, Romillé, Folle Avoine, 1987, p. 138).
(18) In Obliques, in Œ., pp. 747-755.
(19) Ibid., p. 753.
(20) Méduse et Cie, in Œ., p. 480 (tr. it. pp. 4-5).
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