Il lievito Madre/Padre, o Doping, nella poesia di Angela Bonanno

Angela Bonanno

Manuel Cohen
Angela Bonanno

REPERTORIO DELLE VOCI
NUOVA SERIE, N. 3 (XXX)

“A rose ca gallegge ndó becchiere
me guarde cu duje uocchje annammarute]
pe ddìreme ca pe edde só fenute
i tiembe de spascézze ndó giuardine”

“La rosa che galleggia nel bicchiere
mi guarda con due occhi amareggiati
per dirmi che per essa son finiti
i tempi di goduria nel giardino”.

(Assunta Finiguerra,
Tatemije, Mursia 2010)

La giuria del Premio Franco Fortini, promosso dal sito Poiein.it in collaborazione con il poeta Alfredo de Palchi e la NIAF-Sonia Raiziss Giop Caritable Foundation e le Edizioni CFR, composta da Ennio Abate, Viola Amarelli, Manuel Cohen, Enrico Maria Di Palma, Fiammetta Giugni e Gianmario Lucini, dopo aver letto le 87 raccolte inedite, giunte in forma anonima, ha attribuito il primo premio alla silloge neo-dialettale Pani schittu della catanese Angela Bonanno. L’autrice ha preceduto Andrea Lanfranchi (con Cantiere in luce) e Ezio Partesana (con la silloge In tempo). Il premio consiste nella pubblicazione in volume delle opere classificate ai primi tre posti. La particolarità del premio sta nel duplice anonimato: della giuria (i cui nomi vengono svelati, anche ai giurati stessi, solo a votazione avvenuta) e delle opere (la segreteria provvede ad inoltrare ai giurati i file dei partecipanti bannando i nominativi). Il risultato è che vengono premiate ‘liberamente’ opere ritenute notevoli; i giurati, non conoscendo la composizione della giuria, non hanno neppure modo di confrontarsi, e inviano le valutazioni direttamente alla segreteria. L’edizione di quest’anno, a conferma della validità del progetto, premia tre autori interessanti, lontani da logiche corporativistiche o consorterie letterarie. Sono inoltre stati prescelti in un concorso dal livello qualitativo molto alto, ed è quasi un peccato non aver potuto premiare i lavori di ottimo livello presentati, ad esempio, da Narda Fattori, Ivan Fedeli, Franco Manescalchi, Lella De Marchi, Saragei Antonini. Un premio onesto, e trasparente come pochi, dove a ‘decidere’ non sono il peso delle case editrici e le logiche aziendali, come allo Strega, o al Viareggio, tanto per dire dei maggiori premi, né le logiche di convenienza amicale, come accade ad esempio al Metauro, dove non c’è concorso né selezione, e ogni giurato propone un ‘suo’ finalista… (M.C.)

Inutile negare o snobbare la questione o tentare di girarci intorno: recentemente, nel corso della rassegna “RicercaBo 2010”, il critico e narratore Gabriele Pedullà ‘l’ha buttata lì’, e non era una boutade, accennando ad una sorta di doping del dialetto, o di effetto doping; nello specifico, interveniva in margine ad una lettura di Dina Basso – il video è ora rintracciabile su You Tube. Di fatto, c’è a volte e in una evidenza incontrovertibile, in alcuni scrittori neo-dialettali, a differenza di molta produzione in lingua, un surplus di vitalità linguistica dagli effetti notevoli, per pregnanza materica e congruità di rappresentazione, per condensazione polisemica e per riverberazione analogica, per icasticità di sguardo e per rapidità di sintesi e movenze, come pure per una attitudine endogena a spingere il pedale linguistico oltre la soglia della reticenza, oltre la medietà linguistica del poeticamente corretto. E nondimeno si tratta di una vera e propria forza, quando l’autore preme il tasto del booster, mercuriale e imprevedibile.

Sebbene gli ultimi decenni appaiano contrassegnati da una ampia riconversione dell’avventura neo-dialettale nel più rassicurante e accettato solco italiano, monodico e monolinguista, che di fatto, si configura in nulla più che un fantasma o un Totem nella certificata dissoluzione di una lingua letteraria nazionale, tuttavia, alcuni facitori di versi sembrano con naturale ostinazione sottrarsi alle mire di una letterarietà auto-compiaciuta ed autoreferenziale, come pure all’asfissia di una cultura di establishment, araldica e minimalista, floreale e sussidiaria, a dirla tutta: dalla attitudine un po’ zerbina e pulviscolare.

La scrittura in versi allora si rivela essere il campo agonico e agonistico di una rappresentazione ben accorta a ridurre a una inopia di registri, quando non propriamente ad una schiacciante irrisione, convenzioni e istituti formali, ritmologici, prosodici e metrici. È accaduto, in anni recenti, nella scrittura di Assunta Finiguerra (San Fele -PZ- 1946-2009) che, con ogni probabilità, assieme a Jolanda Insana (Messina, 1937), figura tra le personalità letterarie più irriducibili e interessanti del Meridione italiano. Ed è accaduto, ancor più di recente, con l’esordio in volume, prefato da chi scrive, della succitata Dina Basso (Scordia -CT- 1988), Uccalamma. Bocca dell’anima (Le Voci della Luna, 2010). Ed ora, per altri versi e con altri esiti, è un fenomeno riscontrabile in Pani schittu, libro con cui la catanese Angela Bonanno (1962) si aggiudica, prima volta per un testo scritto in una lingua minoritaria, il Premio Franco Fortini.

Era l’anno 1900 quando Alessio De Giovanni, studioso di Giovanni Verga, dava alle stampe Lu fattu di Bbissana, a detta di Pasolini «uno fra i pochi piccoli capolavori del gusto realistico» (in: M. Dell’Arco e P. P. Pasolini, Poesia dialettale del Novecento, Guanda 1952), quel libro segnava una svolta decisiva nella poesia dialettale siciliana e peninsulare e il cui nodo è ben indagato dal Pasolini stesso:

«Alessio De Giovanni usa i modi realistici assolutamente fuori dalla chiarezza oggettiva e preordinata della cronaca […] e fuori dalle contrazioni dialogiche melodrammatiche degli pseudo-realisti digiacomiani. […] Le “immagini” realistiche del Fattu di Bbissana, compaiono così, di colpo, dietro le svolte di quella sintassi, dietro il grumo misterioso di un sintagma bruciante d’un’incomprensibilità piena di colore: i fatti (secondo la tecnica del Verga migliore) accadono in fondo agli scorci e alle anfrattuosità del linguaggio, dove, in primo piano, non direttamente “descritto”, ma implicito, brucia un violento paesaggio siculo».

Da quel lontano anno 1900 molto separa e molto è accaduto. Almeno a partire dalla seconda grande stagione neo-dialettale degli anni Settanta (aperta da Zavattini e dal ritorno di Guerra, seguita poi da Loi e Baldini, da Giacomini e Scataglini, da Calzavara e Zanzotto, per dire dei migliori) si segnala lo scollamento tra lingua dell’oralità e lingua letteraria: così, sia coloro che fiancheggiano o che incoraggiano i risultati conseguiti dai neo-dialettali (Brevini, De Santi, A. Campana, Gibellini, Isella, Mengaldo, Pasolini, Rack, Stussi, Tesio) sia coloro che, sulla scorta di ipostasi ideologiche, appaiono pregiudizialmente mossi a negarne il valore o a muovere riserve (Anceschi, Barilli, Berardinelli, Contini, Fortini, Luzi, Montale, fino al caso più imbarazzante di a-criticità o sprovvedutezza: “Perché dovrei leggere un poeta italiano che scrive in una lingua straniera?” come in più occasioni, su «Annuario della poesia» e «Poesia», ha affermato Giorgio Manacorda, trascurando almeno tre questioni invero ovvie: la prima, che il novanta per cento degli autori stranieri sono normalmente letti in traduzione, dal momento che rarissimi sono i sinologi o gli esperti di cirillico, di giapponese, di arabo o di israeliano; la seconda, il travisamento pregiudiziale, quasi razzista, e incommentabile, con cui si apostrofa come straniero chi scrive in dialetto; la terza, che, almeno a partire dal 1978, anno del controverso tentativo di Canone mengaldiano, lo sdoganamento e la pariteticità degli autori neo-dialettali è un elemento acquisito. Comunque sia, in entrambi i casi, di critica fiancheggiatrice o detrattrice, si tende a rimarcare il verticale crollo dei parlanti nelle lingue locali e il conseguente isolamento degli autori che scrivono negli idiomi, da considerare ormai questi ultimi non più socioletti bensì idioletti, e le lingue locali, non già e non più afferenti ad una oralità di riferimento, ma lingue privilegiate e personalissime, personalizzate, della poesia e di chi la fa: Sauro Albisani, Elsa Buiese, Bianca Dorato, Franca Grisoni, Albino Pierro, Franco Scataglini, Achille Serrao, Ida Vallerugo.

A beneficio d’inventario, occorrerà registrare che ancora oggi, nei mesi estivi, non è infrequente che qualche lucciola faccia capolino ai vetri della casa di chi scrive queste note, situata nella martoriata ex-campagna romana. Come nonostante le sirene e gli allarmi, le numerose varietà linguistiche presenti sul territorio italiano, sopravvivano, sebbene a una più stretta cerchia di parlanti, e più spesso si smarchino, si riciclino in più attinenti argot, patois, slang di neo-appartenenza. Neo-lingue e neo-scritture che attingono a neo-parlate, a idiomi non più autoctoni e chiusi in sé, bensì aggiornati a una istanza di accoglienza di lemmi italofoni e allotri, partecipi di quanto accade extra moenia; è questa, la migliore lezione di novità, e di congruità linguistica, che viene da chi, in prima linea nella ricerca, si posiziona su soglie o discrimini di meticciato, inclusivo o glocal: Mariano Bàino, Rut Bernardi, Nadia Cavalera, Nelvia Di Monte, Lussia Di Uanis, Fabio Franzin, Biagio Guerrera, Rosaria Lo Russo, Marcello Marciani, Giovanni Nadiani, Edoardo Zuccato.

Queste considerazioni potranno apparire superflue o fuori luogo, pur tuttavia, il lettore che si avvicina a Pani schittu, potrà, di contro, rilevare quanto ancora sia decisivo l’apporto diretto dell’oralità di riferimento, quanto ancora sia lontano dall’essere reciso quel duro filamento di lalia intercorrente tra koinè e scrittura in versi, socioletto e phonè.

Editi dalla storica casa catanese Prova d’Autore, attenta a valorizzare le peculiarità del territorio, i due primi titoli di Angela Bonanno, Nuatri (2003, risultato vincitore del Premio Salvo Basso, uno dei più apprezzati riconoscimenti in ambito di poesia neo-dialettale organizzato a Scordia, nel catanese, dalla omonima Fondazione intitolata all’autore prematuramente scomparso) e Setti viti cumu i jatti (2005), si pongono già su una soglia ancillare e paradigmatica di orizzonte di riferimento locale: Noialtri, e di cultura popolare, nel riferire di un detto: Sette vite come i gatti, che anticipa il ricorrere non infrequente alle formule tipiche dell’oralità, espresse da massime, sentenze, aforismi, aneddoti, fiabe, modi di dire territoriali. Ad un medesimo humus appartiene Pani schittu un sintagma nominale che nella parlata catanese implica un modo di dire polisemico, alla lettera: ‘pane solo’ o ‘pane senza companatico’, in grado di soddisfare o allentare il morso della fame, o pane che si mastica facilmente, come ad alludere a un alimento base, vitale.

Il pane come emblema e come tema, variamente declinato, costituisce una delle parole chiave della raccolta e, va da sé, una delle coordinate fondamentali del libro, nella duplice valenza, materica e simbolica. È motivo di origine e marca da subito in sottotraccia una differenza di genere: «me matri è n pezzu di pani schittu / di me patri non sacciu nenti», «mia madre è un pezzo di pane solo / di mio padre non so nulla»; è emblema della povertà materiale e morale in Tempo di fame: «senza fami», «senza fame», o della ‘fame nel mondo‘: «n pezzu di pani siccu nt‘o casciolu», «un pezzo di pane secco nel cassetto»; altrove, è elemento che rinvia a credenze pagane e a formule di religiosità figurali e popolari, come in Centomila scongiuri e preghiere: «ma u miraculu non veni e / u pani arresta sulu», «ma il miracolo non viene e / il pane resta solo»; o che richiama aspetti di etnografia religiosa, di attinenza rurale e umile: «u santu n testa / chiddu d‘e poviri / d‘o sulu pani», «il santo in testa / quello dei poveri / del solo pane»; vieppiù si costituisce quale correlativo oggettivo di una condizione di solitudine, o di silenzio in Sunu fatti di carni i to paroli, Sono fatte di carne le tue parole: «ma u pani è silenziu», «ma il pane è silenzio»; o di disagio: «u pani adduppa», «il pane resta in gola»; e ancora, investe il mondo delle relazioni, rivelandosi quale più concreta, e congrua (per rapidità di sintesi, per esattezza icastica di rappresentazione) a riferire della problematicità interpersonale, fatta di mancanze e perdite, di vuoti e insufficienze, di incomprensioni e preterizioni: «ca di ognunu na muddica / m‘arresta dintra / non sugnu spirituali», «che di ognuno una mollica / mi resta dentro / non sono spirituale»; a rimarcare la distanza, la fine di un amore: «u friddu / d‘e to manu / schitti comu u pani», «il freddo delle tue mani / sole come il pane»; oppure: «è sempri n fattu di fami / l‘amuri è quannu non c‘è», «è sempre un fatto di fame / l‘amore è quando non c‘è»; o un elemento naturalistico a forte allusività analogica non privo d‘ironia: «u pani schittu abbasta / ma i maccarruni / allinchiunu a panza», «il pane solo basta / ma i maccheroni / riempiono la pancia»; è oggetto di rivalsa, contro cui si scaglia un istinto libertario: «vasamu u pani d‘aieri e / ittamulu ê cani», «baciamo il pane di ieri e / buttiamolo ai cani». Interrelati al pane come alimento e come emblema, sono il senso di fame (una necessità fisiologica che sposa presto un più connaturato bisogno di affettività) e la percezione del freddo, al contempo, fisico ed emotivo, interiore e meteorologico. Inutile quasi rimarcare quanto sia urgente la forte valenza di una Stimmung attualissima, come in questo testo: «perdu sempri na cosa / a sira i tappini / a forza a matina / iù perdu / tu perdi / persimu tutti / è u verbu d’a catina», «perdo sempre una cosa / la sera le ciabatte / la forza al mattino / io perdo / tu perdi / abbiamo perso tutti / è il verbo della catena».

Gli ultimi prelievi testuali consentono inoltre di intravvedere la particolare formulazione retorica dei testi: oltre al ricorso a formule gergali e a modi di dire, si segnala il frequente uso della congiunzione ‘e’ posta a fine verso: a indicare che il verso quasi mai si chiude in sé, rinunciando alla valenza monorematica, e invece affida alla continuità testuale e sintattica il proprio discorso.

Altro elemento retorico strategico e caratterizzante, rilevabile in frequenza, è costituito dalle figure di ripetizione. Queste ultime, se ad una prima lettura trovano giustificazione nell’oralità, come elementi ecolalici e archetipici del discorso diretto, ma anche come dati di formularità glossolalica ricalcata da una matrice di religiosità popolare millenaria, ovvero dal Grande Codice della Bibbia: ripetizioni dunque da intendersi come vere e proprie genealogie, e ripetizioni come orazioni affidate ad elementi di recursività sonore che tracciano lo stigma di memorabilità dei versi.

Ad una lettura ulteriore, ci si accorge della sottile, raffinata tela ordita da questa sorprendente autrice: le ripetizioni sono sempre più complesse, e ne attestano l’elevata appercezione estetica, da esperta rethoricienne: basti leggere un testo, in questa chiave, esemplare: Sempri idda, Sempre lei: qui si va dalla epanodo, che come un mantra stigmatizza il rapporto con la madre, «me matri me matri / sempri idda», alla dittologia raddoppiata «me matri me matri», passando poi per l‘epanadiplosi: quel «sempri idda» che apre e chiude circolarmente il testo, anadiplosi che torna ad esempio in Assittatu nt’a testa, Seduto nella testa, dove il participio ‘assittatu‘ apre e chiude il testo poetico.

Ancora figure di ripetizione nel testo Cu s‘ammuccia nt‘a notti, Chi si nasconde nella notte, dove la ripresa lessematica da un verso all’altro o anadiplosi: «a notti / a notti», si fa ricerca di ambiguità linguistica e di variazioni nell‘anafora variata (con sovrapposizione di coniugazione singolare e plurale) ‘notti, notti‘ in presenza di una chiusa gnomica che si fa memoria proverbiale: «ca c‘è sempri u iornu ammenzu a du notti suli», «che c‘è sempre il giorno in mezzo a due notti sole».

Pani schittu è un libro coeso, forte per strumentazione, saldo per accordo di motivi. Motivi qui solo in minima parte svelati, lasciando al lettore margine e piacere della scoperta. Piacere di un testo mercuriale che restituisce la pienezza di sguardo, la complessità di lingua e argomenti, a volte l’urto necessario di una scrittura di estrema sintesi, affidata a ellissi e clausole tranchant e aforismatiche: «essiri scurdata è / non essiri», «essere dimenticata è / non essere»; o paradossali: «cu mi lassa / non mi perdi», «chi mi lascia / non mi perde».

Pani schittu pone al centro l’asse cibo-poesia-vita: ne fa implicata e non dirimente questione fisiologica, corporale e mentale. Sicché questa materia elementare, feriale e concreta, sarebbe di certo piaciuto molto a Davide Lajolo, indimenticato critico di Poesia come pane. Sarebbe piaciuto a Pasolini, indagatore inquieto delle scritture dialettali, e ne sarebbe rimasto anche sorpreso: quelle sue considerazioni sul realismo e sull’ambiguità di Lu fattu di Bbissana di Alessio De Giovanni, potrebbero in parte, solo in parte, valere anche per il lavoro di Angela Bonanno: tra naturalismo e ambiguità semantica, vitalità e ricerca. Ma su tutti, e più di altre, la direzione di questa scrittura, viscerale e concreta, umorale e molto fisica, muove verso una comunanza ideale con il paradigma di Assunta Finiguerra: non solo per il ricorso alla similitudine, il tropo più naturale, che evidenzia tutt’intera la humilitas come habitus, e la predilezione per il sermo humilis, non disdegnando qua e là accese sortite nel sermo merus. L’ascendenza con la Finiguerra si può cogliere ad esempio in questo prelievo testuale: «u cori è n’o ciancu /chiuso n’a scoccia comu na ficurinia / ogni passu na spina», «il cuore è nel fianco / chiuso nella buccia come un fico d’india / ogni passo una spina»; dove assieme alla similitudine, c’è il ricorso ad una metafora naturale, la buccia, che sembra precipitata per filiazione endogena della phonè. Ma l’accostamento alla poeta di San Fele è nei motivi dell’amore abbandonato, conteso, sofferto, nonché per quella natura ferita e ferina, vieppiù risentita, su cui posare uno sguardo autoironico, solo in parte consolatorio: «na lingua sula sacciu / chidda ca scava na fossa n‘a me vucca»,«una lingua sola so / quella che scava la bocca».

(Il testo di Manuel Cohen è la prefazione a
Angela Bonanno, Pani schittu
Piateda (SO), CFR Edizioni, 2014)

 

Testi

 

staiu nt’a statu di famigghia scarutu

(sto su uno stato di famiglia scaduto)

*

me matri è n pezzu di pani schittu
di me patri non sacciu nenti

(mia madre è un pezzo di pane solo / di mio padre non so nulla)

*

a fami nt’o munnu
non si pò saziari picchí
iù mi nni futtu
avi na simana ca non nesciu
n pezzu di pani siccu nt’o casciolu
mancu tanticchia di latti pp’abbagnallu
chista è a fami d’o munnu

(la fame nel mondo / non si può saziare perché / io me ne fotto / è una settimana che non esco / un pezzo di pane secco nel cassetto / nemmeno un po’ di latte per bagnarlo / questa è la fame del mondo)

*

essiri scurdata è
non essiri

(essere dimenticata è / non essere)

*

su cammassi u ventu
sbalancassi a finestra d’a frunti
cangiassi l’aria ê pinzeri
u giru d’o curtigghiu
n’ura di luci
pp’annicchia di paci

(se calmasse il vento / spalancherei la finestra della fronte / cambierei l’aria ai pensieri / il giro del cortile / un’ ora di luce / per un po’ di pace)

*

perdu sempri na cosa
a sira i tappini
a forza a matina
iù perdu
tu perdi
persimu tutti
è u verbu d’a catina

(perdo sempre una cosa / la sera le ciabatte / la forza al mattino / io perdo / tu perdi / abbiamo perso tutti / è il verbo della catena)

*

u scogghiu dici all’acqua
allazziti ca ti tegnu
moru dici l’acqua
mentri affunna
ma u sali u lassa

(lo scoglio dice all’acqua / allacciati che ti tengo / muoio dice l’acqua / mentre affoga / ma il sale lo lascia)

***

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11 pensieri riguardo “Il lievito Madre/Padre, o Doping, nella poesia di Angela Bonanno”

  1. Angela Bonanno è una grandissima poetessa, l’ho conosciuta lo scorso novembre a margine di una lettura a Modica (RG) inutile tentare di etichettarla come neo dialettale o neo catecumenale, è una poetessa formidabile, ce ne fossero…

  2. Un grazie particolare a Francesco Marotta, per la cura e la puntualità con cui ha postato anche questo mio trentesimo paragrafo (ma tutti i miei post sulla Dimora sono molti di più).

    @almerighi

    Bonanno è interessante (evitiamo i superlativi assoluti: occorrono metri e termini di paragone) e non è l’unica, ce ne sono di autori validi in giro per l’Italia, nel Mezzogiorno, e per il mondo.

    Per esigenze di spazio abbiamo trascelto alcuni testi molto brevi, forse a scapito di una visione d’insieme sicuramente più variegata e mossa.

    Nessuna esigenza di etichettare (anche se tra i compiti della critica c’è anche quello di collocare): semmai di inserirla all’interno di una realtà, quella neo-dialettale, ampia, riconosciuta, in parte storicizzata, e attendibile.

    Quella della neo-dialettalità è una nozione critica in auge ormai da qualche decennio, non l’ho inventata io (magari!). E non ha nulla di confessionale. Grazie.

  3. Angela ha un “detto” che fa la sua scrittura, e uno “scritto” che fa il suo dire – così compiuto, denso, verrebbe da dire “da pugno allo stomaco”, ma sembrerebbe un modo già fatto, o detto. La leggo da tempo, la conosco e riconosco, ho trovato eccezionale, tra l’altro, il suo primo romanzo Antologia della malata felice, un’epifania, un canto, un libro che consiglio vivamente di leggere. Pani schittu è un libro pieno di “presente”. In un dialetto che non è “forma scelta”, quanto esigenza, lingua, presenza, anche assenza, anche un sentire tutto personale, un continuo mutare e riconoscere, una scrittura che sa sempre sorprendermi, quella della Bonanno. Qualcuno direbbe, “piena di guizzi” – di “salti in aria”, di follie che rendono il lettore, anch’egli, vivo e presente.
    Saluti, e grazie :)
    Giampaolo Dippì

  4. Grazie Giampaolo
    De Pietro
    per quanto scrivi.

    Effettivamente uno degli aspetti più originali risiede proprio in quel saper sorprendere il lettore, spesso spiazzandolo con clausole fulminanti il cui esito è del tutto imprevisto.

    inoltre, credo che quanto tu segnali, tra ‘detto’ e ‘scritto’, sia poi rilevabile in un esito di assoluta congruità linguistica.
    ciao.

  5. “C’è a volte e in una evidenza incontrovertibile, in alcuni scrittori neo-dialettali, a differenza di molta produzione in lingua, un surplus di vitalità linguistica dagli effetti notevoli, per pregnanza materica e congruità di rappresentazione”. Hai ragione, Manuel. Anche perché il dialetto, o meglio la lingua topica, è più concreta, e legata a volte a un lessico più “povero”, se così vogliamo dire, che può evitare la spiacevole astrazione in filosofie di cui i poeti non sono capaci, perché dovrebbero essere poeti e basta. Continuo a pensare che la migliore poesia italiana di oggi non sia scritta in italiano.

  6. Grazie Natàlia.

    @Massimiliano:

    comprendo bene la tua affermazione,
    tuttavia,
    parafrasando quanto da te scritto,

    “continuo a pensare che la migliore poesia di oggi non sia scritta in poetese”, né nella asfittica lingua ‘pulviscolare’ e floreale che troneggia nella blandizie di alcuni ambienti metropolitani.

    il problema non è l’italiano, ci mancherebbe,
    quanto piuttosto l’uso che si fa di questa, come di altre lingue.

    Spesso leggo autori neo-dialettali che si affannano a dimostrare quanto hanno letto, e spesso finiscono con lo scimmiottare la tradizione italiana in lingua (ottave, sonetti, o metapoesia un po’ d’antan.
    Al contempo, sono convinto che ci siano validissimi autori in lingua italiana (quelli che sanno smarcarsi, a volte, non sempre, da una linea monodica (e monolinguista) e dalle mode del momento.

    un carissimo saluto a te

  7. FELICITAZIONI ad Angela Bonanno per questo suo lavoro e un rinnovato plauso a Manuel Cohen per il suo infaticabile spendersi in favore dei poeti in dialetto (e dei dialettali siciliani in particolare). Ad Angela, a Manuel, a Francesco M. e a tutti il mio più cordiale saluto, Marco Scalabrino.

  8. Grazie Marco,
    ma la mia conoscenza dei siciliani non è capillare (almeno non così capillare come può esserlo quella dei romagnoli),
    e comunque non ai livelli della tua :-)

    un carissimo saluto,
    m.

  9. Torno dalla presentazione del libro (bellissima) di Angela, che in verità non conosco per altre opere ma che in questa che ho appena pubblicato si rivela una poeta di vigore e precisione linguistica oltre che di “pensiero” e di spessore. La Sicilia è un crogiolo di ottime personalità, bravi artisti e bravi poeti che meritano una diversa attenzione a livello nazionale, perché la lingua è solo uno strumento, anche se importante, per veicolare una visione del mondo. Catania è una città da tenere d’occhio e Angela è sicuramente una personalità importante nella vita culturale catanese. Questa la mia impressione, forse ingenua ma vera.
    Su questo libro cercherò di investire energie per farlo conoscere anche al nord e al centro: è un libro vivo e guizzante, che fa svegliare chi dorme :-))
    G.

  10. Concordo con Gianmario.
    la Sicilia è una terra ricchissima di potenzialità e di autori interessanti. Catania poi, ha una piccola enclave di giovani molto seri e di talento. manuel

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