Giacomettiana, 1

Alberto Giacometti
Alberto Giacometti

Marco Ercolani

La mia statua più bella? Quella che mi guarderà veramente. Quella che mi guarderà per ultima. E allora io, libero dal mio compito impossibile, mi reinventerò un’altra ossessione, per prepararmi meglio alla morte.

Taccuini

Se copio come vedo

Pagine di Alberto Giacometti (1957).

Sono stanco, incerto. Il viso dell’uomo è una nuvola vaga. Ma anche per i pittori egizi o africani è così. Non sono il solo pittore moderno ad avere l’ossessione del volto, sono troppo stupido, troppo poco importante. Però ne ho parlato a molti, gli artisti moderni parlano sempre troppo e poi dicono il loro nome a chi li intervista. Milioni di sguardi prima del mio hanno cercato l’uomo e hanno ottenuto ombre, disegni, profili, scarabocchi appena accennati. Un pittore che si chiamava Nitso faceva solo dei buchi nel vuoto e quei buchi li chiamava nuvole…

Chiunque abbia dipinto o scolpito si è posto il problema del volto. Nel Congo, quando gli indigeni si acquattavano per spiare il nemico e lo vedevano da lontano, dipingevano quelle scene raffigurando i cacciatori con volti piccolissimi, appena segnati nella pietra.

Il Maestro delle Ore di Rohan. Un pittore che si chiamava così e dipingeva solo volti di defunti, cerimonie. Immagino un’asprezza, un’intolleranza particolare. Non credo di avere mai visto un solo suo quadro.

Nel Rinascimento hanno addolcito la realtà: hanno voluto modellare, tornire, stupire. Ma, a parer mio, nessuna di quelle Madonne o di quei guerrieri è reale. Reali sono i volti aspri di Cimabue e di altri primitivi, così asimmetrici, così irregolari, da essere somiglianti all’uomo. La vera somiglianza è diversa dalla falsa rassomiglianza dell’armonia prospettica – questo monumentale manierismo.

Jakob Copé, scultore mediocre, per tutta la vita lavorò a una statua. È morto nel silenzio, come uno spettro, e la sua opera non vale nulla. Io sono uno della sua specie.

Mi viene voglia di disegnare da tutte le parti. I volti sono come alfabeti. Avete mai pensato che, nell’attimo in cui si disegna un volto, già la mano è immersa nel miliardo di pensieri che occupano il cervello chiuso nel cranio di quella testa? Come posso dimenticarmene, quando dipingo? Come posso? Io non ci riuscirò mai.

Ricordo l’autoritratto di un pittore italiano: si raffigura gentiluomo dal volto languido e pensoso che regge un ritratto di se stesso – magro, occhialuto, pazzo artigiano.

Sono pittore e scultore: è questo il mio mestiere. Ma in realtà penso, e basta. Penso ai volti che non raggiungerò mai, alle mie strane isole fatte di occhi e di nasi. Fra me e il vero volto ci sono milioni di metri cubi di atmosfera, di aria pesante e leggera, traversata da mille fantasie e chimere che non spengono il desiderio di cercare chi sono, chi siamo…

Un vago senso di sonno. E gli occhi, lo spazio che li separa dalla vita. Non so nulla della vita, della morte, nulla.

Il mio sogno è disegnare una folla, tutta con un solo tratto, febbrile, concitato, fremente, come una macchia irta e grigia, e da quella, come per miracolo, far emergere, raggiungibile e reale, il vero volto.

Ricominciare di nuovo. Ricominciare da qui, senza una gran voglia né di leggere né di dipingere o scrivere, senza sapere bene chi sono e dove sono, come se mi trovassi in un isolotto minuscolo al centro di uno spazio imponderabile.

È sgradevole continuare. Mi sento troppa pelle addosso. Sono come un bosco pieno di foglie, oscuro, troppo folto. Vorrei che venisse l’autunno. Sono scoraggiato. Molti pittori, che hanno scolpito la terra prima di me, cercavano, come me, quel buco nella roccia, il volto? E se poi lo trovassi? Se lo rappresentassi? Non lo vedrei forse tutte le notti nei miei sogni a tormentarmi, a chiedermi ragione del mio lavoro, a impormi di disegnare, scrivere, dipingere tutte le immagini, i pensieri, le emozioni, i fremiti, i brividi che gli traversano la pelle e il cervello? Anche se la raggiungessi, quella testa rassomigliante, non diverrebbe forse, da allora in poi, il mio demone ostinato, il mio incubo?

Quella piastra, nello spazio. Un rettangolo, una pietra nera. Non vedo altro. E due righe dentro: una orizzontale, una verticale. L’uomo. Quante volte ho visto la pietra nera! E quella fessura al centro, gli occhi, la linea a piombo di un corpo. Mi sono sempre opposto a pensare la pietra come un grande sarcofago.

Una scultura grande non è che la copia immensa di una scultura piccola. Tutte le sculture – egizie, sumere, cinesi, preistoriche – sono così, anche quando sono gigantesche. E certe volte penso che per me il mondo è così piccolo e le figure sono così piccole perché io, anche se le guardo a due centimetri di distanza, sono sempre infinitamente distante da loro.

Il bicchiere: una meraviglia dell’universo. Non le divinità ittite. Il bicchiere, con tutte le sfumature del cristallo, con tutti gli occhi che lo hanno guardato…

Non voglio più copiare. Se copio come vedo, tutto sparisce.

Macchine, automi: quello che siamo. Successione di punti immobili. Nessuno, in realtà compie il gesto con cui sorvolerà se stesso.

Un teatro di fiammiferi, con le teste che bruceranno. Una tenda nera che oscilla giù. Un unico tratto scuro. Come un volto allungato.

Odio i profili. Non mi restituiscono la verità. Voglio guardare al centro. Ma al centro tutto si cancella, e torno a guardare i profili.

Una scultura caldea fatta a pezzi, un Rembrandt annerito e squarciato, cessano forse di essere dei capolavori? Ma una scultura astratta, che mostri subito il suo essere scoria, residuo, rifiuto del visibile, in che mondo si pone? In quello degli oggetti concreti o in quello delle opere vive?

Io dispero del mio stesso disegno: ha una “musica morale” che non realizzo solo con la mano ma col soffio della mia bocca che respira qui, su questa carta, su questa interminabile testa da finire.

No, niente alberi, niente animali. Mi attrae il mio simile, il mio sosia. Qualcosa di me, su cui si possa posare l’occhio di una bestia e riconoscermi e mandare vibrazioni animali.

I miei disegni sono la sensazione che mi è passata dentro e che mi ha afferrato al volo e che ho disegnato assolutamente nuda.

Ho perforato e scalpellato. Ho usato la punta come una trivella. Mille e mille segni, a rendere nera di colpi di matita la faccia che rappresento e percuoto, che non posso più arrivare a vedere – copiata, cancellata, ricopiata, rifatta, innumerevoli volte per innumerevoli anni…

Un giorno, nella mia camera, guardando un asciugamano su una sedia, ho avuto la netta sensazione che ogni oggetto fosse solo, e il suo peso assente. L’asciugamano era così solo che avrei potuto togliere la sedia senza che cambiasse il proprio posto, il proprio peso, persino il proprio silenzio.

Annerire. Cancellare. La carta – come un calco del volto che vorrei. Ma cosa voglio? Non disossare. Non rimpicciolire. Ma vedere mentre la vista cancella le cose, vedere nel momento estremo, quando la nebbia ti porta via gli occhi e comincia a rubarti il respiro.

Non ci sono opere. Si disegna, si scrive. Si mangia, si dorme. Si pensa alla morte. Il volto che non raggiungo me lo dice. Non ci sono opere finite. Solo una mano protesa a fare qualcosa. Una mano mozza, e basta. È quello che siamo. Una mano che cerca un volto. In fondo – a guardarlo bene – è proprio il simbolo di una carezza. E io – quand’è stata la mia ultima carezza? Ad Annette? A Diego? Non ricordo bene, da troppo tempo sono qui, come una talpa, nella polvere, circondato da statue che solo i ciechi sapranno sentire…

Ho lavorato a quel paesaggio per tre anni, con qualsiasi tempo. I fiori se ne sono andati, le foglie sono nate e morte. Alla fine, avevo quattro paesaggi completamente neri. Non potevo fare altrimenti. Il cammino è lungo ed è sempre una straordinaria avventura: se partissi su una nave per paesi mai visti e incontrassi isole impreviste e strani abitanti, mi farebbe lo stesso effetto. Non ho niente da chiedere se non poter continuare, perdutamente.

Copio il residuo di una visione. Ma quella scoria è affilata e incanta i vivi, rendendoli simili ai morti.

In definitiva, ho fatto il possibile. Per stare come so.

Alberto Giacometti Donna veneziana VII, 1956
Alberto Giacometti
Donna veneziana VII, 1956

Buchi nel vuoto

Altri appunti di Alberto Giacometti (1959-60)

Ho fatto diversi sogni ma non li racconterò su queste pagine. I trascrittori di sogni sono i poveri aiutanti che ci soccorrono per decifrare visioni dell’altro mondo. Ma io non voglio decifrare niente. Non voglio parlare del mio altro io, quello che si addormenta quando sono sveglio. Non sono uno scrittore apocrifo ma uno scultore fallito.

Certe splendide ragazze, che vedo in strada, mi tolgono dalla mente la mano di Maria che si posa sulla guancia morta di Gesù, negli affreschi di Giotto. La vita scorre. Deve scorrere. E io rendo i miei segni più fitti mentre disegno le montagne e le case. Così, coperte dal carboncino, sono meno esposte alla luce. Più naturali.

Noi, fragili pittori. Facciamo gesticolare figure piccole e torturate, come in un’incisione di Callot. Ma se osassimo guardare quello che sentono! L’aria da cui sono circondate! Un vuoto immenso. E Piranesi? Carceri enormi, con argani e corde. L’uomo cosa immobile, insetto lontano. Che mancanza di pietà!

I matti sono quelli che si coprono il volto con le braccia perché è scorticato.

Che voglia di fare, in quindici giorni, la statua vera, risolutiva!

Ma poi, come spiegare al mio modello che invecchierà? Che la scultura che lo raffigura si sgretolerà dopo di lui? Per insegnargli questo comincio a fare a pezzi la creta della faccia che gli assomiglia e non gli assomiglia abbastanza, lì, fra guancia e bocca, con un coltellino.

Cézanne è il pittore più profondo, ma anche gli uccelli di Braque, come sono reali! Piatti, appena disegnati. Neri sul bianco.

La possibilità di percepire figure armoniose. Forse a quindici anni, quando avrei voluto scolpire le illustrazioni della Bibbia.

Aggiungere qualcosa agli occhi? Sarebbe ridicolo. Più appropriato togliere. Già, si vedrebbero le orbite. È spaventoso, ma bisogna andare avanti.

Una radiografia? Tutti uguali sotto la lastra, diversi per una macchia più piccola o più grande. Sciocchezze. Bisogna saper vedere uomo per uomo.

Non potrò mai esser meno di quello che sono. E quello che sono è un pittore che non riesce a mettere a fuoco.

Dicono che avrei copiato da Dürer o da Rembrandt come se fossero dei Giacometti. Ma allora, quando Rembrandt dipinge Tiziano perché trova Rembrandt? Senza la propria ossessione, che prevale su tutto, non si viene a capo di nulla.

Non mi tolgo la vita perché domani potrei realizzare quello che non ho fatto finora. Credo ai miracoli come credo alla polvere sparsa sui miei disegni. Ieri, ne ho bruciato diciotto che non valevano niente.

Tengo i miei appunti in una scatola di fiammiferi; talvolta le ultime statuine, prima di una mostra.

Si dice che un pittore, grazie alla pittura, possiede a distanza. Ma mi sembra un’ipotesi da stregone. Io perdo anche quello che guardo pochi centimetri davanti a me.

Si ha una sola cosa da dire e per il resto bisogna tagliar corto. Intorno a quella cosa, inoltre, sarebbe opportuno far rotolare qualche masso, per proteggerla da sguardi estranei.

Ha ragione Genet, quando scrive che io non dipingo né per i miei contemporanei né per chi verrà dopo di me, perché faccio delle statue che incantano i morti e rendono i vivi simili ai morti che saranno.

Più della grande pietra liscia e scura, insostenibile allo sguardo, che vidi da bambino su quella spiaggia, mi interessano le pietruzze scheggiate dei fossi, piene di crepe e di fessure, miei compagni e miei complici. Quasi che quella grande pietra nera abbia avuto il diritto di esistere solo nel momento armonioso e potente dell’infanzia felice.

Talvolta, quando mi sento più rabbioso, comincio a gridare contro le mie povere sculture, a colpirle con scalpello e coltello; mi chiedo se, in effetti, non siano loro a fare di me quello che sono, e non il contrario.

Tutto è così perfetto e risoluto, nelle statue che vedo, soprattutto in Brancusi. Solo io sono lo stupido, che scavo e smuovo. Mi ritrovo molto nell’ultimo, vecchio, perplesso Rodin. Forse in Medardo Rosso. Ma loro erano impressionisti, agitati dalla luce, amanti delle superfici. Un bambino mi ha detto, guardandomi la manica macchiata di caffè mentre fumavo e mangiavo un uovo al bar, se quella era cenere. «C’è stato mica un terremoto, signore?». E io mi sono messo a ridere.

I cieli. Luminosissimi, insostenibili, azzurri. Come evitarli?

Le mie piccole geografie sono i passi, le facce, le braccia. Lo devo, a questa specie macilenta che va a tastoni nel buio.

La statuina etrusca di Volterra che simboleggia la sera? «Ecco dove nasce la sua arte, Giacometti» mi dicono fior di critici. Ma non hanno ragione. Io prendo solo quello che c’è, quello che vedono i miei occhi. E io non ho mai visto quella gentilissima, sottilissima, tanto perfetta figura. Io e lei siamo due estranei.

Mi sento così disarmato, circondato da pittori non indispensabili! Io – aiutante magico di me stesso, servo di me.

Tutto ricomincia sempre. Da quando ho sentito cosa significa la morte, sento che tutto ricomincia. Anche perché ogni giorno che, finora, ho impiegato a scolpire, è stato un giorno sprecato. Come artista, vivo nella nebbia. Ma domani?

Non lavoro, come gli antichi, su corpi e paesaggi che sono la somma delle conoscenze e dei saperi di un’epoca armoniosa ed esatta, corpi e paesaggi che il pittore non vede ma si raffigura come esempi. Io, come al solito, mi arrangio con quello che vedo. E l’altro giorno, quelle tre ragazze che ridevano nel buio, con la luce del lampione che sfiorava le unghie dei piedi, in piena estate, mi hanno mandato nel pànico. Mi sono chiesto che disegno poteva raffigurarle. Mi sono risposto: nessuno.

La mia statua più bella? Quella che mi guarderà veramente. Quella che mi guarderà per ultima. E allora io, libero dal mio compito impossibile, mi reinventerò un’altra ossessione, per prepararmi meglio alla morte.

Non ho fatto abbastanza. Finché sono vivo, non faccio abbastanza.

Una volta scrissi: smetterla di fare buchi nel vuoto. Oggi mi dico: come li disegno, i buchi nel vuoto?

Alberto Giacometti Annette noire, 1962
Alberto Giacometti
Annette noire, 1962

La combustione muta

Una lettera inedita di Alberto Giacometti (1967)

Stampa, 15 ottobre

Le scrivo, Monsieur Dupin, per declinare il suo gentile invito. Non sono assolutamente in grado di scrivere per “L’Ephémère” un articolo sulla leggerezza della materia. Anzi, potrei dire di essere il meno adatto a scriverlo…

Le spiegherò.

All’inizio ero ossessionato dal bianco dei fogli. Mi accecava, il bianco. Spaventato da quella luce, la annerii con forti tratti di matita. Creai una folla di segni, di foglie, di oggetti, che talvolta erano volti e corpi, talvolta no, erano qualcosa di pullulante, di ossessivo, di interminabile, che si muoveva da sé, che occupava tutto il foglio, dove la matita poteva delirava e colmava, faceva emergere e distruggeva, e questo mi dava un senso di ebbrezza, mi sentivo sovrano della carta, era meraviglioso. Anche se poi il foglio, annerito di segni, restava così, fermo davanti a me, come un blocco muto, una roccia che non potevo scalfire, qualcosa d minerale o di vegetale, una pietra liscia e nera, senza aperture, che non risponde alla mia voce…

Fu nella disperazione di quel silenzio che, all’improvviso, sentii crepitare le cose. Fu un momento terribile. Ritornò il bianco. Esigente, assoluto. E quel giorno non potei che fare un volto sottile,un profilo aguzzo. Lasci  fogli e misi mano ad altre materie. Scolpii. Sentivo che si consumavano, nelle mie statue, incendii terribili; silenziose ma assolute le fiamme ardevano sempre, invisibili a tutti ma non a me, che ne avvertivo il fruscio, il crepitìo, il fragore; percepivo i colpi secchi del legno che brucia, si spacca, cade al suolo, i piccoli urli dei bambini, gli urli disperati degli adulti.

Fu allora che comincia a dare al bronzo – alla materia dei monumenti – l’apparenza che ora vi sconvolge: questa esistenza atroce, da oggetto bruciato, che persiste nel suolo en ella terra dove è andato in fiamme, che non rinuncia a denunciare l’incendio che lo ha scorticato fino all’osso e  che continua a scorticarlo, eternamente presente.

Ecco, io sono testimone di questo fuoco che distingue e che elegge. Non c’è più, in me, un’acqua che slavi, un’aria dove essere n volo, ma figure che esigono di mostrarsi; figure, sempre, con un corpo attaccato alla terra, pesante e sottile, che non può non esibire il suo dolore, che non si cancella mai e resta – sepolcro, testimonianza, emblema di un’arte che non immagina nulla dietro di sé.

Pochi hanno visto nella mia opera questa struttura colossale, scuoiata dalla sofferenza. Io ho fissato il fuoco per sempre. Altri hanno fatto lo stesso per l’aria o per l’acqua. Non a caso ho vissuto in una tana, attutissimo alla terra. E qui, in questa tana, sento voci che mi sconvolgono, che parlano della musica delle cose, sento suoni morbidi e freschi, estranei alla mia lingua di pietra, al mio fuoco di bronzo.

Ma io resto qui. Ormai non posso rinunciare alle forme dove mi sono scorticato vivo. Non conosco altri mondi che il mio. Sono un povero contadino.

Perciò devo ripetervi di no, Dupin: non mi chiedete quell’articolo sulla leggerezza e sugli spazi, sui segreti dell’aria. Non potrei scriverlo. Forse – non è follia la mia affermazione – lo potrebbero Brancusi, Ubac, Valmont. Certo non io.

Io potrei parlarvi – se il tempo me lo consentirà – del fuoco che brucia i campi e non permette al seme di nascere.

Alberto Giacometti Grand nu, 1961
Alberto Giacometti
Grand nu, 1961

Alle quattro, nel giardino

Una fantasia (!?) di Alberto Giacometti conservata dentro una copia de Le Monde con il titolo “Alle quattro, nel giardino”. Le sottolineature sono dello stesso Giacometti.

Solo un rapido biglietto, Vincent. Ricordo la nostra conversazione di un’ora fa. Riprendo il discorso adesso: è difficile provare emozioni (oso appena pronunciare la parola.) Chi mostra di averle, ne è privo. Chi ce l’ha, si vergogna di averle. Guarda a che prezzo paghi le tue. Le consumi nei gialli. Le bruci in quei blu e in quei verdi che gli occhi dei nostri contemporanei non sopportano ancora. Superfluo siano sedie, fiori o cieli, perché è tutto un vortice. Che fatica!

Comunque non mi nasconderò. Non farò come il cinquanta per cento degli uomini, che ti giudicano uno strambo da evitare come la peste. Mi mostrerò, se vuoi farmi il ritratto. Mi farò vedere per come sono, o almeno per come credo di essere. (Soddisfo, in queste righe, una tua curiosità: mi sono laureato in medicina con una tesi psichiatrica, uno strano lavoro sulla malinconia che inquietò i miei relatori: parlavo di fisionomie, di gesti, di posture.)

Mi metterò in posa per te da domani, alle quattro, nel mio giardino.

Sarò un modello obbediente.

Tuo Paul Gachet

Alberto Giacometti Diego assis, 1961
Alberto Giacometti
Diego assis, 1961

Testimonianze

1

Da una lettera inedita di Nicolas de Staël a René Char, 1950.

[…] No, René, io non sono d’accordo con la poetica di Giacometti. Stimo la sua ostinazione, ammiro la sua forza, ma non sono d’accordo con la sua scelta. Scolpire volti, intagliare figure, circoscrivere il mondo a figure straziate. È riduttivo, per un artista, come se volesse solo radicarsi nella terra, nella cupa, stretta terra: ci sarà tempo dopo. E i colori dell’aria, portati dalla luce, modellati dal vento? Io voglio di più. Io voglio il massimo. Io voglio il cielo, che vortica e rapisce.

Nicolas

2

Dagli appunti di scena di Samuel Beckett per Aspettando Godot (1953).

Ho lavorato bene, con Alberto, insieme, ma il melo che lui aveva disegnato, per la messinscena di Godot, era esagerato. Senza rami, alto: ma si sentiva che i rami c’erano stati ed erano fioriti, svettando nel cielo. Inutile eccesso: bastava una linea più semplice, come consigliavo io. Ma alla fine ha vinto lui, ostinato contadino. D’altronde, era il maestro della mia scena. Potevo metterci becco, nel suo melo di gesso?

La prossima volta mi faccio l’albero da me. Secco il giusto. Oppure un niente con un fascio di luce. Sono giorni che trovo tutto troppo sentimentale, troppo umano.

Beckett

3

Da una pagina di taccuino di Henri Michaux (1964).

Veloci, tormentati, febbrili i suoi volti: è veloce come me, nell’esecuzione, Giacometti, forse più veloce anche se sembra lento. Ma lui ha qualcosa che io non vorrei mai avere, ha febbre e dolore per gli uomini, è ingenuo, ama le uova, il caffè, la polvere, i giornali, le puttane, la romantica air parisienne. Io la detesto. Degli umani diffido: sono insolenti, stupidi, e muoiono troppo tardi. Certo non passerei la mia esistenza a cercare di copiare un volto umano così come lo vedo. Vorrei che fosse l’uomo a vedere i miei segni e si trasformasse in loro, e l’universo diventasse un sistema geometrico di armoniosi alveari, non un pianeta puzzolente e troppo abitato. Il mondo è un enigma, non una passione.

4

Frammento incompiuto di René Char per Alberto G.(1970).

La sedia disegnata, ridisegnata, cancellata, rifatta, ricreata, di un grigio eroso e irreparabile, come la parola poetica a precipizio sul foglio bruciato. Una sedia-palinsesto che non smette di svanire e di ricrearsi, briciola sotto i temporali, i graffi, gli ematomi di ogni colpo di matita, che scalpella il foglio. Sedia dove si nuota, non ci si siede. Sedia rustica dove a volte Alberto, la sigaretta accesa, riesce a dormire, le statuine nascoste dai vecchi giornali del giorno, statuine che Diego gli ruba di notte per rifarle grandi e di bronzo, e al mattino Alberto vorrebbe essere certo che fossero là, nella spazzatura, ma non lo sa, non vuole, è pigro, non si muove, ha il sonno negli occhi, la vecchia vertigine; triste maniscalco, ritorna a scolpire dentro le esitazioni dell’alba, nella ferma roccia delle antiche rughe.

5

Confessione di Marlène Dietrich a un giornalista francese (1988)

Fu uno splendido amante, Alberto. Un po’ troppo silenzioso. Conservo la sua statuina accanto al mio letto. Ricordo che mi adorava, parlava del mio silenzio animale. Di lui era gelosa non la moglie ma la sua puttana: buffo, vero? Non gli piacevano le donne che chiacchierano troppo: era incantato da come von Sternberg fotografava il mio volto quando cantavo in Shangai Express. Diceva che avrebbe voluto fare lo stesso per le sue teste, ma sarebbe stato un fallimento. “Io non seduco le mie vittime, io le catturo”, diceva. Io, quel testone da contadino ostinato me lo sogno tutte le notti.

M.D.

alberto Giacometti Homme qui marche, 1947
Alberto Giacometti
Homme qui marche, 1947

__________________________
Se copio come vedo è stato pubblicato in “Ipso facto”, 3, 1988, poi in Carte false, Hestia, 1999. La combustione muta in “Riga” 1, 1991 (ristampa “Riga”, 11, 1996); poi in Vite dettate, 1994. Gli altri testi sono inediti.
__________________________

***

12 pensieri riguardo “Giacomettiana, 1”

  1. Ecco parole vere e soavi, almerighi, quanto durissime. Rara duplice verità della parola e del'”opera”, per quel poco che ne so…Bello, grazie. Sercord

  2. Ringrazio Francesco per l’impaginazione dei testi (sempre sintonica e splendida) e ringrazio chi ha commentato finora. Una precisazione banale, ma che a volte sfugge: tutti i testi sono stati scritti e immaginati da me, a partire da alcuni mattoni di vita reale (Giacometti e il suo amore per Marlene Dietrich, Beckett che con Giacometti allestisce alla fine degli anni 50 il suo “Aspettando Godot”, etc ). Giacometti è la suggestione-guida che mi ha spinto a iniziare questo dossier apocrifo. Parole soavi e durissime, leggo: più dure che soavi, credo, e soprattutto perplesse, come è abitudine di un artista che non smette di reinventarsi e di ricominciare sempre da zero. Grazie ancora e…spero di ricominciare anch’io, con altri taccuini e lettere. M

  3. “Parole soavi e durissime, leggo: più dure che soavi, credo, e soprattutto perplesse…” Perfettamente d’accordo, non sulla perplessità. La mano è fermissima, magari nel dire appunto dure perplessità. Grazie a m.e. Sercord

  4. non ho ancora finito di leggere tutto ma
    mi sono segnata a matita le rivelazioni più taglienti,
    una in particolare mi ha …coinvolta
    questa:

    Odio i profili. Non mi restituiscono la verità. Voglio guardare al centro. Ma al centro tutto si cancella, e torno a guardare i profili.

    perchè al centro tutto si cancella?

    su Cèzanne sono d’accordo, lui è profondo come i cipressi sul lago…

  5. Vero: mano fermissima nel dire dure perplessità.

    “Al centro tutto si cancella” perché non c’è mai un centro assoluto, un’armonia dominante, ma qualcosa che sempre sfugge: il volto fragile, relativo, da inseguire con ostinata ossessione.

    Gli “Scritti” di Giacometti, leggibili in edizione italiana, testimoniano il suo travaglio.

  6. ecco spiegato perchè il centro non esiste …esiste però, l’eterno ritorno.

    oggi al mercatino dei libri ho trovato due gioielli :-)
    memorie dal sottosuolo e il prato in fondo al mare …

  7. Nella “Confessione” della Dietrich ritrovo, assieme alla straordinaria capacità di calarsi nei panni di personaggi celebri ( e meno celebri), la passione per il cinema del nostro Marco.
    Tra l’altro, “Shangai express” piace molto anche a me.
    Bravo Marco!

  8. è giunta l’ora di prendere sul serio la scrittura di Marco Ercolani (?)

    ‘Vorrei che fosse l’uomo a vedere i miei segni e si trasformasse in loro’

    un abbraccio

Scrivi una risposta a sercord Cancella risposta

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.