Dario Pasero: Il qui e l’altrove della lingua

Dario Pasero

Manuel Cohen
Dario Pasero

REPERTORIO DELLE VOCI
NUOVA SERIE, N. 7 (XXXIV)

Dario Pasero:
Il qui e l’altrove della lingua.
La scrittura della residenza
e dell’erranza.

Certificato da buone uscite in riviste specializzate e in antologie di settore, fondatore a sua volta di periodici: «La Slòira», «L’Escalina», con in attivo studi di letteratura piemontese e prose dialettali, Dario Pasero, che ha licenziato pochissimi titoli di poesia, è tra gli autori di versi più interessanti della scena contemporanea. Riportiamo le argomentazioni con cui Giovanni Tesio, studioso tra i massimi esperti di scritture neo-dialettali in circolazione, congedava la prefazione a An sla crësta dl’ombra (Ivrea 2002), di Pasero: «È poesia mentale che dà voce a profonde passioni interiori. Per chiudere questi piccoli appunti che nemmeno sfiorano la ricchezza di un linguaggio a sua volta forte e prezioso, esatto e spigoloso, arcaicizzante e vibrante, vorrei dire che An sla crësta dl’ombra mi ha fatto venire in mente – insieme con la lezione magistrale di Pacòt – molto dell’Olivero più munito e qualcosa del Burat più fatato. Ma qua e là anche alcuni irresistibili echi lessicali di Antonio Bodrero e forse qualche erratica invenzione di Bianca Dorato. Dico questo solo per sottolineare che una poesia di tanta densità avrebbe bisogno di ben altra attenzione intertestuale. Se è vero che l’universo dei poeti è un tessuto di reminiscenze, l’universo di un poeta come Pasero non fa che confermare un fatto: la tradizione classica e la tradizione piemontese stanno sulla cresta di un’ombra (di un’onda) che continua a provocar sorprese».

Il nuovo libro che il lettore si accinge ad aprire, Tèit Canaveuj, Tetti Canavoglio, conferma, specifica ulteriormente, ed amplifica, quasi dirottamente, nel precipitato del verso, le matrici e le direttrici a suo tempo individuate da Tesio. È come se lo sguardo, rivolto al particolare, zoomato nella ricerca di una couche elettiva, di memoria del paesaggio e di memoria linguistica a cui allude il titolo, tra toponimo e invenzione, si produca in successioni di piani-sequenza che rivelano la natura altra, e tutt’intera l’alterità della voce dalle riberberazioni e dalle tonalità di ampio spettro.

Poeta di margini stanziali e di immaginifici scenari di erranza o sconfinamenti, potremmo dirlo, che tra le molteplici, sedimentate risonanze, sembra per un verso coniugare l’esperienza di due grandi figure della poesia del Novecento e del nuovo secolo: la prima, Bianca Dorato (Torino 1933-2007), a cui è accomunato dalla comune phoné di riferimento e dall’elemento naturalistico afferente al paesaggio del Piemonte meridionale e alpino, nella individuazione di una Piccola Patria elettiva, o locus amoenus creaturale ed ontologico, naturale ed esistenziale; mentre, per altri versi, sembra idealmente richiamare l’esperienza ondivaga ed erratica della poetica post-moderna, meta-poetica e citazionista della seconda figura qui avocata: Ida Vallerugo (Meduno -PN- 1946), poetessa del versante alpino orientale e friulano: segnatamente per uno stigma di impermanenza e per il continuo inseguimento di un altrove, mitico e simbolico, orfico e speculativo, come per quella istanza di viaggio, ri-cognitiva e rammemorante, iper-letteraria e classica. Due voci che, certo quasi di riflesso, e sarebbe il caso di evocare pure i nomi delle rispettive antecedenti o apripista con il rischio di una digressione troppo ampia per una nota introduttiva: Eugénie Martinet (Aosta 1896-1983) e di Elsa Buiese (Martignacco -UD- 1926-1987), voci tutte che hanno fatto del rispettivo scenario o paesaggio alpino, un contesto, uno sfondo e una occasione continua di osservazione e riflessione da cui continuamente virare per sentieri incogniti e desueti, ondivaghi e meticci.

Incipit libellus

Dle vire
ij branch ëd la neuit
am soagno
con ij seugn.

Tavòta
am sopato
con ël carcavèje.

[Talvolta / i rami della notte / mi carezzano / con i sogni. // Sempre / mi scuotono / con gli incubi]

I testi brevi, spesso brevissimi, di Tèit Canaveuj si versano in strutture che a volte richiamano certo sillabato ungarettiano, come già ad altezza del primo testo del libro costituito di due strofe rispettivamente di 3 e di 4 versi ciascuna: Incipit libellus, e si segnalano per raffinatezza di sonorità affidata alla recursività della dittongazione: ij, oa, eu; e della trittongazione: eui, èje, con prevalenza di vocali aperte che danno ariosità al testo, armonizzato da alcune corrispondenze testuali, o simmetrie, intercorrenti tra prima e seconda strofe: Dle vire, Talvolta v.1; Tavòta, sempre v.5; am soagno, mi carezzano v.3, am sopato, mi scuotono v.6; con ij seugn, con i sogni v.4, con ël carcavèje, con gli incubi v.7. La riproposizione di una medesima struttura in cui a variare è la funzione dei rami (carezzano, scuotono) e dei sogni che si fanno incubi.

Si tratta, va da sé, di un primo esempio testuale che chiarifica al lettore la coincidenza di due elementi non necessariamente opposti: la chiarezza della lingua, quasi una sua linearità basica, nell’inopia aggettivale e verbale, e, al contempo, una elegante formulazione linguistica che, attraverso l’asciuttezza del dettato, coniuga forma e contenuto, dando luogo a clausole fulminanti e a una scrittura nutrita di cultura classica e popolare, di visione e di pensiero. In questo senso, Tèit Canaveuj si configura nella sua più autentica e classica dimensione di libro organico e puntuale, in cui una memoria culturale e antropologica stratificata, attestata dalle puntuali note in margine poste dall’autore curioso che non può non sollecitare ulteriormente la curiosità di chi legge, e che attestano della dimensione enciclopedica, o semplicemente della cultura di Pasero, con i continui prelievi e le incursioni nel Greco antico e nel Latino, nel Francese e nel patois provenzale e nell’antico piemontese, nella filosofia e nella teosofia, nell’ebraismo (la splendida figura dell’errante affiora tra i versi, si fa ulteriore leit motiv, riemergendo come tra le lande e un fiume carsico, e si fa metafora stessa del viaggio di conoscenza, del nomadismo, del meticciato della phonè, una autentica miniera o lingua-spugna attingente al bagaglio di esperienze e culture, di idiomi o lalie autoctone e metamorfiche) o nella Cabala, nella numerologia o nella dimensione magica e mitica delle fiabe popolari come pure nell’etnografia.

Di qui, una propensione immaginifica, un effluvio o ridondanza ben controllata di tropi e metafore tanto stringenti quanto congrue per potenza icastica di rappresentazione di pensiero: sarà sufficiente in queste righe ricordare il testo eponimo, tra i più potenti e riusciti, ossia tra i più belli del libro, in cui, nell’affastellarsi stratificato delle storie, delle epoche e delle lingue, si rincorre il filo conduttore di una sopravvivenza di memoria, e di esistenza: così nei luoghi leggendari del XIV° secolo, della Regina Giovanna D’Angiò, le sopravvissute baite sono ora stalle o risacche, o rifugi di pensieri trascinati dalla slitta della poesia: «Tèit Canaveuj 1. An costi bòsch / onda la Reino Jano / a l’ha lassà soe marche / galinòire // le dariere mèire / a son d’ëstabi /’d pensé e d’arcòrd / rabastà da mia lesa», « Tetti Canavoglio 1. In questi boschi/ dove la Regina Giovanna/ ha lasciato le sue impronte/ di gallina// le ultime baite/ sono stalle/ di pensieri e ricordi/ trascinati dalla mia slitta».

Una scrittura di grande fascino e di indiscutibile valore. Una conferma per l’autore e una riprova di quanto ampie siano le possibilità della scrittura neo-dialettale, di quanto duttile e congrua la sua intelligenza di natura e delle cose. Una voce e una parola poetica che dialogano ad ampio raggio con le lingue, le nature e le culture globali: memoria babelica e plurilingue, come «un canto che scorre senza confini», «Ël cant a cor sensa finage».

(Manuel Cohen, Prefazione)

 

Testi tratti da:
Dario pasero
Tèit canaveuj (Tetti canavoglio)
Prefazione di Manuel Cohen
Pasturana (AL), puntoacapo editrice, 2014

 

An costi bòsch
onda la Reino Jano
a l’ha lassà soe marche
galinòire

le dariere mèire
a son d’ëstabi
’d pensé e d’arcòrd
rabastà da mia lesa

[In questi boschi / dove la Regina Giovanna / ha lasciato le sue impronte / di gallina // le ultime baite / sono stalle / di pensieri e ricordi / trascinati dalla mia slitta]

 
*
 

L’aria nisia dla suitin-a a cissa
vos garavlùe ch’a socròlo
ant le mistà dij pilon
ij branch dël Nen-esse.

San Gra, ti ch’it goérnes
neusti camp e nòst sudor,
avèj nen tëmma dë s-cianché
ij soastr malsoà dla borin-a

[L’aria malaticcia della siccità stimola / voci stoppose che scuotono / nelle immagini delle edicole votive / i rami del Non-essere. // San Grato, tu che proteggi / i nostri campi e il nostro sudore, / non aver paura di strappare / le gomene inquiete della nebbia]

 
*
 

Rangòt ëd silensi
a resto da d’univers rusnent
ëd veuid rèid ëd dësmentia
[ηδονή εν κινήσει ηδονή καταστηματική]

Mach n’arfiajì daleugn
n’ambrun-a ross-brajanta
as ësmasisso ’nt ël vieul doleuri
d’un mond avisch ëd dësmentia

[Rantoli di silenzio / rimangono da universi rugginosi / dei vuoti rigidi di oblio / [ηδονή εν κινήσει ηδονή καταστηματική] // Solamente un sospirare da lontano / un tramonto rosso-urlante / si spengono nel sentiero doloroso / di un mondo acceso di oblio]

 

*

 

Parèj ëd na vijà
ant në stabi veuid ëd breugg,
la vita an passa aranda
ant ël vertoj d’un chinché minciant.

S’un soastr cunant pendù ’n sël Nen
[scire nefas quem mihi, quem tibi]
un buf ëd bisa frèida dun-a a dëstissa
giòle grignòire che ancó a veulo s-ciuplì

[Come una veglia/ in una stalla vuota di muggiti, / la vita ci sfiora / nel viluppo di una debole lampada. // Su di un canapo cullante sospeso sul Nulla / [scire nefas quem mihi, quem tibi] / un soffio di aria fredda subito spegne / faville ridenti che ancora vogliono scoppiettare]

 

*

 

Vrità d’ancheuj e silensi ’d doman,
ma la mira ch’a marca ’l finagi
për la ment ch’a la susna
a l’é tavòta ’nt l’istess ëstrasseugn

Da lë sclintor tut-nossent;
rèida ciap’lòira dla gòj, d’àutri gòi a n’arcassa

[Verità di oggi e silenzi di domani, / ma il punto che segna il confine/ per la mente che lo brama / è sempre nel medesimo incubo // Dalla luminosità tutto-innocente; / rigida trituratrice della gioia, altri “gentili” ne respinge]

 

*

 

Ël cant a cor sensa finage e a taja
minca n’anvension dla fantasìa

Minca un romé solengh a susta ’l veuid
dël silensi ch’as ësmasiss
an arcòrd parià ’d dumìniche

Paròle bòrgne e fiape as angavigno
an s’un fil ëd labirint,
ch’a vàita ’l de-barbin
ch’a-j dogna la conossensa ancreusa.

[Il canto scorre senza confini e taglia / ogni invenzione della fantasia // Ogni pellegrino solitario brama il vuoto / del silenzio che si stempera / in ricordi preparati di domeniche // Parole cieche e molli si avvolgono / su di un filo labirintico, / che osserva il dio-agnellino / che gli dia la conoscenza profonda]

 

*

 

A l’ambòss le paròle a chito
sò silensi ch’a vemprìa ’l veuid
con soa essensa ch’a smija
mai chité.

I frogno ij pensé ’d figure squadrà
’nt sò esse ’d forme geomètriche:
triàngol, la mare ’d minca forma
– αυτός έφα –

e ’l nùmer tre ’d toa vita
as ësmasiss an mi

[All’incontrario le parole interrompono / il loro silenzio che riempirebbe il vuoto / con la loro essenza che sembra / mai cessare. // Frugo i pensieri di figure squadrate / nel loro essere forme geometriche: / triangolo, la madre di ogni forma / – αυτός έφα – // e il numero tre della tua vita / si scioglie in me]

 

*

 

Mineuje le piòte dël luv
a van bronciand a taton
ël bòsch a brus a galusa
dzora ’d në stabi ch’a speta

fèje ch’a serco ’l bërgé
fërvaje spatarà sensa sust
arsaj e marele a dësdavano
marche ’n sla sternìa dl’Esse

[Leggére le zampe del lupo / vanno inciampando a tentoni/ il bosco rischiando sbircia / sopra una stalla che attende // pecore che cercano il pastore / frammenti sparsi senza ragione / aneliti e gomitoli rivelano / impronte sul selciato dell’Essere]

 

*

 

Deurv tòi làver ëd genèiver
e conta le stòrie ’d faje e sërvan
anans che ’l creus dël temp
as ëspantia su ruà e mèire.

I l’hai vëdù lë scurs
e mia memòria a lòcia
ciapà d’la ragnà,
ant ij fij ch’an goerno

[Apri le tue labbra di ginepro / e racconta le storie di fate e folletti / prima che la profondità del tempo / si sparga su borgate e baite. // Ho visto il basilisco / e la mia memoria traballa / presa dalla ragnatela / nei fili che ci tengono in vita]

 
*
 

’Nt la man duverta
dël pensé
i spantio azar e sënner
dla dësmentia
apress ëd nòst trassé a la garabìa

Brisand la mzura eterna d’un Pensé
ch’a chërd d’avèj trovà
l’órdin d’un De
ch’a fà ’nt ël veuid dël mond
s-ciairé ’l Tut-Nen

[Nella mano aperta / del pensiero / spargo rischio e cenere / dell’oblio / dopo il nostro imbrogliare alla rinfusa // Sfiorando la misura eterna di un Pensiero / che crede d’aver trovato / l’ordine di un Dio / che fa nel vuoto del mondo / vedere il Tutto-Nulla]

 

*

 

La confusion ancreusa
’d cost me aleph
a marca con soe rupie
minca litra
ch’a peussa granfé
l’esse dël mond

Minca paròla a arziga
nié ’nt l’abim
ëd soa anvìa d’esse lus
ma ’l Nòm ch’as peul pa disse
a visca ’l feu
ch’a smon ël mòt-nen-mòt

[La confusione profonda / di questo mio aleph / segna con le sue rughe / ogni lettera / che possa afferrare / l’essere del mondo // Ogni parola rischia / di annegare nell’abisso / del suo desiderio di essere luce / ma il Nome impronunciabile / accende il fuoco / che offre la parola-non parola]

 
***
 

Explicit libellus

Drocand ’nt ël veuid
sincrònich tuti j’àtom
an testimònio mach soa
lòira

Esse/ Dventé/ Nen-Esse
score dël temp
ancreus ëd l’òm

Antërmes
al Gnente e al Tut

[Precipitando nel vuoto / sincronici tutti gli atomi / ci testimoniano solamente la loro pigrizia // Essere-Divenire-Non Essere / scorrere del tempo / interiorità dell’uomo // Nel mezzo / tra il Niente e il Tutto]

 

***

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3 pensieri riguardo “Dario Pasero: Il qui e l’altrove della lingua”

  1. Un grazie, non di rito, a Francesco Marotta per la curatela del post. Credo che Pasero non sia mai apparso sulla Dimora.
    Un abbraccio. m.

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