Fosca Massucco: la mira dell’occhio

Fosca Massucco Manuel Cohen
Fosca Massucco

REPERTORIO DELLE VOCI
NUOVA SERIE N.8 (XXXV)

Fosca Massucco:
la mira dell’occhio

L’esordio in volume di Fosca Massucco (Cuneo 1972), avviene in età matura, dopo un discreto apprendistato certificato da alcune pubblicazioni e premi (‘Anna Osti’ e ‘Città di Colonna La Tridacna’). A questi fattori estrinseci, oltre che ad un paziente lavoro sulla scrittura, è da attribuire il pregevole risultato de’ L’occhio e il mirino: un’opera prima che ci presenta una voce sicura nel passo, personale nelle movenze: parafrasando l’enunciato programmatico del testo e portandolo alle sue estreme conseguenze, si potrebbe riconoscere che il bersaglio o obiettivo sia stato raggiunto dall’occhio e con il mirino. Ma sarà utile per il lettore riportare un passo dalla prefazione di Dante Maffia: «Si avverte subito che la Massucco ha alle spalle molte esperienze che però ha diluite ricavandone impressioni, giudizi, sensazioni, percezioni che adesso la aiutano a saper guardare il mondo e a saperne leggere le coordinate. In ognuno di questi componimenti si avverte una saggezza che sembra provenire da terre lontane, dall’oriente, ed è per questo che la scansione dei versi ha risonanze di sinfonie. Ecco, musica e arti figurative entrano ed escono dal laboratorio della Massucco e fanno da contraltare con i suoi pensieri. È come se lei avesse fatto incetta di sensazioni e ora volesse riordinarle attraverso lo sguardo mirando al centro. E bisogna dire che ci riesce e riesce a creare anche una circolarità espressiva senza vere e proprie cesure. Le poesie non hanno titoli, sembrano essere il frutto di un progetto poematico che si muove roteando e non lasciando però nulla al caso». Il libro, perché di libro e non di semplice raccolta si tratta, è suddiviso in tre parti, tre scansioni che già dalla titolazione accostano l’autrice ad una dimensione classica: alla maniera degli antichi, il libro racchiude in sé tre libri autonomi e interrelati, tre discorsi, tre dissertazioni in versi, secondo modalità proprie della poesia: di dio, dell’armonia, delle cose. Tre trattati naturalistico-filosofici. La risonanza classica trova conferma inoltre nella lingua: chiara, luminosa, comunicativa; nella sintassi: tra costrutti brevi e ampi periodi mai involuti, con ricorso alla paratassi; nell’argomentare: una poesia che si fa carico di un ragionamento logico, anche nella illogicità della materia, tende a coinvolgere chi legge, tessendo un ordito di pensiero; infine nel particolare approccio alle cose di natura: la natura è continuamente sollecitata dall’umanesimo sensibile di chi la vive, e attraverso le sue manifestazioni si configura quasi a emblema, o spia, del sentire umano, del suo destino. E nelle cose di natura, Massucco rivela quella particolare tensione, lirica e musicale, speculativa e ontologica, che porta a confluire la Classicità (di pensiero, di sguardo, di lingua) con il secondo termine a quo: la Modernità, infine con l’urgenza, tutta contemporanea eppure così a-storica, del quotidiano. Per meglio chiarire, a vantaggio del lettore, si porta a esempio il testo di pagina 34: Ci sono istanti di marzo che inducono all’attesa. Qui si parte da una perfezione, quasi asettica, nella icasticità della visione, che nell’avverbio del secondo verso sottende a una riflessione tragica, quando non nichilista: dalla immobilità colma di domande e di aspettativa: «Ci sono istanti di marzo che inducono all’attesa / e mi vedono scrivere, china, inutilmente». Immobilità, stasi, rafforzata da una tipica doppia immagine classica o ieratica: «Seduta, guardo fuori dai vetri / il giardino immobile che chiama», dove l’insistenza sul dato di staticità (nei lemmi ‘seduta’, ‘immobile’) riguarda essere umano e natura circostante: natura naturans e natura naturata. Il discorso è sempre in prima persona, l’io lirico (contrariamente a tanta poesia in atto) non disdegna di dirsi e di nominarsi in prima persona. Ma partono sottili incrinature, dubbi attivi, propri di chi rivela attenzione e presenza, lettura e cultura di classici (Lucrezio, i lirici Greci) e di moderni (Baudelaire, Emily Dickinson, Leopardi, Pascoli, Eliot): «chi non dimentica […], chi sfugge / al fiato mozzo guardando il dito che indica la rondine?». Ma il quotidiano insiste, bussa alle porte, e non si può non aprire, non gettare l’occhio e il mirino al presente: «Io mi incanto anche nel niente, non mi serve un motivo / per volare – poi atterro veloce. Ci sono panni e pannolini, / minestre e cure che mi tengono occupata, / non è facile il mestiere del poeta al giorno d’oggi.». Il libro si muove tra ricerca del sublime e percezione di una fisica perfetta, tra immobilità e mutamento, metamorfosi del cosmo e delle creature, in un linguaggio visivo: «Il cielo plumbeo di aprile -/ la scena ripetuta all’infinito», e al contempo, carico di visione, visionario: «una lama ingiallisce le nuvole, / conto i danni nel frutteto». Musicalissima artigiana di parole, Fosca Massucco cura il proprio orto giapponese consapevole dell’armonia degli elementi, dei piccoli solchi, e della repentina possibilità di perdita, dell’assenza di ogni riparo.

Testi

Così sale un arcobaleno in quota –
l’occhio è un mirino, a fissarlo non lo scorge –
inchiodato al cielo tra gola e vetta
come a immortalar se stesso.
Così sono io, l’occhio e il mirino –
il volo del gipeto che trafigge l’iride –
ospito domande immense nelle vene
senza arrestare lo schiocco.
Nulla è sublime più che attraversare il mondo
lasciandolo immutato.

*

Il cielo plumbeo di aprile –
la scena ripetuta all’infinito,
un oggi senza sosta.
Mi alzo con il sorgere del vento –
attendo la pioggia feroce
e il canto ciclico dei rospi.
“Ci siamo persi le albicocche”
una lama ingiallisce le nuvole,
conto i danni nel frutteto.

*

Poesia – Un volantino

Un volantino, perché un manifesto mi pare eccessivo.
I manifesti stan lì, immobili, ad arricciarsi all’umido
a far le bolle alla pioggia, a deformare le facce.
La gente passa, ammicca e dimentica –
alla fine nemmeno li vede più.
Invece la mia poesia già la immagino
girare sui carrellini, infilarsi nelle buche da lettere
ed essere gettata all’ingresso di casa,
col resto della carta – però in ascensore,
che risate ai miei versi!
Un volantino che dona sorrisi in ascensore,
questo vorrei dalla poesia, col 50% di sconto.

*

Ricordo il risveglio tra ideogrammi amaranto –
sterile abbraccio del Giappone astigiano.
Io che ti annuso – mentre mi frughi
umido e rapido. Fogli di vento invernale
e il bosso in lamento a chiamare dai vetri.
Ma non ricordo una nostra risposta.

*

Voglio fare come il maggiociondolo sul colle
(che avviciniamo vagando
con sottile attenzione)
aprirmi tardi alla piena del sole
quando attorno la stagione è ormai certa.
Voglio fare come il bosso in giardino
(verde invariante – onde discrete
ad ogni alzata di vento)
gettar radici e protendermi
tenace negli anni.
Voglio fare come la ginestra falsamente distante
(di cui sorvegliamo prudenti
i progressi) impossessarmi ostinata
di ciò che fino a ieri ancora eravamo ignari
di voler cedere.

*

Inferma, mai ferma scalcio e scampàno,
urgente di trovar requie –
ah, deporre ali e anni, vivere già saggi! –
poi taccio, inghiottita
dalla fanfara del buonsenso.
“Mettete da parte secchi d’amore per quando pioveranno guai!”
Fatale, mai fondamentale mi aggiro
camuffata da tartaruga di polla –
ah, provare i risvegli di Nusch con te! –
poi m’addomestico ed innaffio
il coriandolo del davanzale.
“Mettete da parte secchi di gioia per quando pioveranno dolori!”

*

Sissì dico, sissì dico lenta
hai ragione tu. Ma penso
io sono mia – sono mia –
sono mia io e di nessun altro.
Libera di amare, di non amare
di amare a pezzi, a tranci, a tocchi
– a singhiozzo, all’infinito.
Fattelo piacere (per piacere)
e impara il mio vivere
a trilli e balzi, ticchettante
di veglie e di sonni, in concreto
(insicuro). Il mio amore
non ha una sola stagione.

*

Da terra raccolsi un fossile
di conchiglia, dove l’onda
continua dei vitigni agostani
fu un tempo flutti d’acqua e sale –
compresi il vento ligure straniero
che spesso soffia tra i filari
quasi a voler increspare
il ricordo dell’onda primitiva.

[La recensione di Manuel Cohen al volume di Fosca Massucco, L’occhio e il mirino (interventi di D. Maffia e L. Papandrea, L’arcolaio, Forlì 2013) è apparsa su «Punto. Almanacco della poesia italiana», anno 4, n. 4 aprile 2014.]

***

4 pensieri riguardo “Fosca Massucco: la mira dell’occhio”

  1. Grazie, Manuel, per questa bella lettura di una bella scrittura, che conoscevo poco e cercherò di approfondire.

    Francesco t.

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