Note di lettura (X) – Francesco Marotta

Francesco Marotta, Impronte sull'acqua Antonio Scavone

Poesia della luce

     Gli addetti ai lavori letterari (critici, poeti, scrittori) sono di solito più autentici quando si trovano in situazioni informali (incontri privati, dopo-cena amicali, dibattiti casuali): non fanno mostra di sé per eloquio o spocchia e se lo fanno è per una terapeutica auto-ironia e non indulgono a citazioni dotte perché le ritengono non pertinenti, anzi fuorvianti. Che significa questo understatement? Che senso ha questa sincerità spartana e sotto traccia? Niente di più naturale: dicono e si dicono le verità, al di là di modi di dire, di riferimenti libreschi, di capisaldi critici.
     Sappiamo tutti (letterati di genere vario) che la poesia è, per esempio, un codice non facilmente accessibile e che, in fondo, tale deve restare. Anche il verso che sembra il più semplice e colloquiale nasconde una difficoltà di interpretazione – se non un’insidia – che richiede, a sua volta, una captazione del senso non immediatamente fruibile. Dovremmo chiederci allora perché i poeti siano così difficili da intendere e perché si ostinino a costruire significati via via più ardui da intendere. La risposta la forniscono i poeti sia pur lasciandola oscura alla nostra capacità o abilità di cogliere le intenzioni e il pregio di un’opera poetica.
     Questa risposta è geneticamente costitutiva del poeta stesso, è la sua linfa e il suo destino, la sua indagine e la sua scoperta: è il perché dell’atto poetico in sé, la sua esigenza e la sua motivazione. Gli scrittori scriveranno racconti e romanzi strada facendo e ne riscopriranno stile e struttura nella stesura dei loro testi, i poeti scriveranno poesie per rispondere alla domanda primordiale e selettiva del loro poetare: scrivo poesie perché so che, facendolo, esprimerò qualcosa che di per sé è inesprimibile. Più che criptica o ermetica, la poesia diventa essenziale alla vita del poeta, anche quando viene concepita sincreticamente al di là della vita e talvolta, addirittura, pur non essendo vita.
     Rileggendo la poesia di Francesco Marotta dal capoverso “sapersi in sintonia” dal libro “Impronte sull’acqua” (Edizioni Le Voci della Luna Poesia, 2008)…

sapersi in sintonia
con la luce
franata dove sei stata
un attimo o una vita
prima che il
colore dell’assenza
riempisse lo spazio
vuoto dei tuoi
gesti, qui ogni cosa
tiene la conta di quello
che hai lasciato, qui
sento il tempo premermi
sul capo con tutto il
peso che ti riduce a
ombra, eco di un
corpo che acquista
movimento a ogni ricordo
a ogni fitta che
ricolma il palmo
di schegge, di voci, di
abbandono, stimmate
di chi muore a
chi non sa morire

     …ci si trova immersi in uno spazio dell’io (dolore, struggimento) che solitamente percepiamo come prossimo o empatico per banale consuetudine ma che, per riserva o timore, consideriamo poi alieno, antagonistico, distante. La poesia di Marotta, questa poesia di Francesco Marotta, è in verità fluida come una nomenclatura ordinata di emozioni e di presagi, di memoria e di sofferenza: illustra e dispone in una consapevolezza lunga quanto un attimo e profonda come l’abisso dell’ignoto tutte le brevi e infinite percezioni di quello che si è e non si sarà più, di quanto si riesce a dire o a fare e quanto, invece, resterà inconcluso. “Sapersi in sintonia con la luce” vale come un proclama di illuminanti ovvietà, come summa di velleità riscattate dalla smania dell’appropriazione di se stessi, come ordine che si brama di raggiungere in una circostanza (in un’esistenza solitaria e isolata) dove in palio non c’è premio né vittoria. Vale come anelito quest’incipit sospirato col fiato del distacco e temprato dall’afflato del ricordo. È un invito a riconoscersi nell’assenza che delimita e condiziona lo spazio vitale ma che riesce a riempirlo col movimento accennato di un’intuizione nutrita dal disincanto (lo spazio vuoto dei tuoi gesti).
     Cosa vuole dirci Francesco Marotta con questa lirica così poco lirica e così tanto disperata? Che il suo percorso d’indagine è netto, lucido, senza infingimenti: i ricordi stanno in un palmo di mano, pronti per essere evocati ed evocare sconfitte e smarrimenti (schegge, voci, abbandono) ma tutto si regge oggettivamente nella complessità di un cammino all’interno di se stessi e della vita che comprime e sfoca immagini (con tutto il peso che ti riduce a ombra) e non già per trovare una via d’uscita ma solo per indicarla, come se toccasse ad altri di farne un punto d’arrivo.
     Qual è, allora, questo punto d’arrivo, se c’è? La poesia di Marotta fa pensare ad una costa marina frastagliata da scogli a picco e calette sabbiose, come se il poeta avesse approntato per noi lettori un paesaggio solo all’apparenza tortuoso, declinabile con la giostra silenziosa di fantasmi e simboli, per una compensazione asciutta delle idealità perdute, smarrite, tradite. E tuttavia il paesaggio (questo luogo dell’anima) non è solo quello marino (orizzontale) ma si inerpica su per le falde scoscese di una montagna brulla, devastata dagli eccessi dell’uomo, per salire senza tregua alle suppellettili comuni e quotidiane, per nominarle di nuovo, sentirle vicine (qui ogni cosa).
     Richiami a poeti dallo sguardo spassionato ci vengono in mente d’istinto: René Char, Carlos Williams, Caproni, Sereni, per sconfinare (o forse solo alludere) negli anfratti di uno sgomento compiutamente avvertito e compiutamente illustrato.
     Poeta esemplare dell’implosione semantica, Francesco Marotta cuce e ricuce il suo ordito di significati lasciati in dono all’intuito dei suoi lettori: spiega e risolve i tratti raggelati del suo modo di testimoniare con i versi la scansione delle sue e delle nostre stagioni, le promesse mancate e quelle superstiti, le assenze subite e quelle da subire (stimmate di chi muore a chi non sa morire). E tuttavia “sapersi in sintonia con la luce” è il segno di un rinfrancato ritorno all’io senza le fanfare dell’autocelebrazione ma con un’armonia ritrovata di un musicista che ha perduto lo spartito, o che non ha accordato il suo strumento, ma che, nonostante tutto, riesce ad emettere una scala completa di toni e semitoni (febbrili diesis, cupi bemolli) per ricomporre quella scala di valori che noi tutti conosciamo nel momento di una perdita e che noi tutti, poi, vilmente abbandoniamo.
     C’è tutto in questi versi di Francesco Marotta, tutto ciò che ci fermiamo solo a immaginare mentre il poeta è andato oltre, per conto nostro, nella sua conoscenza della notte (Frost), contando e ricontando le volte dell’assenza, del tempo bloccato, del ricordo ripreso per attirarli in quello spiraglio di luce in sintonia con una figura composita (donna/io/umanità) che parla ancora sommessamente, con levità, al poeta e a noi lettori del mistero di quelle ombre che sobillano e favoleggiano il segreto di una coscienza.

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12 pensieri riguardo “Note di lettura (X) – Francesco Marotta”

  1. La perdita, un “tu” che è destinatario (e non sa morire) dei versi, mittente, al contempo, di un dolore che ha i colori dell’assenza …
    mi pare,
    ma poco importa (e lo sappiamo) ogmi possibile decodificazione. Il codice poetico è tale se trasmette emozione, ed io ho sentito la vibrazione che mi aspetto dal dire poetico.

  2. Forse la più bella e sentita pagina sulla poetica di fm che io abbia mai letto. Scusami, ma ancora vado di corsa, tu sai perché.
    La poesia e Francesco stesso meriterebbero da parte mia ben altro commento. Mi rimane dentro quella luce che mi sgomenta e mi emoziona ogni qualvolta vi leggo.

    Grazie, Antonio, grazie Francesco.

    jolanda

  3. Condivido in pieno quanto espresso all’inizio di questo meraviglioso commento. E aggiungo: mi sono chiesta spesso se fra il mio io quotidiano (quello che si rapporta con gli altri) e il mio io che scrive non ci sia una sorta di rapporto schizoide. Poi noto che più vado avanti (e la mia espressione poetica si carica di significati), più il mio vocabolario pubblico si fa povero e a volte indulge ai dialettismi, all’imprecisione. A volte mi vergogno (letteralmente) se qualcuno mi dice di conoscermi come poeta. Mi piacerebbe discuterne con voi, e mi scuso se approfitto di questo spazio dedicato alla poesia di Francesco Marotta che ho apprezzato moltissimo.

  4. A fronte del micidiale “critichese” che mostra nascondendo e dice senza nominare , l’intervento di Antonio Scavone , in sintonia con le parole di Marotta , proscrive ogni artificio retorico e traspone in prosa la “classicità” intesa come chiarezza di significati , quindi assolutamente recepibile / commestibile per i comuni mortali . Questa modalità , sempre più rara , gratifica quanti chiedono alla poesia e alla critica di non tradire l’umano e le sue parole , facendosi quindi strumento di comunicazione e non di incantesimo .
    Con un grazie ad Entrambi

    leopoldo attolico –

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