Sono la foce e la sorgente

Lorenzo Pittaluga

Lorenzo Pittaluga

Pensare l’oltre

     Se è vero che la malattia psichica determina spesso una sensibilità particolare, come se non ci fosse più lo schermo della pelle a riparare dalla percezione esterna del mondo i confini dell’anima e a proteggerla dall’invasione interna dei fantasmi, di questa sensibilità Lorenzo si fa testimone. Volendo fuggire dall’inevitabile cronicità della sua sofferenza psichica – ricoveri protratti, abusi farmacologici, episodi confusionali -, Pittaluga non agisce in modo sommesso ma con un tuffo euforico nell’estasi della poesia e nell’ignoto della morte, pervaso dalla stessa esaltazione con cui raccontava a me, ancora diciassettenne, il delirio di essere santo. «Mai stato un giorno senza paura, / senza la luminosa paura / di essere dimenticati» (Remo Pagnanelli).
     Per Lorenzo la vita non è mai solo la vita ma la metafora della vita. E oggi, con la sua esistenza assente, esemplifica una verità assoluta: un poeta non può che pensare l’oltre. «Io non resisto ai princìpi / senza vera sostanza, / presento un resto,/ un ritardo tra gli uomini». Lorenzo non ha avuto il tempo di raggiungere, tra il sé e il non sé, un equilibrio in cui riformulare in termini meno drammatici la sua personale scommessa contro l’ordine mediocre del mondo, e si è perduto. Ma oggi, a vent’anni dalla scomparsa, rimane, a noi che sopravviviamo (e questa antologia vorrebbe esserne segno), il suo tragico “modo” di dire che la vita è straordinaria e va vissuta anche perdendola.
     Con la sua poesia Pittaluga non ha riscattato nessun dolore biografico, né spiegato nulla. Si è solo “percorso”. Leggeva prosa e poesia in modo febbrile, apparentemente con scarsa concentrazione, ma si imbeveva come una spugna delle parole altrui. Assorbiva parole da ogni stimolo esterno, da ogni sensazione, come se non avesse potuto far altro che questo: immergersi nella loro materia, nella sintassi in cui combinava, articolava, disarticolava il linguaggio. Come se, non essendo facile vivere, si potesse sostituire la vita con l’incantesimo di una parola “liberata” dai vincoli del significato.
     Lorenzo usava metri e timbri diversi: non era naif in poesia, né selvaggio né istintivo, ma, al contrario, meticoloso e ossessivo. Non poteva tacere. Doveva esprimersi. Ma non è vissuto abbastanza per mettere in rapporto le sue parole con la sua vita: ha vissuto quelle e questa come due universi non comunicanti che, nell’attimo in cui si fossero compenetrati, temeva andassero in cortocuircuito.
     Oggi, però, non importa sapere nessuna “verità” sulla sua avventura terrena. Invece, del suo sforzo di rendere le parole vere e vive Lorenzo ci lascia una scia definita: le sue poesie, che oggi rileggiamo. Ci rivela come abbia potuto, in assenza di una vita sintonica, scrivere una poesia dissonante, distonica e spigolosa, infelice ma decisiva, posseduta dal sogno di una euforica trascendenza, nutrita dalla complicità con la morte, sì, ma immersa nella vita, con ostinazione, anche quando la vita, per lui, si riduceva a essere soltanto un gruppo di parole. Ma quelle parole – la loro forma, il loro intrico, il loro addensarsi e respingersi – erano il suo modo di rappresentare/nascondere un nodo biografico troppo doloroso che con altre parole – quelle della terapia, forse della guarigione – non avrebbe saputo e potuto sciogliere.
     Lorenzo non ha risolto i suoi conflitti, li ha troncati. Lo testimonia la morte tragica, ma non improvvisa e non imprevista: un tuffo nel vuoto dal decimo piano dell’Ospedale di San Martino, a Genova, pochi giorni dopo il Natale del 1995: «in un sussurro / impercettibile sussurro / dove le più tenere voci languiscono (cetre?) / al suono – / duro – / nella polvere / precipitato». Di questo precipitare – volo magnifico dell’Albatro che rifiuta di marciare goffamente sul ponte della nave – Pittaluga ha testimoniato, sentendosi “fantasma vero d’ogni inamovibile realtà”, essere umano affaticato dal peso dell’esistente, pervaso dal desiderio di una metamorfosi liberatoria che sciogliesse i nodi del suo malessere per sempre.
     Oggi, a vent’anni dalla morte, siamo autorizzati a rileggere le sue poesie edite e inedite, a ripercorrere le voci e le testimonianze di vecchi e nuovi amici, e ritrovare, se il mio intuito critico non inganna, un poeta tragico, beffardo, surreale, inclassificabile, la cui inattualità coincide con la risonanza speciale delle “anime strane”, sempre fuori da ogni progetto razionale, quindi sempre esposte alla vita, quindi potentemente reali.

(Marco Ercolani, dalla Prefazione)

 

Lorenzo Pittaluga, Sono la foce e la sorgente
Antologia poetica 1984-1995
Prefazione di Marco Ercolani
Postfazione di Filippo Davoli
Ancona, Italic Pequod, 2015

 

Testi

 

            Sulla soglia
            (1991-1995)

il sogno che si prodiga,
nell’evento, a tornare
fantasma. Fantasma
vero d’ogni inamovibile
realtà.

 

Sulla soglia

Determinare un nome, dimenticarlo
ma non fuggirlo in periodici esami,
contenerlo senza falsarlo, rendergli
onore come al vero e al puro; dimostrarlo
etereo e solenne (simile al verbo); chiuderlo
nella parola poeta non puoi: risicata
minoranza ossia i molti che vennero…
crescetelo, il nome, sul golgota dei più
articolando l’artificio che compose fervidi
ma innocui stratagemmi… combriccole
dispettose diedero voce, in gorghi fatali,
a dispersioni di una o più verità; l’esempio
non fu finzione né illazione… vennero (dapprima)
in dodici e ne esaltarono la pervicacia
e il senso primo: fedeltà al simbolo.
Si fece carne della carne ignorando
l’episodio della storia e facendosi storia
e appena duemila, quando anche il poeta
ne toccherà trentatre, sono gli anni presunti:
ditelo nel pane e nel vino la parte migliore
che, travolgente, scavò con unghie e sangue
una vita verticale e nuovo e molteplice
ritradursi in specie uomo, il seme del poeta
(poeta che non sa portare…), racchiuso
nel membro suo (il male e il bene: in male
in bene!) dove proclamerà progenie?
Tentò con due diverse Maddalene ma introvertito
clamor suo ne tenne a bada il sesso…
Ritrovare nell’aldiqua un bene perbene:
piangendo, rimpiangendo il casto ieri
ritrovarsi eroe in jeans e maglietta
a proseguire, con troppa altezzosità,
il cammino del primo uomo; il Cristo
da nuove, prossime generazioni che meglio
sapranno osare in corretto campo il tempo
e le sue funzioni a triangolo (e tre)
nel numero settanta (e più volte sette);
intervenire al caso, al gesto,
a complementare espiazione della riconciliazione.

 

Musica

E ritrovi spenti falò
di comete e astri morenti
ancora l’orchestra ultima –
tra suono e visione – una
nota del suo volto che credevi
azzerato nello sguardo verso
te.

Gruppo unanime del plauso
alla dimenticata rondine che svola
sulla testa dei coristi.

Centri un qualunque rumore
e ne trai episodio ordinato
al senso.

Dài anima al perdurare
di questa estrosa rapsodia
adunando più voci per comprendere
regine e adeguare lo spirito dell’angelo
alla lenta canzone.

Né muore né vive lei – l’ultimato
fonema che si schiude in controllata febbre

 

Il vento

Traversi il fortilizio come
fosse dovere la menzogna

e il plagio rapinoso di un rossore
in cui pieghi – errante – il lucore

del viso di lei aperta al tuo
cielo zigrinato in docili dolori.

E poi l’idea si fa anima corpo occhio
piede – anima del cammino.

Il luogo preciso del soccorso
dove batte un nome e il dominio

della foresta: i fusti del querceto
Sono presenza nota – già voluti al tatto.

Nascoste fra le piaghe di un tormento
appena percettibile – lei guida

la tua mano – tocca le tue labbra
e ne medica i contorni inariditi.

Nasce, immaginoso, un noto
stilema, un segno che si fa

ti guarda – a te destina la parte
migliore – ti chiama – si fa per te

ambrosia inebriante. Al colmo delle grazie
ti ridona la consolazione – riporta a te

la sua carezza.

 

Un angelo?

Solca e traversa il suono
di inverosimili campane

mettendo piede negli inverni
inaccessibili ai vinti per

loro ignavia. È forte:
ammazza topi e zanzare

per trovar posto nel mondo –
azzera l’orologio e rimette

all’essere la sua condotta.
Questo angelo impiega eclissi

per cambiarsi d’abito e farsi
pedina – barocco soldatino

armato della carta su cui
imprime il segno che conduce

al domani. Raggiunto dalla
ruota non ne sarà schiacciato

perché la vettura dell’eterno
non si placa ma si rima su

questo foglio che concede un
punto al giocatore che non dispera.

Il congedo sarà dolce e lieve –
sangue avremo versato ma il tuo canto…

 

Vetro

Consumo le età
ne depongo
estreme – le impressioni
meno stabili, più incongrue.
Quel che è
quello a cui sei partecipe
volendo infrangere
muro farsi vetro
farsi memoria dell’evento
rimane.

Estati poggiate
su cirri bianchi
quando anche più
prevista – la pioggia
assale i finti viaggiatori
perduti in camere
dove fitto rimane
un nembo di fiati.
I due – intanto – sorvegliano
con clemenza il lutto presagìto
le spoglie il cadavere
di chi si è amato
giace su piccoli legni
indovinata l’essenza – l’integrità
del sogno dove amore imparo e vivo.

 

Slegando

Opinione di tranquillo verso l’ondoso,
la contraddizione slegata, il mare s’alza,
l’idea più molesta, il cielo più percettibile
in nuvole rischiose.

Mi guardi le mani: non sono io l’assassino
ho solo trovato, nulla scappa il suo rasoio,
vivo con le candele e portare luce perde luce,
mi manchi, vedo il tuo sangue nelle vene
e il sogno è legato.

 

Per dirti

Ho un vuoto da comunicare
se tu fossi fossile ti scriverei
su foglie smarrite le parole
d’amore più docili, più plasmabili
in un coro a due; identità
d’asceta che si disfa in periferia.
L’oltraggio della rosa a te donata.
Ma io non dono rose …
Non sciolgo i filoni delle stelle
in uve dolci (vaghe tutte in un sé).
Io bevo il gesto, frantumo
l’esile ordito della familiarità.
Sono asceta e sono angelo
delle tue provvisorie voglie.
Mi rinchiudo poi, solo, nella stanza
buia e compio il tempo.
Il delirio, la sua virulenza di bestia
ctonia e fra i diversi amori un muro.

 

Impeto

Supplica derive
con impeto sommuove
la parola contingente –
muta verso – si terge
e nutre di viva foglia
il cadavere dell’inverno
che seppellisce – fra lampi
immobili e stagnanti –
un tuono che diventa
vetro, nutrita
sorgente di tanto
rumore che ti dice:
“Lontano…Lontano…Lontano…”
Pronto si rivela
il sogno che si prodiga,
nell’evento, a tornare
fantasma. Fantasma
vero d’ogni inamovibile
realtà.

 

***

 

La lira creativa radioattiva

Lascio.
Lascio a te la lira
creativa
radioattiva
quel che mi rimane.
Risieda
tra le tue membra
fresche.
Perdona il fardello di un presunto
perdente e d’un certo e sicuro
perduto.
Fuggo da un mondo distante
dal pubblico pagante,
dal mio corpo volante.
Fiaccola nella tenebra
celebra l’inchiostro.

 

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7 pensieri riguardo “Sono la foce e la sorgente”

  1. bellissimo libro, e grande lavoro ormai decennale di Marco Ercolani sull’opera di Pittaluga; opera densa e intensa di un realismo visionario, di una scrittura esigente e precisa, come credo la vita dell’autore.
    complimenti.

    un abbraccio

  2. Più la psiche e’ scompensata e sbanda, nella sua ricerca affannosa di un perno su cui giocarsi la scommessa di un proprio sempre incerto equilibrio, e più la poesia trova il suo fertile humus. La patologia, però, non è mai oggetto di compiacimento per il poeta, che la subisce e non trova in essa alcuna ragione di vanto o di estetizzante sfoggio di piume; essa tuttavia riesce decantata dalla scrittura, filtrata in figure che serbano traccia dei passati terremoti interiori, come ci si ricorda di un temporale scoppiato in una estate lontana; traccia che la cura delle parole sembra rendere innocua, o almeno sopportabile, sebbene la tentazione del baratro sia sempre in agguato, come dimostra il tragico esito che concluse la biografia di questo autore…

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