Frammenti d’esilio, 5

La mancanza

Gianmarco Pinciroli

Essere sempre tra i primi e sapere, ecco ciò che conta, anche se il perché della rappresentazione ci sfugge.
Eugenio Montale

 

frammento 5

134. Il filosofo dilettante ha tutti i difetti del filosofo professionista e nessuna delle sue qualità. Come il teoreta di mestiere, egli utilizza senza scrupoli il pensiero altrui, passato o presente che sia, facendogli dire quello che gli preme, al fine di avvalorare le sue tesi. E’ una pratica assai diffusa presso tutti i grandi teoreti, i quali adottano il pensiero degli altri come una sorta di deposito di idee, o di parole-idee, utile alla delineazione del proprio quadro: che importa la lettera del testo altrui? Il miglior rispetto, sembrano dire, sta nel tradire, o meglio, nel continuare il pensiero altrui facendo in esso emergere il non-detto, che giace incompreso e implicito. Schönberg, non riteneva forse che negli ultimi quartetti di Beethoven giacesse inesplosa la serie dodecafonica, che spettò a lui innescare e portare alla luce, facendo così esplodere una vecchia pratica del far musica, e nascere un linguaggio che, dentro la propria novità, conservava e superava, hegelianamente, il passato più antico? Più o meno in questo modo si comporta il teoreta di professione, che spesso, di fronte al non ancora pensato scritto e detto, risolve le sue difficoltà facendo dire ad altri, e con le sue parole, ciò che intende affermare lui, cosicché i cosiddetti neologismi spesso non sono altro che azzardate operazioni etimologiche su antiche parole dimenticate e così ricche d’impensato, grazie all’etimo in esse nascosto e custodito, che la loro riesumazione, lungi dall’essere un’operazione arcaicizzante o semplicemente filologica, consente di riannodare il filo di un pensiero altrimenti morente o morto da tempo nella ripetizione del già-detto più obsoleto. Rileggere i classici, per il teoreta di professione, equivale a questa operazione di dissotterramento e di ricomposizione del cadavere, per insufflarvi nuova vita, la propria. Ma questo è però, nei confronti della presunta lettera del classico così saccheggiato, un vero e proprio tradimento, fecondo quanto si vuole, ma tradimento; ora, questo difetto del teoreta di professione è tutto ciò che resta nel teoreta dilettante che studia i classici e li interpreta secondo quello che chiama “il proprio pensiero”. Se ne avesse uno davvero, quei classici rivivrebbero di nuova vita, una vita diversa da quella disegnata dai filologi e dagli storici della filosofia, una vita vera, perché sarebbe il prodotto, e non la somma, di una vita del pensiero tutta ancora da vivere con una vita, quella depositata nei libri, di cui invece si credeva di conoscere ormai tutto, anche le più intime pieghe. Così, il filosofo dilettante, non solo disattende la conoscenza del classico cui si avvicina, ma non produce nulla che giustifichi l’aggressione al testo, e fa un cattivo servizio a sé e alla filosofia, che appare in tal modo erroneamente il regno della chiacchiera più insulsa e arbitraria. Nel filosofo dilettante, insomma, non risuona l’unica voce che conti davvero nell’esercizio del pensare, e che giustifica anche il tradimento: la voce della necessità.

135. Il fatto che si possa non filosofare affatto, e comunque pensare e scrivere, appare sempre più man mano che passano gli anni della vita di un uomo, una falsa possibilità ed un falso potere. Il filosofare attrae fatalmente tutte le scritture, senza eccezione, grazie ad una sorta di prosciugamento della parola organizzata in frase, grazie ad uno stile del pensare l’oggetto di pensiero, qualsiasi esso sia, che sa cogliere la nuda sostanza della cosa stessa accanto all’accidentalità coprente, all’ornamento, all’abito di presentazione della cosa stessa. L’ultima parte della vita di un uomo dovrebbe essere fatta di poche, essenziali parole, capaci di rendere conto della sua esperienza vissuta. Di solito, appare di difficile lettura solo a chi ha bisogno di immediata condivisione, di chi vuole trovare nella parola scritta ciò che anche lui già sta pensando, di chi non vuole fare la fatica dell’altro, dell’altrui pensiero, del pensiero che pensa altro da ciò che il lettore s’aspetta di trovare sulla pagina. Chi rispetta l’ultima parola di un uomo, sa che in essa giace preziosa la verità della sua ultima verità, che per essere sua non è meno vero che appartiene a tutti, come dev’essere della verità. Tutto questo presuppone che la parola filosofica debba possedere quelle caratteristiche: essenzialità, generalità, stringatezza, sfrontatezza anticonformistica. La parola filosofica non fa sconti, non consola (per lo meno, non consola lo sciocco), non ha tempo da perdere e non distrae da sé, da sé in quanto parola scritto-pensata, che giace lì, indifferente alla sorte che l’aspetta e attenta e premurosa e docile quando qualcuno finalmente la prende sul serio e la mastica, la rumina. Poiché non c’è cosa che non sia sottoponibile alla parola filosofica, è necessario predisporsi ad accoglierla nei luoghi più diversi e inopportuni, siano essi pubblici o privati. Che l’agorà e le strade che vi portano sia il luogo di una tradizione gloriosa non significa che per forza quella debba essere la geografia di riferimento; il labirinto di casa propria riserva non minore accoglienza al sorgere inopinato e devastante dell’ultima parola di chi sa, adesso, fino in fondo che deve morire, e vi si prepara.

136. La pratica quotidiana della parola filosofica piano piano trasforma la realtà di tutti i giorni in un’allegoria del concetto, come se le stesse cose che si ripetono, nel loro apparire giorno dopo giorno, per quelle stesse cose diventassero le cose stesse, non più soltanto prodotte dalla monotona ripetizione nel tempo (all’insegna dell’analogo spacciato per identico), ma lì presenti da sempre e per sempre, nel tempo fuori dal tempo di quell’attimo concettuale in cui non cessiamo di accoglierle e di coglierle fuori dallo sguardo velato dall’analogia e dentro lo sguardo acceso dall’identità, cose eterne malgrado il divenire cui le sottoponiamo e reali malgrado il filtro che ce le seleziona. Le cose stesse nella loro nudità, qui e ora ma in qui senza contiguità e in un’ora senza successione, le cose stesse irrelate, tolte dalla relazione con la temporalità nelle quali le ripetiamo monotone e insensate (o secondo un senso relativo e sempre cangiante) e invece ribadite e fatte emergere nella tautologia del sé identico a sé, che non pone un principio logico ma lo precede e lo fonda: la cosa stessa che, colta e accolta, fonda l’identità e quindi l’analogia con cui la cosa diventa la stessa cosa nel susseguirsi degli attimi e nelle contiguità dei luoghi.

137. Ciò che si scrive è sempre correggibile, ben modificabile, addirittura eliminabile e dimenticabile, ma solo entro certi tempi. Se tra la rilettura di ciò che si è scritto e il momento in cui s’è scritto il tempo trascorso va oltre una certa quantità o ha messo in scena importanti cambiamenti qualitativi, allora è bene non toccare nulla e riscrivere da capo quanto s’intendeva come vero tanto tempo prima e che ora non consideriamo più in quei termini, oppure abbandonarlo dal momento che non riconosciamo più come nostra preoccupazione quegli argomenti. E’ in questo modo che si accumulano le pagine e che il nostro pensiero per lo più gira sempre, per tutta la vita, attorno allo stesso perno, di cui ci rendiamo conto soltanto quando ci fermiamo e rileggiamo quanto abbiamo lasciato sulla carta nelle diverse fasi della nostra scrittura. Sarebbe bene però che questa operazione venisse effettuata da un terzo, perché noi tendiamo a vergognarci di quel che abbiamo pensato e scritto anni prima; invece, un terzo potrebbe ricostruirci e scoprire il senso profondo di una crescita nell’identico manifestarsi di qualcosa in ognuna delle fasi di scrittura, a seconda dei contesti di stesura, della maturità di pensiero, e in tal modo portare in evidenza il segreto del senso, la coerenza, che di solito resta impercettibile al proprio sguardo tutto teso a illustrare l’ultimo parto della nostra riflessione. E’ anche a questo scopo che servono gli epistolari, i diari e simili. Se vogliamo sapere di avere pensato, e di essere cresciuti in esso, non resta che lasciare traccia, e non vergognarsi di esse nel tempo. Tra l’altro, in questo modo siamo in grado anche di prendere spunto da tutto ciò di cui nel tempo ci siamo dimenticati e che pure ha costituito degno oggetto di riflessione, almeno per quell’attimo in cui ci ha spinto a darne testimonianza scritta. Tutto questo, e null’altro, può costituire senso, anche se rimane oscuro il bisogno naturale di darsene per forza uno; la provvisorietà del senso che scopriamo non è mai un buon motivo per assumerlo con sufficienza, non c’è nulla di umano che meriti un trattamento affrettato e distratto, poiché il senso umano che traiamo dalla nostra scrittura ci riconcilia con la vita, con l’altro, con noi stessi, tutto in un colpo solo: una scossa elettrica di vita vissuta fino in fondo, fino al fondo che ci è stato possibile sperimentare di libro in libro, di relazione in relazione, di esperienza in esperienza, mentre il tempo, di cui siamo fatti, passa e ci modifica nelle abitudini lasciando però intatto e sempre più acuminato l’essenziale che non smettiamo di pensare.

138. Dell’indifferenza si può affermare che, in qualità di grado zero dell’affettività, essa non ha nessun senso, né intende manifestarne alcuno. Ma cosa c’è di più terribile, di più antiumano? E’ più insostenibile l’indifferenza delle masse, l’omologazione del pensare e del sentire, l’ubbidienza cieca e stolida alle parole d’ordine che umiliano deridono ed uccidono volta per volta questo o quell’individuo, questa o quella parte di uomini, o l’indifferenza del singolo nei confronti del singolo, l’esperimento di un vivere anaffettivo dentro ogni attimo della nostra vita vissuta presso la piccola parte di mondo cui apparteniamo? Poiché facciamo regolarmente, come vittime e come carnefici, di ambedue queste dimensioni, verrebbe voglia di rispondere: ambedue lo sono, anzi, tra esse c’è una relazione osmotica che impedisce di cogliere nettamente la causa e l’effetto, valendo ogni occasione rilevata come l’una o l’altro, a seconda del punto di vista e dell’occasione stessa per come si viene realizzando. Verrebbe voglia di rispondere così, ma quanto più impressionante vivere l’esperienza antiumana dell’indifferenza presso le persone che si amano, che noi crediamo che ci amino. E poi: che cos’è dunque l’indifferenza? L’indifferente non ama, non odia, non sente consonanza con l’altro, non lo vede quando c’è, anzi, l’altro non c’è in quanto non è visto, non è guardato, non è preso in carica in quanto altro. L’indifferente magari mi sorride ed è cortese, mi fa un regalo al compleanno e mi telefona per sapere come sto, ma lo fa come lo farebbe con chiunque: se io amo una persona del genere, e ne vengo trattato in questo modo, io so che cos’è l’indifferenza, e lo so assai meglio e con più efficacia di quanto lo possa scoprire partecipando ad un evento massificato, anonimo, dove anch’io dismetto i panni dell’individuo e mi perdo nel numero come in un crogiuolo che consuma di me tutto l’umano, ovvero, tutto l’individuale che mi rende altro dall’altro, ovvero me stesso. Non c’è, invece, peggior indifferenza della cortesia con cui s’impara ad aver a che fare con gli altri, con tutti gli altri, che li si ami o no, perché quando si è cortesi si è indifferenti, e se esser tali con i cosiddetti estranei può essere giustificato sul piano dell’esperienza, esserlo con coloro che si ama o non si ama ma da cui si è amati vuol dire non riconoscerli come portatori di questo amore, non meritevoli di ricambio dello stesso, vuol dire considerarli alla stregua di quel chiunque cui assomigliamo l’estraneo che incontriamo per strada e che salutiamo perché siamo beneducati. Colui che ci ama vorrebbe piuttosto essere odiato, perché in questo modo si sentirebbe comunque riconosciuto: riconosciuto come una presenza altra con cui occorre fare i conti. Anche perché nell’odio, come nell’amore, c’è tanta possibilità di rovesciamento di segno, mentre nell’indifferenza non c’è niente, nell’indifferenza si fa l’esperienza del nulla, del nulla di umano, dell’antiumano per eccellenza, della regressione dell’umano al mondo minerale, alla pietra nuda e impenetrabile che, non essendo mai stata viva, certo, non può nemmeno morire.

Frammenti d’esilio, 5

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5 pensieri riguardo “Frammenti d’esilio, 5”

  1. al 134 posso dirti che, secondo il mio modo di vedere, il filosofo profeta assume sempre un tono esageratamente drammatico. La vita va presa nella giusta misura senza strafare con le idee di onnipotenza.
    L’importante è mantenere fede al pensiero del filosofo che abbiamo “sposato”.

    per quanto invece riguarda il punto n. 137 (un punto che scotta:-), è quando non si trova più la neccessità di correggere che si è raggiunto il punto preciso in cui si voleva arrivare.
    le correzioni sono indice di insicurezza …trovare un terzo che si assume tutte le responsabilità è la giusta soluzione ai dilemmi che spesso attraversano uno scrittore.
    ma questo “terzo” bisogna sceglierlo bene, perchè di lui ci dobbiamo fidare, perchè lui entrerà nel nostro mondo.

    ciao Gianmario, un saluto dal lario :-)

  2. Il tuo commento al 137 sostanzialmente lo condivido, anche se ‘il punto preciso in cui si voleva arrivare’ è mobile nel tempo, è un po’ come se dovessimo ogni volta ricominciare qualcosa che non è mai davvero finito, o che finisce provvisoriamente soltanto con la nostra morte, cosicché l’ultima parola non è mai la parola definitiva, ma soltanto l’ultima parola che ci è stato possibile dire. L’insicurezza, per quanto mi riguarda, è la condizione perenne del mio pensare e del mio scrivere: se non fosse così, io sarei una persona diversa (né Gianmarco né Gianmario…). Il ‘terzo’ cui accenno, infine, probabilmente è il nostro lettore (se siamo così fortunati da averne almeno uno), e non ce lo possiamo scegliere, com’è evidente. Scrivere, me lo dico sempre, è un rischio, e pubblicare, anche solo on line (o forse soprattutto on line) lo è al massimo grado. Mi dicono (ma si riferiscono a Facebook, cui non partecipo pur essendovi stato iscritto da mio figlio) che non si trova sempre una Carla a commentare, purtroppo… Io però sono fortunato, finora ho trovato sempre persone come si deve.

    Sul tuo commento al 134 avrei invece molte cose da dire. Per non farla lunga, mi limito a questo: io credo che tra i tanti rischi (anche qui) che si corrono quando ci si affida al pensiero, il più grande (per quanto nobile) è proprio quello di ‘sposarne’ uno e di ‘mantenere fede’. Nel frammento io polemizzo un po’ con quei tanti miei colleghi che si situano in questo modo rispetto ai problemi dei quali parliamo; finisce per essere un alibi per la mancanza di una propria posizione, nella qual cosa non ci sarebbe niente di male, a patto di ammetterlo onestamente e di affidarsi (questa volta sì) al confronto, o alla sospensione del giudizio, invece di sbandierare false auctoritates. Anch’io come te, naturalmente, non amo il filosofo ‘profeta’, il suo ‘tono esageratamente drammatico’ è appunto segno d’insicurezza, prova di debolezza argomentativa: non riuscendo a dimostrare quanto afferma, ce lo spaccia come una rivelazione privilegiata, indiscutibile.

    Una domanda: constato che di solito vengono commentati i frammenti di facciata. E tutti gli altri che restano ‘nascosti’ (si fa per dire) nel prosieguo del post? Me lo chiedo, perché qualche volta mi sembra che non vengano proprio presi in considerazione dall’eventuale lettore. Niente di male in questo: ognuno dev’essere libero di leggere quello che gli pare. La mia è solo una curiosità.

    A risentirci, cara Carla

    1. Carissimo Gianmarco, devo confessarti che anche io non uso facebook e fortunatamente i miei figli non mi hanno iscritta :-)
      mi da l’idea che girino troppi pettegolezzi, anche se poi, come per ogni cosa, dipende sempre dall’uso che ne fa la persona, la sola responsabile di ciò che vuol mettere in circolazione.
      ma torniamo a noi !
      a me piace commentare le cose che ritengo interessanti e soprattutto con basi culturali salde e precise. Ho sempre avuto buon intuito in queste scelte, e quindi non esito a sviluppare con tali persone scambi che favoriscono il confronto e la crescita…perciò, ben vengano scritti come i tuoi, che stimolano molto il mio intelletto.
      Per quanto riguarda i paragrafi che non discuto, non è che passano inosservati, semplicemente non sento la necessità di interferire.
      Osare interpretare il pensiero dei grandi filosofi … bella sfida!
      p.s., in montagna nei giorni scorsi, grazie a te, ho trovato un libro di Luzi che ancora devo “perlustrare” …si intitola: La ferita nell’essere, a cura di Valerio Nardoni. Sembra proprio interessante!
      A presto e un abbraccio!
      c.

  3. Il libro di Luzi che hai trovato è una bella antologia. L’allentarsi del vincolo sintattico, che esige paziente collaborazione (e di cui si parlava in un commento a un frammento precedente) da parte del lettore, è un dato stilistico che si sviluppa nel tempo in Luzi, e raggiunge forse un culmine in raccolte posteriori al 1999 (data dell’ultima raccolta antologizzata nel tuo libro; Luzi muore nel 2005, e sono usciti molti inediti in seguito). Però puoi vederne traccia notevole nelle prime poesie di “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini”, del ’94. In ogni caso, la ricchezza d’esperienza umana riflettuta e testimoniata da queste poesie è tale che più che di collaborazione del lettore si può parlare qui di partecipazione simpatetica, tanto un suo testo può catturarti e farti pensare a lungo. Forse la grandezza di un poeta sta nella sua estrema capacità di sintesi, la cui densità poi ti esplode nella mente quando leggi, come la grandezza di un filosofo invece sta nella sua capacità di argomentazione, che più che convincerti ti costringe la tua intelligenza per necessità logica ad assentire (la verità non chiede il tuo assenso…, lei è lì, se la vuoi vedere… e sennò fatti tuoi…).

    Anch’io oso solo fino ad un certo punto interpretare i filosofi, oppure accetto la sfida ma deduco in solitudine, per i fatti miei. Quanto ai poeti, andrebbero amati a prescindere dal nostro sentirne vicini o lontani i versi: è così marginale la scrittura poetica nell’opinione comune che soltanto chi la pratica può sapere di che lacrime amare grondi il disinteresse generale che la circonda, e di quale intensa felicità, invece, sia causa per chi la scrive e la legge.

    Buona lettura luziana!

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