Intorno alla pittura

Francis Bacon, Ritratto di papa Innocenzo X, 1953

Luigi Sasso

Intorno alla pittura

Parlare, dipingere

     A differenza di molti altri artisti del Novecento,  Bacon non ci ha lasciato testi di poetica, riflessioni critiche, diari o quaderni di lavoro che accompagnassero, valutandone il significato e la portata, ogni tappa del suo itinerario creativo. Leggendo le otto interviste raccolte in questo volume e rilasciate da Bacon tra il 1971 e il 1991, negli ultimi vent’anni, dunque, della sua vita, ci si imbatte non di rado nell’affermazione che parlare di pittura è impossibile. Si può solo parlare intorno alla pittura, come se il linguaggio fosse una cornice, una componente sempre ai margini del colore e della tela. Ogni discorso teorico e programmatico, così come ogni commento esplicativo della propria attività pittorica risulta improponibile, distante dall’opera, incapace di restituirne anche solo un frammento. Tutto il lavoro di Bacon si risolve lì, nella lotta tra il pennello e la superficie della tela, nel dialogo con un volto, un corpo accovacciato o steso, nella tensione tra le linee inquiete, frementi o attonite, della figura e la piatta, astratta dimensione degli sfondi, una superficie uniforme interrotta solo dalle sbarre che ingabbiano i personaggi.
     L’opposizione, o perlomeno la distanza che separa la pittura dal linguaggio costituisce un punto fermo in quella che potremmo definire, suo malgrado, la poetica di Bacon.  Non ci sorprende, quindi, che già nei primi anni Settanta, dialogando con David Sylvester, Bacon fosse stato altrettanto esplicito nel negare validità a ogni tentativo inteso a dare una spiegazione della sua pittura, motivando tale impossibilità con il profondo legame che le immagini pittoriche stabiliscono, nel loro stesso formarsi, con l’inconscio.    Compito della pittura è dunque quello di far emergere qualcosa di quella realtà a noi stessi ignota, istintuale e quindi altrimenti inafferrabile, che appartiene alla dimensione inconscia: «È del tutto inutile parlare di pittura, anche se non si fa altro, perché se si riuscisse a spiegarla avremmo spiegato l’inconscio»[1]. Non è dunque un caso che spesso l’immagine che nel quadro prende corpo sia, come l’ha definita John Russell, «an unnamed creature»[2], una creatura senza nome, la cui identità oscilla tra dimensione umana e realtà animale, o la cui forma pare comunque percorsa, cancellata, stravolta da qualcosa di oscuro e di indefinibile.
     Questa separazione della pittura dal linguaggio coinvolge anche ogni ipotesi narrativa. Bacon si preoccupa di precisare che i suoi quadri non raccontano nulla. Svuota il quadro di ogni forma di racconto. Il rapporto con il mito è a questo proposito sintomatico e costituisce una questione nodale della sua ricerca. Bacon ci presenta i frammenti desacralizzati, e tra loro contaminati (le figure dell’Orestea poste a base di un’assente crocifissione, per fare un esempio), del mito. Non c’è più il racconto, nessun Cristo appare inchiodato davanti ai nostri occhi, nulla del dramma di Eschilo viene rappresentato. Al posto del mito c’è uno spazio vuoto, e il mito a sua volta non ha più nessun rapporto con una realtà superiore, trascendente. Ma ogni immagine dipinta da Bacon proprio in virtù di questo vuoto, di questa assenza cui incessantemente allude, si carica di una forza insospettata. Quello che qui rimane del mito rinvia soltanto a se stesso, non ci porta fuori dalla tela, alla ricerca di significati e di valori, ma spiega tutta la sua intensità sulla superficie del quadro e, inevitabilmente, negli occhi dello spettatore.   Questo vuoto non indica soltanto una mancanza, al contrario restituisce crudele intensità a ogni immagine di Bacon. Da ogni suo quadro non potremo ormai allontanarci (non è un caso che  Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion sia il primo lavoro accettato dall’artista stesso, che aveva preso decisamente le distanze dalla precedente produzione) senza provare la sensazione di aver assistito a un sacrificio, a un evento tragico e terribile.  E tutto questo senza che nulla di un simile racconto sia rappresentato sulla tela. Questo è ciò a cui si riduce il mito: uno spazio vuoto e però incolmabile, un elemento ineludibile e assente, una storia che nessuno può più raccontare, ma a cui anche il silenzio, anche una piccola cancellatura rinvia.
     Anche i quadri che si dispongono in una serie, come un dittico e un trittico, e che potrebbero quindi far pensare a una sequenza narrativa, si sottraggono all’andamento di un racconto. Bacon infatti isola le figure che compongono il trittico, le delimita, le incornicia. Pretende che siano esposte in modo che fra l’una e l’altra si frapponga una distanza, una porzione di muro. Esse non sono le fasi di un racconto, ma i momenti di una ripetizione ossessiva. Ciò che le unisce non è tanto un prima o un dopo, ma un ancora, sebbene colto da un altro punto di osservazione. Rispondendo a Maïten Bouisset, Bacon chiarisce in modo inequivocabile questo punto: «Voglio evitare a ogni costo che, guardando i miei quadri, si pensi che abbia voluto raccontare una storia. La narrazione, questa funzione che talvolta si attribuisce al quadro, è per me un modo di uccidere la pittura, una confessione di impotenza. Isolare ogni figura, ogni comportamento, è obbligare colui che guarda ad afferrare una forma alla volta per quello che essa è, nient’altro». Bacon pretende dall’osservatore una forma particolare di attenzione, in modo che il suo sguardo si concentri sulla singola immagine, in modo che la forza di quest’ultima non vada dispersa nella sintassi di una narrazione. Il trittico, anziché dare luogo a una dimensione temporale, annulla ogni risvolto narrativo e inchioda l’occhio al presente martellante della ripetizione ossessiva.
     Le parole, da tutto questo,  sono sempre fuori. Sono un brusio, sono un rumore di fondo. Per Bacon immagini e parole sono due realtà estranee, corpi che non si toccano, chiusi in una solitudine senza via d’uscita. Si capisce come questo atteggiamento non sia solo un modo per sviare un’imbarazzante indagine sulla propria opera, ma costituisca piuttosto un punto importante del suo modo di concepire l’attività artistica. Liberarsi dal linguaggio, allontanarsi dalle parole, serve a Bacon per poter puntare dritto al cuore delle cose, per coglierne, come lui stesso ha detto, la brutalità, il loro volto crudele, la loro realtà. Le parole sono solo un simulacro spento e inerte delle cose, non possiedono l’energia che è invece ancora possibile conferire alle immagini. Bacon respinge ogni interpretazione critica della sua opera perché nessun discorso potrà mai restituire l’angoscia dell’urlo, la devastazione della materia, la carne che sanguina. Il passaggio dall’immagine alla parola, come ogni traduzione – secondo Bacon – indebolisce l’opera, ne falsa la reale portata, placa la tensione che rende viva la tela.

 

Francis Bacon, Autoritratto, 1973

 

Critica e istinto

     Le interviste vanno allora lette non per cercarvi una spiegazione, un’interpretazione critica dell’ opera, o più in generale della pittura, ma per poter conoscere davvero quel che vi sta intorno, a cominciare dalla descrizione del modo di operare dell’artista. Bacon si sofferma a lungo, nelle sue risposte, sull’origine dei suoi soggetti, sulla maniera da lui utilizzata per realizzarli. Il punto da cui un quadro parte e si muove per prendere forma, il cammino che deve percorrere perché l’immagine affiori sulla tela coincidono con le prime battute delle conversazioni baconiane. Sono il caso e l’istinto a dominare la sua ricerca pittorica, realtà con cui la parola stenta a mantenere un rapporto: «… faccio delle macchie, dei segni, e se a un tratto una macchia sembra suggerirmi qualcosa, allora posso iniziare a imbastirci sopra un’immagine del soggetto che vorrei rappresentare». È proprio il ricorso all’istinto a rendere l’arte qualcosa di inspiegabile, qualcosa che nessuna lettura potrà mai interamente risolvere e decifrare. Non vanno confuse, queste parole, con una dichiarazione di adesione alla poetica dell’informale, ma come un modo per rivoluzionare la tecnica della rappresentazione pittorica, in modo particolare del ritratto. Via l’illustrazione, la copia degli elementi esteriori del  modello. Al suo posto entra l’elemento casuale, quello in grado di risvegliare l’istinto, l’immaginazione del pittore e dello spettatore. È un modo, per Bacon, di riportare l’arte a contatto di quelle pulsioni, di quelle tensioni che appartengono a ciò che chiamiamo vita.
     Potrebbe allora essere vista, questa pittura, come una forma di espressionismo. Ma Bacon cerca di dissipare ogni dubbio, rifiuta, con ostinazione, ogni riferimento in tal senso. «La mia pittura non è espressione, è istinto». Non vuole che la sua pittura sia vista come il grido di un io disperato, come la reazione di un’identità offesa di fronte all’orrore del mondo[3]. La sua sommaria condanna di Munch va letta come un tentativo di autodefinizione, di presa di distanza da un certo modo di fare arte. È l’istinto, il sistema nervoso, – sostiene Bacon – che agisce nei suoi quadri. La sua è un’arte che parla del corpo, che nasce dal corpo, dalla parte più remota e indecifrabile del nostro cervello.    Questa tensione si scarica sulle figure, sulle immagini che la realtà, tramite soprattutto la fotografia,  quotidianamente ci propone.
     Ma questa dimensione istintiva, pulsionale, non esclude, al contrario richiede un dialogo profondo e teso con le immagini che la tradizione pittorica, e più generalmente figurativa, ci ha consegnato. Si ricava infatti, dalle conversazioni, l’idea che alla base della pittura di questo artista ci sia un’assidua frequentazione con l’arte del passato. Non solo Velázquez, ma anche Ingres, Goya, Michelangelo, Rembrandt, Seurat, Tiziano, Cézanne.  C’è un intenso rapporto con un patrimonio di immagini da cui la pittura di Bacon non intende affatto prescindere. In lui non c’è una rottura, profonda e irrimediabile, con il percorso compiuto nei secoli precedenti. Egli tende piuttosto a porsi come il punto estremo di questo percorso, a riscriverne le linee essenziali. «Che lo si voglia o no, penso che l’arte venga dalla cultura e la cultura voglia dire passato».
     Da questo corto circuito nascono i quadri di Bacon. Perché il pittore non può illudersi di ignorare quel patrimonio iconografico, di operare come se non ci fosse o non ci fosse mai stato. Ma deve mettere a contatto quelle immagini, e quel modo di fare arte, con quanto vi è di più lontano. Non dunque con la ragione, il sentimento, l’io, ma con quanto tutto ciò, in ogni senso, precede: l’istinto, appunto.
      Nulla ha a che vedere, la pittura di Bacon, nemmeno  con la pittura astratta. Bacon non si allontana dalla figura, ma al contrario vi si immerge, la deforma, la cancella senza mai farla sparire o dissolverla, la spoglia dei suoi tratti illustrativi e aneddotici per portare in superficie l’interna energia che la consuma. Il risultato è lì, sulla tela, resta e possiamo guardarlo. Ma è come se l’artista, con il movimento della sua mano, avesse portato via qualcosa, avesse svelato una realtà altrimenti invisibile, come se, insomma, «la cosa fosse e non fosse là, nello stesso tempo». In un’intervista rilasciata a David Sylvester nel 1962 Bacon aveva espresso la medesima idea ricorrendo a una metafora: «L’immagine che cerco sta come una specie di funambolo sulla corda tesa che separa la pittura cosiddetta figurativa da quella astratta»[4]. Un equilibrio instabile, una realtà sospesa, un movimento ai confini del vuoto. Un gesto rischioso, una sfida: questa, la pittura di Bacon.
     Vengono da questi presupposti la particolare tensione, il contrasto, la lacerazione che ogni tela comunica. E che si traducono in un lavoro in cui si possono distinguere due tempi. Non c’è infatti, lo si è visto,  soltanto l’istinto, il caso o l’inconscio. Questo impulso non può farsi immediatamente gesto, azione, pittura, come nel surrealismo o nell’espressionismo astratto. Il costante ricorso all’istinto, agli elementi inconsci non ha nulla a che vedere, in Bacon, con il tentativo di trascrivere l’esperienza, per esempio, del sogno. L’attività onirica non può tradursi immediatamente in immagine, nessun sogno può farsi direttamente quadro. Il lavoro di Bacon è più complesso. Passa, come si è detto, dall’elemento istintivo, casuale, alla riflessione critica, combina il gesto, il fatto accidentale, l’errore di esecuzione, con la necessità di leggere, di interpretare il proprio lavoro. Confessa infatti a Michael Peppiatt: «Sono certo di sognare, ma non conservo ricordi dei miei sogni. Due o tre anni fa, ho fatto un sogno molto avvincente, e ho cercato di trascriverlo, pensando di potermene servire. Ma ne è venuto fuori solo un insieme di non-sense. Quando il giorno dopo ho letto quel che avevo scritto, mi sono accorto che non aveva alcuna forma, che non restava più niente. Non ho mai utilizzato i sogni nel mio lavoro. Tutto quel che si presenta avviene in modo accidentale, nella pratica concreta della pittura. Qualcosa appare improvvisamente, a cui posso aggrapparmi».
     L’elemento istintivo non è tutto. Al contrario, esso è un’utopia, un punto inafferrabile. L’immagine che alla fine compare sulla tela è distante da quel primo impulso, lo ha modificato, probabilmente lo ha tradito. Ma forse proprio in questo tradimento si definisce l’identità del pittore. Bacon ne è del tutto cosciente. «Il problema principale, quando si è artisti – dirà a Michel Archimbaud – è di riuscire a fare qualcosa che si vede col proprio istinto, ma non ci si riesce quasi mai. Ci si arriva sempre vicino, nient’altro. Quanto a spiegare quest’istinto, è davvero difficile»[5]. L’istinto deve combinarsi con una tecnica, fare i conti con le esperienze visive accumulate dall’occhio dell’artista. C’è insomma un ritornare sul proprio soggetto, un riflettere, un ripiegare sull’immagine per modificarla. Per fare di quel volto, di quel corpo noto qualcosa di ignoto, di inedito, di mai visto. Si potrebbe obiettare che è sempre, o quasi, stato così, che il pittore ricrea, ricompone la forma di ciò che rappresenta, Ma in Bacon colpisce, ed è sicuramente originale, questa compresenza dei due momenti: l’istinto e l’indagine critica. Nel 1979 aveva infatti confessato a David Sylvester: «Io penso che la creazione, in gran parte, è il risultato della capacità autocritica di un artista; spesso è proprio il senso critico a rendere un pittore migliore di un altro. Non più dotato, ma con un senso critico più forte»[6]. È solo la prima si una serie di dicotomie: l’immagine, ad esempio, e la sua cancellazione. C’è sempre, insomma, il tentativo di rendere visibile qualcosa di inafferrabile, l’attimo, il movimento. La pittura di Bacon vuole cogliere questa dimensione, tradurre in forma e colore quanto alle nostre pupille vuole sfuggire.

[…]

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Note

[1] F. Bacon, La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester, tr. it. Roma, Edizioni “Fondo Pier Paolo Pasolini”, 1991, p. 82; e cfr. anche F. Bacon, Conversazioni con Michel Archimbaud, tr. it., Recco-Genova, Le Mani, 1993, p. 36: «Il modo di fare un’immagine, questo forse si può spiegare, perché è un semplice problema di tecnica. Le tecniche cambiano, e si può parlare di pittura facendo una specie di storia delle tecniche pittoriche; ma ciò che costituisce la pittura e che è sempre la stessa cosa, il soggetto della pittura, quello che è la pittura stessa, questo non si può spiegare, mi sembra assolutamente impossibile riuscirci».
[2] John Russel, Francis Bacon, London, Thames and Hudson, 1993, p. 35.
[3] Questa distanza dall’espressionismo è stata sottolineata con forza anche dai critici di Bacon, a cominciare da Michel Leiris. In una conversazione con Jean Clay, pubblicata con il titolo Le peintre de la détresse humaine nel volume Francis Bacon ou la brutalité du fait, Paris, Seuil, 1995,  pp. 60-61, si legge infatti: «Non è un espressionista: i trattamenti a cui sottopone la figura umana non derivano da un pregiudizio politico o religioso. Non c’è polemica in lui, non intende provare nulla». In una lettera allo stesso Bacon datata 1 dicembre 1981 e pubblicata nel volume appena citato, Leiris precisa, p. 136: «Quanto all’espressionismo, ciò che vi è in esso di irritante, è il suo lato caricaturale: accentuare superficialmente alcuni tratti della cosa per ottenere un “effetto”, invece di provare – compito più difficile – a darne, in profondità, una traduzione più viva possibile». Interessanti anche le annotazioni critiche di Rudy Chiappini, Una pittura disperata e splendida, in Francis Bacon, Catalogo della mostra al Museo d’Arte Moderna di Lugano, Milano, Electa, 1993, p. 126: « La grande tradizione storica dell’espressionismo mitteleuropeo da Kirchner a Beckmann a Meidner, da Grosz a Dix ha sviluppato il tema dell’insofferenza e della protesta, dapprima valutando criticamente l’esperienza emozionale e spirituale dell’individuo per poi affrontare contenuti legati al contesto urbano e politico, fino a portare all’esasperazione la componente drammatica della sua poetica, negli anni immediatamente precedenti l’avvento del nazismo, con opere di satira e di denuncia sociale. In Bacon tutto è riportato a una visione più interiore: è la raffigurazione della vita stessa nel momento in cui l’istinto s’incarna nel fatto, la materia si raggruma in una forma, in un istante che diviene condizione definitiva».
[4] F. Bacon, La brutalità delle cose, cit., p. 16.
[5] F. Bacon, , Conversazioni con Michel Archimbaud, cit. pp. 35-36.
[6] F. Bacon, La brutalità delle cose, cit., p. 119.

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Francis Bacon, Intorno alla pittura

 

[Il testo fu pubblicato come postfazione al libro di interviste a Francis Bacon, curato e tradotto da Luigi Sasso, Intorno alla pittura, Genova, Graphos, 2000.
Comparirà integralmente in “Quaderni delle Officine”, XLV, gennaio 2016]

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1 commento su “Intorno alla pittura”

  1. Se il linguaggio non ha nulla a che fare con la pittura, la pittura a a che fare con la poesia. La pittura, e quella di Bacon in particolare, condivide la stessa rinuncia al racconto e sceglie di privilegiare rispetto al significato, le immagini che l’artista coglie nella sua esperienza di vita- Se già Montale avvertiva i lettori di non chiedere al poeta la parola che potesse salvare il mondo, un contemporaneo dell’artista americano, Lew Welch così scrive: e ho promesso/ di essere sempre aperto a tutto/ che tutto possa/ che tutto possa scorrermi attraverso. Bacon registra e rifiuta di riprodurre il mondo, Welch è strumento con la parola dello scorrere della vita. Per entrambi il tempo è la variabile attraverso cui l’Essere si può esperire, non rivelare.

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