Non si scherza con i poeti

Dinamo Seligneri

Non si scherza con i poeti

Le poltroncine era quasi tutte libere… Figuriamoci, mi dissi, se gli studenti universitari si perdono l’occasione di disertare l’incontro con una poetessa. Nell’aria c’era quell’odore di polvere tipico dei luoghi di cultura universitaria e delle grandi aule con la moquette ai piedi.
I professori avrebbero dovuto fare un po’ di pubblicità alla conferenza, dissi sottovoce.

E come dovevano fare? mi chiese il mio amico.

Ma è semplice, risposi. Bastava dire agli studenti che la poetessa che avrebbero ospitato il pomeriggio era una pessima poetessa, che i suoi versi erano brutti. Le sue maniere villane.

Il mio amico capiva e non capiva.

Allora sì, continuai a dire, che adesso tutti i seggiolini sarebbero stati pieni.

Invece a vedere la grande poetessa c’erano solo pochi dottorandi, qualche laureando che s’era messo in prima fila per far vedere al professore della tesi che sì, c’era anche lui, ed infine qualche curioso, d’ogni età, come d’altronde eravamo io e l’amico studente mio.
In tutto una cinquantina di persone, testa più testa meno.
Cinquanta persone che a pensarci oggi, essendo la poesia una cosa difficile ed essendo quella una presentazione poetica, non era nemmeno un brutto numero.

Al tavolo dei conferenzieri sedeva la poetessa affiancata da un poker di professori universitari di lingua e letteratura italiana: al centro l’ordinario, ai lati i tre associati.

Il professore ordinario tamburellò con le dita sul microfono acceso per richiamare l’attenti, e iniziò la serata. Per prima cosa ricordò i titoli e i meriti della poetessa, donna di copiosa letteratura. Mi avvidi che non sapevo niente di lei, malgrado l’avessi scorta più volte in libreria, in biblioteca o nei video su internet.
La poetessa era naturalmente Patrizia Valduga.

Cominciò a parlare.
Conosceva tantissimi versi a memoria.
Come fa a non dimenticarne nessuno? mi chiedevo. Tu li sai tutti questi versi a memoria? Chiedevo al mio amico. Questi mi rispondeva come si risponde al sud “tzè”, per dire no.
Più diceva a memoria più incredulivo. Recitava i versi con una nenia a strascico impennando di tanto in tanto per via di alcuni enjambemants verso toni da melodramma. Quasi piangeva. O faceva voci da semi-indemoniata. Altre volte sembrava una gatta in calore.
Io allora ero più scemo di ora, se mai fosse possibile, e ridacchiavo come uno studentello stupido, quale solo da poco non ero più.
L’amico, nonostante più piccolo d’anagrafia, mi guardava insolentendomi, come a dire guarda chi mi vado a portare dietro io… ma ti vuoi stare zitto.

Aveva ragione ma io in certe situazioni, non so perché, sarà la serietà generale, la compostezza dei corpi, sarà il dondolìo dei suoni, sarà che un niente si sente al volo e diventa un tutto, sarà per questo e per quell’altro, ma io mi scompiscio. Che ci posso fare?

La Valduga delle volte sembrava entrare in trance.

Tu guarda che pazza scatenata, mi dicevo tra me e me, passando in rivista le facce che atteggiava.

Tra una poesia e l’altra, sua (della poetessa) o dell’amore suo Raboni, o di Manzoni o di Monti, il professore ordinario diceva qualcosa per accompagnare lo spettacolo. Ci fu un momento che la poetessa ricordò con trasporto la vita passata assieme al poeta Raboni. Lui che studiava sempre nel suo stanzino e lei che gli andava a rompere le palle.
Di Raboni non sapevo niente, se non che Carmelo Bene in una famosa serata televisiva gli aveva detto che era un cattivo poeta e che non capiva niente di teatro.
La Valduga recitò allora una poesia di Pascoli. Pascoli, disse, era diventato per lei prezioso dopo che Raboni un giorno la guardò malissimo per via che lei su Pascoli aveva ripetuto a pappardella quello che vi andava pontificando da anni Sanguineti… il quale lo aveva bollato di qualcosa più borghese… non mi ricordo. E Raboni le aveva detto, non hai capito nulla allora.

Arrivò a Leopardi. Su Leopardi fu eccezionale. Lo definì un mostriciattolo mangiagelati che aveva rovinato per sempre e per tutte le storie delle storie della letteratura italiana il grande Vincenzo Monti (lui sì un poeta vero… che lo aveva accolto a braccia aperte a Milano… lui sì un grande poeta… no come Leopardi che era un poetucolo gobbo ingrato ambizioso all’inverosimile e senza alcuna vena poetica… leggete i suoi canti, diceva, leggeteli! prima viene il pensiero e solo dopo – a fatica – il verso!… a questo punto recitava l’Infinito con disgusto… diceva sentite qua! Sempre caro mi fu quest’ermo colle/ E questa siepe, che da tanta parte/ Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude… è una cosa fatta per forza!… ascoltate invece Monti! un vero poeta!… e giù a recitare Monti Quando Giason dal Pelio/ Spinse nel mar gli abeti,/ E primo corse a fendere/ Co’ remi il seno a Teti,/ Su l’alta poppa intrepido/ Col fior del sangue acheo/ Vide la Grecia ascendere/ Il giovinetto Orfeo…
ed altri versi ancora con me sempre più invischiato come una farfallina nella sua rete ammaliatrice – per anni poi io che di poesia non ho mai capito niente mi sono fatto bello di questa lettura eretica della Valduga su Leopardi… dicevo a chi incontravo, Leopardi? Tzè. Leopardi non vale niente come poeta! prima il pensiero dopo il verso… Leopardi è stato un grande filosofo ma come poeta… nettamente superiore Monti! Avessi avuto un Raboni che mi guardava male. Ma non mi guardava nessuno. Parlavo praticamente da solo).

A questo suo dire, i professori associati si facevano rossi rossi. Alcuni con la faccia volevano dire ma questa è matta? Uno in particolare, fresco di pubblicazione romanzesca, volle porgerle delle domande magari un pochino provocatorie… Lei rispondeva sempre che non c’era partita tra la grandezza della poesia e la barbarie del romanzo borghese. All’ultima provocazione, lanciata con noncuranza, l’associato fu insultato con un livore incredibile, sotto gli occhi costernati dei colleghi associati, e tacque per sempre. Le aveva chiesto che senso avesse scrivere poesie se le poesie erano richieste e pagate tanto poco dagli editori.

Per poco non se lo mangiava.

L’ordinario invece che era davvero, come so per certo, un grande amante della letteratura e degli scrittori, le perdonava tutte le intemperanze… le lacrime… le frasi sconnesse. Era stato lui ad invitarla. Lei in alcuni momenti gli faceva il solletico sotto la barba cespugliosa o provava, con suo grandissimo imbarazzo (dell’ordinario), a dargli un bacio amicale sulle guance… lui sempre composto sempre arbitro ma bonario capiva lei la sua poesia e capiva il luogo sacro della cultura dove stava… il suo ruolo, il suo dover essere fisicamente inconsistente, il suo dover essere tutto mente e logos… a differenza della Valduga esile ma fisicamente, vocalmente prorompente… che si mostrava come puro corpo (per di più poetante).

Ad un certo punto, passando da un delirio all’altro, la Valduga rimembrò la morte del suo grande amore Raboni e il senso di infinito smarrimento che ne seguì. Io prevedevo un gran finale e questo non mancò. In una inesorabile ascesa di toni, melodie, urletti, versi buttati in mezzo, deprecazioni agli associati, la Valduga, emozionata e sincera come una nuvola di pioggia, parlò con il fegato in mano del duro dopo-Raboni, nella sua vita. Del sentirsi sola. Del fatto di essere donna, di volere anche lei le sue gioie, le sue attenzioni… arrivò a confessare di essersi ridotta anche ad organizzare incontri con uomini conosciuti apposta su internet, con sua grande delusione. Era davvero troppo. Vedevo il più vecchio degli associati che sarebbe bastato sfiorarlo per fargli uscire tutto il sangue che aveva in corpo. L’ordinario era un pugile, incassava tutto con grande stile. Ci sapeva fare davvero. Una nomina, la sua, ben meritata.

Poi, all’improvviso, tutto finì. Si spensero i microfoni. La Valduga tacque.

In questi casi non sai mai se andare o non andare a parlare con le star. Di solito non vado. E infatti non andai nemmeno quella volta, ma mi promisi che le avrei scritto una lettera.

Che non le scrissi mai.

Uscimmo. Tutti gli studentelli se ne andavano a faccia all’insù, felici di essere stati visti dai loro professori…

Io nel flusso ventoso dell’uscita, cercavo un po’ di ragionare… far costrutto. L’amico andò dal professore dissanguabile per parlare di affari loro. La tesi. Il futuro dottorato. L’assegno.

Scesi sotto. Passai senza saperlo vicino alla mensa: la riconobbi subito dal profluvio di odori dolciastri, dei suoi fumi incontrollabili che scappano sempre dalle mani dei cuochi. Dissi quasi quasi (ho sempre amato le mense). Poi vidi i prezzi… per i non iscritti conveniva il ristorante quello vero.

Ed infatti ad un ristorante vero andammo quella sera.

Risi molto a fare l’imitazione della Valduga assieme all’amico e a qualche altro convenuto. Oggi so però che in mezzo a tutta quella roba, per quanto anche lei avesse delle punte di insopportabile lirismo, di insostenibile teatro, in mezzo a tutta quella roba, la migliore era lei che se n’era fregata altamente di chi c’aveva attorno, che non ci pensava proprio a voler fare bella figura tra i grandi accademici, ed era stata la più persona in una riunione di cadaveri burocratizzati.

Sì, mi dissi tornando a casa sul tram, sì sì vecchio mio, facevi proprio bene a fare lo stronzetto ai tempi dell’università… facevi proprio bene… non c’è niente da rimpiangere di quel periodo che fu per te tremendo… in mezzo a gente che ti appariva tremenda e che tu scansavi come sempre hai scansato chi non ti aggrada… non salvare nulla del tuo odierno rimpianto, nulla… di quel periodo… salva solo se puoi qualche cena alla mensa, qualche sera che calava rosso fuoco sulle finestrelle dell’aula C e poi salva il sorriso di Monica quel giorno che pioveva e tu sul portone dell’università eri solo e come sempre senza ombrello…

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Il testo è tratto da Diario nullo (Tomo sfuso di Giugno)
di prossima pubblicazione in “Quaderni delle Officine
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13 pensieri riguardo “Non si scherza con i poeti”

  1. bravo!
    uno stile sempre più personale, incisivo e riconoscibile
    devi proprio trovare un editore coraggioso e vero per essere pubblicato, gli altri non lo farebbero mai perché dovrebbero buttare nel cesso la quantità industriale di ciofeghe e di mezze seghe che mettono in giro ogni giorno

  2. Caro Dinamo, come sempre i tuoi testi sono un concentrato di ironia, intelligenza, acume e smarrito sguardo e vanno sempre dritti al cuore delle cose. Sul mondo accademico hai ragione piena, ma non scherza nemmeno quello dei letterati e dei poeti, che ha i suoi bei veleni.
    Comunque il ritrattino della Valduga è fantastico, ma è meglio non dimenticare che certi atteggiamenti se li può permettere (anzi, sono l’essenza stessa della parte che ha scelto di recitare) perché alle spalle ha proprio quel mondo accademico e di potere che la sostiene e, senza Raboni, non sarebbe stato affatto lo stesso. Comunque a me la sua poesia piace, assai meno la persona e il modo terribile in cui la recita. Taccio, per pudore, sul suo giudizio su Leopardi, di cui, chiaramente, ben poco ha capito.

  3. Pellegrino, ti ringrazio dell’apprezzamento. Sul fatto della pubblicazione però ho deciso da qualche mese che mi farò scoprire dagli editori dopo la resurrezione. Per ora non mi resta che accumulare testi su testi su testi come se ci fosse un domani.
    D’altronde non viviamo in un paese di testi di c.?

    Egillarosabianca, concordo pienamente sul risultato finale dell’incontro pugilistico.

    Francesca, nel Diario nullo, il pannello precedente rispetto a questa storia tratta proprio dell’ambiente degli scrittori e lo fa con lo stesso filo di divertimento. Ma forse con più amarezza.
    Lo faccio presente per dire che sono abbastanza del tuo parere sui due mondi, accademico e artistico.
    Certo, non posso però non far presente che sono disposto a perdonare (!!!) di più un artista che un professore. Sempre che l’artista da perdonare sia un vero artista.

    1. Eh sì, che sia artista vero. Allora tutto – o quasi – si perdona. Però, per essere artisti veri, si deve essere anche veri esseri umani, altrimenti si tratta solo di tecnica e non si aggiunge nulla al mondo.

  4. Prima del “quaderno” pubblicheremo la storia di Patanello, una vera parabola d’altri templi. La “presentazione narrativa” la lasciamo alla scoperta dei lettori che sbirceranno nell’e-book o lo scaricheranno. In quel caso ci piacerebbe tanto sapere se anche loro, come noi, hanno sperato, fin dalle prime righe, che la conclusione fosse proprio quella, e proprio con le medesime parole presenti nel testo. L’unica precondizione affinché ciò avvenga è aver partecipato, anche per pochi secondi, a una “presentazione narrativa”.

    g.

  5. Valduga disse una cosa sensata: Morto Raboni, non so più con chi parlare. Ecco: si può stare zitti allora.
    Popper disse che la star è una merce totale.
    Evito le star come la peste; non sarei andata a sentirla.
    Bene ha fatto, però, Dinamo, che ci ha regalato ancora una volta le sue parole preziose. Come un lampasso. Grazie.

  6. Francesca, potrei essere d’accordo ma che cosa vuol dire essere veri esseri umani?
    Gli artisti che apprezzo di più, sono andato a leggere le biografie, come esseri umani tanto boni non erano.
    Forse direi che per fare un artista ci vuole una voce, un po’ di carne attorno e (se proprio ti va bene bene) un’etica.

    1. Dinamo, è quello un vero essere umano. Molti pur acclamati come grandi nella letteratura e nell’arte sono stati umanamente degli scalcagnati, privi di etica, di generosità, di capacità di rispettare i sentimenti altrui. Poi i difetti, i caratteracci, le mancanze, le debolezze, va tutto bene, ma non la mancanza di etica e generosità. Altrimenti non si riesce a dare. Alla fine, quel che distingue un vero grandissimo artista – quello che appunto aggiunge qualcosa al mondo – da un artista è questo Dunque ce ne sono pochi.

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