Il colore dell’attesa

forse non basta muoversi di lato
sguardarsi dagli specchi
_i volti nudi e i corpi_
per finire d’inverno
forse si muore solo per provare
come si nasce e si rinasce _vecchi_

 

Cristina Bove

 

Il colore dell’attesa
(Inediti)

 

 

 

Mille secoli fa

tintinnava nell’aria un soffio emerso
docile all’ondeggiare delle alghe
_spariva e riappariva _
di stelle spente l’acqua riportava
forme talmente rarefatte che
l’antica voce
prestava invano le sue note _il canto
s’era interrotto nella sabbia
sembrava che lo scuotere dei tempi
potesse intrattenerne qualche bolla_

            alto il riflusso.
            Il vecchio timoniere ha perso il vento
            se l’è dimenticato ad ogni attracco

e adesso rema nella sua dimora
naviga solitario intorno al letto
se pure chiamo non risponde, è stanco
ha riparato reti e stretto nodi

            conosceva gli eroi delle burrasche
            non poteva sapere che le onde
            s’arrestano al di qua delle nottate.

Dorme fino al presente
separa il sé dal vecchio che intravede
si percepisce vela
ed è soltanto un albero spezzato
in questo andirivieni di battigia

 

*

 

 

 

(per la cara amica e poetessa Lucia Tosi)

E
affiori giornalmente
come una luna a mezzogiorno
scrivo di ciò perché tacere è peggio
che accendere una lampada
votiva al di là dei graniti
intensa che mi sfuoca il centro e vengo mossa
fotografia d’una romanza
hai voglia a dire delle ridondanze
ché a nessuno ritorna la battuta
_faccio suonare un dvd di contrappunti cerebrali_
con sottofondo di Chopin
siedo nel blu di un’invenzione
e ti ci porto

mi parlavi degli anni e di dimore
ti chiedevi il perché si perda terra
mentre ancora si usano le scarpe
ti rispondevo che per me non c’era
un suolo da percorrere
e ridevi: tu vivi tra le nuvole – dicevi
e porti pioggia

sapevo bene a quale forma d’acqua
ti riferissi, e quasi mi pentivo
d’esistere un dolore _di quelli che perdurano
e che niente e nessuno potrà mai cancellare

ma adesso sai, che se la mente va per fatti suoi
tu resti _anche se hai preso il volo_
perché ti ho messa fuori da cornici
e t’intravedo
in piccole, improvvise, luci

 

*

 

 

 

Dei relitti e delle pene

sul banco degli esclusi
nato nei corridoi kafkiani
tra insolvenze e delibere
uomo di carte e sigle ha la sua pena
lui non ha scelto d’essere inviato
da una camera a un’altra
né d’essere dimesso da malattie legali
al massimo potranno eliminare
ogni sua traccia
ma sempre dopo che l’imputazione
alla fine del tempo lo riveli innocente
dal delitto di lesa realtà
lui mai stato visibile
se non a tratti _e in fase transitoria_

essendo morto prima di morire
gli irrogano la vita sui barconi
senza condoni e senza dilazioni
scontabile ad oltranza a schiena china
se approda nei raccolti dei tiranni
tra le casse di broccoli e zucchine
fino a cancellazione d’ogni colpa
_o polpa_

 

*

 

 

 

Di messe a fuoco e di feline amenità

rimpiccioliva fino a sparizione
il punto
il gesto dileguava nelle onde
dicevano che fosse una follia
(per i mediocri il sogno
è l’autarchia di chi si dorme in proprio)

per quanto l’apparenza lo sconfessi
per quanto il corpo navighi per mari
di leggi ottuse e codici morali
_mentre la terra gira senza approdi_
un uomo è soprattutto il suo pensiero

i cervelli di carta ignorano sé stessi
perfino un gatto ne sa più di loro
son sicura
sognano i gatti, tra tegole e grondaie
forse di serenate sopra i tetti
senza regole imposte e pregiudizi
infatti un giorno
che m’affacciai a me stessa blu e bellissima
dissero d’aver visto una sirena
nuotare alla finestra
come in un quadro di Chagall

“Ti sei guardata bene?” chiese l’uomo

“Certo che sì -risposi-
sei tu che osservi con gli occhiali spenti”.

 

*

 

 

 

Considerazioni da chaiselongue

Non devo far chilometri per arrivare all’acqua
il deserto non soffoca i miei piedi
non mi uccidono se guardo in faccia un uomo
__tuttalpiù mi violentano per strada__
non porto anelli al collo
e non ho il sesso tagliato e ricucito
reco però le ingiurie alla mia età
di chi si crede giovane ed è vecchio.

Avremo forse pace
quando inciampando nelle terre d’ombra
incontreremo lo straniero-io
sabotatore delle traversate
lì sulla costa giunto
sconosciuto alla gente del paese

e ci proclameremo smemorati
c’inventeremo un essere diverso
mangeremo l’ortica per sfamarci
e dalla lingua esangue germineremo bolle di parole

un gran falò
faremo d’ogni lingua e d’ogni glossa
tanto che ce ne viene
da lettere ranocchie orizzontali
alcune imbalsamate come santi
altre lisciate tra le messimpieghe
laccate di carminio e di bon ton

in premio una garrota ad personam
avvitamento ad hoc

o la condanna a vivere da bruti
orfani a vita d’ogni conoscenza

 

*

 

 

 

Speranza cronica

un fiume corridoio di plafoniere
riflesse nelle sponde di graniglia
ci si annega
giovani e vecchi, livellati a fiato
si raccontano vite in ogni stanza

antiche cicatrici e nuovi indizi
l’analgesia risucchia sogni e grida

smarrita in questo bianco _i muri solo
portano tracce di colori ambigui_
tra un giorno di passaggio e una radura
docile tra gli abeti del parcheggio
afferro una possibile schiarita

una panca di pietra nel viale
una donna di marmo nell’aiuola
fotografo il viavai delle scadenze
_ce ne sono pressanti_
mi rendo conto d’essere scampata
a competenze, e che nel piano avanzo
mentre scorrono intorno le domande
che tutti fanno e a cui non si risponde

ho qualche appuntamento da fissare
alla porta di mezzo _ed un invito
da declinare gentilmente_
ancora

 

*

 

 

 

Sull’entropia d’un trittico

Sopra i carri da morto _era finito il fieno_
trafitti di delizie
sbilenchi penzoloni dalle pance
i mostri e i ratti (non vi pare
che stanno qui tra noi quei malfattori?)
A imbavagliare i commensali
cuochi d’alta fucina ingozzano i malvagi.
Sono proni
i lacché delle banche, i servitori
che adesso come allora fanno festa
al re che nudo gozzoviglia a oltranza

si traghettano infamie per campare
si vendono indulgenze agli assassini
i pesci muti vengono affettati
i topi si nascondono nei muri
e cosa mai ci resta da pensare
da musicare da comporre in frasi
possiamo solo mendicare il sogno
dei folli e dei poeti

abbiamo perso già da molti secoli
la facoltà di opporci alla malora
ciechi più delle talpe
nel ventre dei salotti ci ottundiamo
bevendo tè e veleno.
Ma forse partiremo da Hamelin
al suono del gran piffero
_quando l’assedio ci costringerà_
ad affogare il mondo in un pantano

intanto che ci vomita il sovrano
con un rosario in mano e un cero in

il resto è cosa nota
Jeronimus sapeva e dipingeva
: sembravano colori_ erano grida_
e mai si cheteranno sulla tela
e a buon ascoltatore
bucano mente e cuore. Tuttavia
se non saremo lesti a decrittare
non ci sarà per noi madonna in cielo
o santo che ci possa traghettare.

 

*

 

 

 

Sminuendo l’enfasi che assale

Sospingo la parola
giù per le strade piatte delle regole
finché s’arresti alla metà del dire
mentre la mente va per fatti suoi
in atmosfere algide
_meglio ignorare il muscolo battente_
e stazionare nei vestiboli
diventa l’abitudine
di stanchi viaggiatori da sofà

e diciamolo pure
a cosa serve avere un’emozione
che t’improvvisi giovane
quando hanno spento già tutte le luci
e sei nel libro dei sopravvissuti?

Si diventa lucertole d’inverno
assiderate

 

*

 

 

 

Le storie

portatele altrove
dove non sia possibile narrare
storie scadute da bacheche antiche
i vetri rotti, i piccoli
labirinti di tarli

portatele nel cielo d’altri mondi
agli angeli supini
stanchi di custodire ed annunciare
_che ne facciano monito agli dei_
d’altro creare

ma forse siamo noi gli stolti dei
creatori di limiti e discrimine
maschere ricoprenti crani vuoti
incapaci di scegliere la luce
e solo amare

mi chiedo e poi non so cosa rispondermi
se non reminiscenza di pensiero
le mie visioni _ forse
per un eccesso ammoniacale
alle sinapsi

e storie,dunque
: di quelle che ritraggono illusorie
scene di vita (che cos’è la vita)
come spillare vino dalle botti
e zampillare un’eresia di fiori

 

*

 

 

 

Più che vivere

scrivo
da reduce di terra
scrivo per non soccombere ai richiami
della caduta libera
__a ripensarci: fu sorpresa, esistere__
e ancora il soffio
di quell’agosto ardente e disumano
in cui volai com’Icaro senz’ali
puntualmente s’affaccia a ricordare
che visse un’altra me da quell’impatto
e un’altra me morì su quell’asfalto
__ne scrivo e ne riscrivo
perché, signori miei, non lo sapete
che sono i morti a seppellire i vivi__

e chi non ha saputo di miracoli
nemmeno sa la differenza tra
risuscitare senza nome
estranea al corpo
__ingessarono gli arti, la memoria
fu rimandata a tempi più accessibili__
e la costante amnesia
così che diventasse cosa semplice
vivere un’altra vita
e l’una e l’altra diventare storia

 

__________________________
Il colore dell’attesa, opera inedita di Cristina Bove,
sarà pubblicato a breve in “La Biblioteca di RebStein“,
LXX, Settembre 2017.
__________________________

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