Coppie minime

Elio Grasso

Nota di lettura a:
Giulia Martini
Coppie minime
Latiano (BR), Interno Poesia, 2018

La sonorità delle “coppie minime”, per quanto possa suggerire il significato in linguistica, rilancia costantemente il senso di versi solitari o adiacenti, costituisce una possibilità in più dello stato della poesia, proprio nell’istante in cui viene letta. Costringe un pensiero, nel lettore, affinché riconosca forze e intensità fino a quel momento sconosciute, o sfocate. Tutto il libro di Giulia Martini è una strada scoscesa, con pochi pianori dove riprendere fiato. Vi si trovano più problemi che abbandoni a certi ricorsi della poesia italiana, a quelle pagine assecondanti pigrizia o voluttà banali e mal assunte da chi disattende la lingua storica. Qui si osserva meglio e attentamente quel che l’ago della bussola indica apertamente o di soppiatto, seguendo ogni spostamento e vibrazione. Dopo essere stati rincorsi, e corteggiati, dalla tecnica, ci si scopre capaci di acchiappare le immagini anche controcorrente, e perfino i versi d’amore confinano con le conseguenze reali della fisica. In questa creazione continua si è trasportati nella vera eloquenza delle cose, che calcolano le traiettorie al fine di portare là dove l’autrice sa di elargire una forza prodigiosa. Il viaggio sostenuto risale alle origini della lirica. Che non manca mai, in Coppie minime, sfidando chi ancora resiste dal farsi prendere, come se le regole della metrica rendessero invulnerabile e respingente l’anima che invece vuole con ogni mezzo intrecciarsi e addentrarsi nel mare profondo della profezia poetica. Un libro non addomesticato per spiriti d’eguale definizione, dove amore rima con tregua in una dimensione che non sta sotto gli occhi di tutti ed è arduo raggiungere. Proprio qui s’intende il carattere di Martini, attento contemporaneamente a due tipi diversi come Zanzotto e Cavalli, tanto che attrazione e repulsione diventano artefici degli strappi dello spazio. Non si tratta di identità, ma di natura integrale di una scrittura che spinge da tutte le parti, e le dimensioni prima citate moltiplicano respiro, necessità, occasioni e figure esistenziali. La natura collinare e gli strati delle ère medievali stanno nel crogiolo intimo dell’autrice, mentre alza e abbassa il terreno a seconda del richiamo euganeo del poeta veneto o della compagnia umbra della poetessa. Ma sono nomi solitari, abitano questo libro con sobria riluttanza, alla discrezione si rivolgono nell’atto di rispondere alla percussiva giovinezza di Giulia. Da apprezzare, rivalutare, goderne pubblicamente. Per una volta almeno, in poesia, diamo ragione a quella bestia di Rimbaud: sarà di certo morto, ma mai del tutto recluso nel dipartimento del passato. Ci avvisa che oggi qualcuno fra i giovani sarà il precursore del futuro. E che i morti ancora modestamente vivi dovrebbero considerare l’avvenuto sorpasso. Tanto loro non saranno mai i Rimbaud del futuro.

 

Testi

 

Indiano, Patagonico, Siriano
e Grande sete e Sabbie nere, Gila,
il Quarto vuoto, il Gran Bacino, Gobi,
l’Antartide, Los Médanos de Coro.
Victoria, “se ci vai, non esci più”
e Atacama, Tanami, Sahara,
Sonora, Sabbia rossa, Artide, Lut –

è l’ora, è l’ora, è l’ora, è l’ora, è l’ora…

 

*

 

Lamento di una stele a grafia mista
che non mi stai in cielo e non in terra
e manchi dentro gellabe a percorrere
stellato indestreggiabile deserto.

Se trovo evaso da un’età di mezzo
– con tuffo all’estuario dove t’agiti –
ammalorato nei miei pochi secoli
dromedario che scambio per cammello,

subito estrudersi edere e confitte
pietre a perdersi e debuttare cedri
che scambio per cediglie ed esordire

fantasmi con lenzuola di percalle.
Così esumarti senza mai morire
«e reducemi a ca per questo calle».

 

*

 

Così fra toro e pesci campi come
campi come un terreno fabbricabile
intento fra due aree di servizio.
In questo poco spazio latitudini

e un distico capaciti nell’attimo
in apertura al tuo cortometraggio.
Intendo quello tra febbraio e aprile
in cui conservi innata l’attitudine

di compiere anni luce e settimane.
Se ti rimane poco nella metrica
per me, fra barbabietole e l’arcavolo

latinobarbaro chemin de fer,
ferma l’immagine su un fiordaliso.
Da lì fiorda il deserto che ho di te.

 

*

 

In alto il numero del treno, questo nero
della banchina sveglia la settimana
di un tuo passo. Ora il nume di metallo
annuncia la direzione ai tuoi ginocchi.

Enumero i rintocchi dell’arancia
in folle giro al polso, ti sorveglia
sette volte quattro quello
di provincia che ho da darti.
                                             Ovunque sali
e da ogni parte parti.

 

*

 

Amore mio, ma che è successo?
Invece di averti negli occhi,
ti vigilo l’ultimo accesso.

 

*

 

Pigro divo del nostro recidivo
essere al mondo fra un Meridiano e un bar
Maurizio, che ti aggiri sempre fra
questo recinto, questo tabernacolo

dove ritorni vivo per miracolo,
scampato non sai come alla cattiva
sorte della tua penultima vita,
perduratura tra disavventure.

Ma chi conosce la vera identità?
Chi ti sorprende, chi si prende cura
di te, fra le Cure e Campo di Marte?

Qualche pellegrino, qualche avventore,
questo vaso di latte, questa cesta di fiori,
di cibi secchi, di cibi ancora freschi.

 

*

 

Quindici. Mi lasci alla screziatura
di un petalo semidoppio. Qui dici
poco (la tua indole di preamboli,
di tavola calda, di monolitico):

Noli me tangere. La muratura
ti conta fino a venti e salta in aria.
Rimani in un refuso saltuario
sulla periodica degli elementi.

Un foro nel Fosforo.
Un neo nel Neon.

 

*

 

Eccoti disordinata ai venti
cinque anni di vita. A volte eccedi
nell’uso del si impersonale.

Si dice che dispari ai quattro venti:
Thonon-les-Bains, un piatto di asparagi,
nelle reti delle Alpi Retiche –

e che rimani sempre sul fondo.
Sul fondo scuro e denso di caffè
di una tazzina di porcellana.

 

*

 

Le Ferrovie dello Stato dividono
l’ortofrutta dai nostri fragmenta.

Avanzo lenta rivolta all’indietro,
un occhio al finestrino e l’altro intento
al confortevole ambiente Smart. È martedì.

Anche così, è stato quel che è stato –
ma preferisco la semina alla cedua
cosa volgare che di nome ha nome.

Vado a riscriverti tra qualche
mese, da qualche casamento.

Amore, niente più si oppone
a che arrivi mezzogiorno.

 

*

 

Dico la verità: come fai, falli.
E tu che mi dicevi che eri pura…
Ricordati, spergiura, la Cavalli.

 

*

 

VOCI CORRELATE

Erano i capei d’oro a Marta sparsi –
anzi sparsissimi, soprattutto a colazione.
Faceva colazione con i versi
editi da Giulio Einaudi Editore
per la sobria collana Collezione
di poesia
, dalla coperta bianca
con scritto sopra un «pezzo di successo».
E mescolava rime a rimasugli.

Più di tutti le piaceva la Cavalli.
Diceva: – Non potrai mai fare questo
se prima non hai letto la Cavalli.
Sembrava un po’ l’oracolo di Eschilo,
con Pigre divinità e pigra sorte
accanto allo sgabello dove strasedeva
abbarbicata come una pizia.

Ma le piaceva anche l’altra Patrizia –
quella più storta, fissata con la morte,
di cui condivideva il tasso alcolico,
le ore poco sobria in libri troppo sobri,
come quel liquore che ha per nome Alchermes
che crea un nesso fra alcool e Ermes.
E infatti Ermes l’accompagna accolito
nell’«oltremorte» della notte notte.
Che viene dopo la «sera sera» di Zanzotto.
Alle otto riprendeva con quel vizio
assurdo, lamentarsi un po’ di tutto,
questo per quello, che in casa mia fa caldo…
Per calmarla domandavo di Maurizio,
il suo gatto – se non l’avessi detto.
Lei rallentava subito la corsa
e dalla borsa estraeva un altro tizio.

Erano i capei d’oro… – Ma che oro!
Sono gialli che più gialli… Sembro Trump!
Tra un po’ ricomincerà, pensavo intanto,
a lamentarsi, quanto è lunga farsela
a piedi da casa mia, in via G. Monaco
fino al quartiere di Sant’Ambrogio.
«Non era l’andar suo cosa mortale» –
la facevo camminare, aveva i trampoli.

Riconosceva subito Montale,
se nascondevo qualche citazione
nella conversazione su WhatsApp
che era un po’ l’archivio personale
delle nostre Personae separatae
nel breve spazio tra un ancora e un già.
«In te la luce ancora trova luce,
oggi non più che al giorno già annotta»,
diceva quella della Lunigiana.

Non la sapevo, quando scrissi della luna
che c’era già «in un cielo ancora azzurro» –
e credo fosse quella la mia prima
stramaledetta poesia. L’ho detta a Marta.

Sul nome Marta so una barzelletta.
C’è un genovese che chiama un giornale
e dice: – Posso mettere un annuncio?
– Certo, mi dica cosa vuole scrivere.
– “È morta Marta”. – Solo questo? – Sì.
– Non costa niente una parola in più…
– Davvero? Allora se non costa niente,
scriva: “È morta Marta. Vendo Panda blu”.

Quale fosse l’ora blu era una domanda
meravigliosa e piuttosto ricorrente.
Sono andata a cercarla su internet,
tra le mille di disambiguazione
meta-pagine dell’enciclopedia.
Dice che è l’ora della malinconia,
l’ora più fotogenica, quando il sole sorge –
e giù con mille fotografie scattate…
È anche una libreria in Viale dei Mille.

Era già l’ora che il disio volge… –
ma Dante non era tra le voci correlate.

“Era già l’ora oppure non ancora?”
È questa la domanda che sconvolge.
Marta l’ho conosciuta nella nona –
quella delle rivelazioni, l’ora famosa.
Galeotto fu Fratelli di Samonà –
ancora o già? Già-ancora o ancora-già?
A parlare di Samonà e di Fratelli
entrava in me l’antico giavellotto.

Insieme ai versi di Amelia Rosselli.
Come questi, da Variazioni belliche:
«Tutto il mondo è vero se tu cammini ancora» –
ancora o già? Ancora-già o già-ancora?
Domanda bella, domanda bellicosa.
Marta l’ho conosciuta nella nona –
e credo fosse lei la nona ora –
fotogenica di una fotogenia meravigliosa.

Diceva: – Per banalissima antipatia
non ho mai letto la Maria Luisa.
Lei lo sapeva che per fare questo
bisogna essere simpatici, e simpa-
tica considerava Sylvia Plath –
un’altra fissata con il blu:
«O colore della distanza e della dimenticanza!
Il buio mi incappuccia di blu ora, come Maria».

Marta o Maria? Maria-Marta o Marta-Maria?
Patrizia e Patrizia, Sylvia poco seria –
«Tutto il mondo è vero se tu cammini ancora»,
Amelia Amelia Amelia Amelia Amelia.
Cammini ancora ma ti rincorro già.

Con la mia poca serietà prometto
che bla bla bla, anche se non mi odi –
per sempre sempre. O almeno fino al giorno
stramaledetto della nostra laurea.

Erano i capei d’oro sparsi a Laura,
che li avvolgeva in mille dolci nodi.

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