La mia palestra per scrivani ha avuto negli anni un solo grande merito: che eravamo tutti ignoti al grande pubblico. Rispetto al piccolo pubblico poi, io che avevo aperto la palestra per scrivani, ero il meno conosciuto di tutti. Figuratevi che spesso non mi conoscevano bene o si scordavano che faccia avessi pure quelli che venivano a scrivere da me – ché poi scrivessimo poco, pochissimo, alcuni non hanno mai scritto nemmeno un rigo, è un altro discorso. Per piccolo pubblico intendo ovviamente la gente del paese. Io non conosco quasi nessuno in paese, mentre lo zio scrittore, Sandro, Ada, Marta, Gastone, Ernesto, Monica, Dario, Gabriele, Guido, Tiziana, Cinti, Berla, Andrea, Carlo e Fabrizio conoscono un sacco di gente in paese e se cammino assieme a loro, ci salutano tutti (ma salutano loro, io sono quasi trasparente).
Dico questo perché molto spesso si legge di scrittori che fanno dei corsi di scrittura creativa dove accorrono molte persone. Ora, a parte che io non ho mai fatto corsi a nessuno, né mi permetterei (io ho fatto una palestra dove chiunque se vuole viene, gratis, e si esercita, se vuole, a scrivere o a imparare a scrivere, sempre gratis, facendosi aiutare da chi lo vuole aiutare, ascoltare, o addirittura dove i più dotati disimparano proprio, a scrivere, ché tanto moriremo comunque tutti); quello che ci tengo a dire è che è facile avere gente ai corsi quando pubblichi con grandi editori o anche medio-piccoli editori: la gente non va solo o tanto per imparare (ché è davvero vergognoso farsi insegnare a scrivere alla maniera letteraria), la gente va per farsi degli agganci, si dice, con il mondo delle lettere e il mondo editoriale, ché da cosa nasce cosa e via discorrendo, lo sappiamo tutti; ecco, da me, alla palestra per scrivani IL’JA IL’IČ OBLÓMOV, non c’è verso di agganciarsi né al mondo delle lettere né al mondo editoriale.
Ci sono dei ganci sui muri, è vero, ma questo perché dove ci mettiamo noi oggi a far finta di scrivere, un tempo, l’avrete capito, era la stalla per le vacche e gli asini.
Ho abitato a Roma per 4 anni e mezzo. Prima sulla Prenestina, poi, salendo di rango, sulla Tiburtina. Sono stato uno studente e dopo tre anni sono stato uno studente fuori corso. Sono andato fuori corso perché passeggiavo troppo, giocavo tanto al biliardo e alle carte e studiavo poco; nonostante la facoltà che avevo scelto non fosse troppo impegnativa, Filologia moderna, a tutto m’era capitato di pensare in quegli anni tranne che a laurearmi in tempo. La cosa che mi fa più arrabbiare oggi, ripensandoci, è che ci ero partito proprio che sarei andato fuori corso, forse perché tutti dicevano “guà, almeno un anno, te lo dico fin da mò, fuori corso ci vai”. Non potevo fare altrimenti. Alla laura magistrale invece, quella dopo la triennale, mi ero detto, mbè, questa, la magistrale, la prendo al volo: ci ero partito che l’avrei presa al volo, ché tanti me l’avevano detto, “La magistrale la prendi al volo invece, non è come la triennale… è ‘na fumata” e infatti, oh, ora che ci penso, sì, l’ho presa al volo davvero, la magistrale, da un’altra parte, in un’altra città, ma al volo. ‘Na fumata.
Mentre qualche tempo fa guardavo in televisione un film molto bello, Estate romana di Matteo Garrone, ho pensato che di tutto il tesoro che c’è dentro Roma, no sotto, dentro, perché a Roma dove ti giri c’è un regista, se suoni il campanello in un condominio c’è magari una scrittrice, se ti fai lunga lunga una via è capace che sbatti la spalla contro un attore teatrale o magari c’è uno spettacolo teatrale a due fermate dal tuo tugurio: insomma, se uno vuole c’è un tesoro di vip, c’è maniera di dire una parola ai grandi del mondo culturale, ad agganciarti. I ganci sono tutti a portata di mano. Basta quasi che ti metti in posizione, davanti, e tac, t’agganci. Nemmeno te ne accorgi, delle volte, mi hanno detto. E sei agganciato.
Io a Roma, invece, sarà che ero troppo giovane e stupido; sarà che ho abitato in brutti condomini; sarà che ero troppo impegnato ad andare fuori corso; sarà che ho visto qualche film all’Azzurro Scipioni di Silvano Agosti – è vero – ma da scemo totale mi veniva da ridere ché Agosti commentava i film russi ad alta voce; sarà anche per qualche altro mio limite, ma mi accorsi qualche tempo fa che io quando stavo a Roma, alla tangibilità dei grandi, se posso dir così, non ci ho mai pensato, cretino deficiente che ero!, e l’unico gancio con il mondo artistico è passato per un piatto di fusilli al sugo di mia madre che venne a mangiare a casa nostra uno strano personaggio sui cinquant’anni che ci portò un coinquilino che ansimava per fare il regista; questo signore che venne a mangiare i fusilli al sugo di mia madre si chiamava Gianni, fumava canne a rotta di collo, canne che chiamava Scubbe, e faceva dei bellissimi componimenti poetici in rima baciata sugli animali – che poi erano più un ricamo di fischiettii fì fì fìuuu che di parole – e poi aveva scritto un libro di formazione e d’immigrazione che iniziava con lui bambino che lasciava Bitonto per andare a Roma, a fare il povero con la sua famiglia – un inizio tutto notturno ma luminoso chiaro, perché descriveva la piazza di Bitonto di sera, nel momento dell’addio, l’addio a Bitonto, che m’era sembrato di leggere Manzoni… ma ero molto giovane, forse esagerai… eppoi a lui il sugo di mia madre non è che gli piacque così tanto; e l’altro gancio è stato un certo Toni, uno che faceva l’aiuto-regista in un programma tamarro che c’era allora sulla mediaset, che una sera srotolò sul tavolinetto davanti alla nostra tv “‘no striscione de’ coca” per poi andarsene “tirato a lucido” a ballare assieme al mio coinquilino (no l’ansimante regista, un altro, ché avevo cambiato casa) forse a Ostia o era Fregene, mentre una matricola delle parti di Sora che avevamo in casa, quando i due se ne furono usciti, mi venne tremante tremante a dire “marò quann’hann’a’pippat chille due… là robba te brucia le cervella aooo”.
E rimasi sganciato pure qui.
I ganci che mi offre ora la mia provincia eterna se si possono chiamare ganci, sono ganci di pensieri.
Una volta mi invitarono ad un matrimonio in campagna (in campagna, qua da me, è tutto uno sposarsi). Conoscevo a malapena gli sposi e per non apparire più imbecille di quanto già fossi, attaccai bottone con una ragazza che avevo visto lì per la prima volta e che per caso m’era capitata vicina al buffè. Parla parla, mi disse che leggeva poco ma che aveva da poco letto Parise – quasi tutto – e non se lo immaginava ma le era piaciuto tanto. Mi disse pure qualche bella frase o passaggio che l’avevano, come si dice, colpita nel profondo e io mi dissi “ah, che ragazza interessante abbiamo qui in campagna!”; finiti i discorsi letterari, parlò di politica, e parlando di politica, come succede spesso anche tra i non parisiani (e i non parigini), ammucchiò palate di propaganda a palate di merda personale a palate di merda e basta.
Non che io capissi di politica, ma lei non ne capiva davvero niente, ed era anche parecchio razzista e ortodossa.
Insomma, il matrimonio mi servì da gancio per capire che la narrativa, anche la buona narrativa, l’ottima narrativa è grazie a dio comunque più facile e comprensibile della scienza politica e mi complimentai con me stesso che anni prima, indeciso fino all’ultimo, e ignorante parimenti di entrambe le discipline, avessi scelto di aprire una palestra per scrivani e non una palestra per politici, come mi avevano suggerito in tanti… per farmi degli agganci. Ché da cosa nasce cosa, lo sappiamo tutti. Ecc ecc.
una bellissima lettura dell’esperienza che attraversiamo tutti per arrivare a capire che, alla fine, è meglio sganciarsi ;-)