Sono convinto che Sebald avrebbe apprezzato queste 100 figure di cui Antony Gormley ha disseminato la spiaggia di Crosby nei pressi di Liverpool. Mi piace immaginare un capitolo mai composto degli Anelli di Saturno in cui lo scrittore tedesco s’aggira fra quegli uomini nudi che contemplano l’orizzonte marino, lui che spesso guarda al mare, spiandone la vastità che, dall’Inghilterra toccando a est il continente, viene a chiamarsi Germania: il Mare del Nord rievoca ancora, a guardarlo da una sponda o dall’altra, le trasvolate dei bombardieri che andavano a colpire le une o le altre città, l’urlo delle sirene, i fasci dei riflettori scagliati contro il cielo notturno, il fischio delle bombe. Il Mare del Nord si distende sempre ad additare distanze e vastità di un’Europa che, nell’arte, non vuole smettere di essere una.
Le statue di Gormley guardano verso l’Irlanda con quieta e pacifica attenzione e sospensione, trovano a Crosby il loro approdo definitivo dopo essere state temporaneamente installate a Cuxhaven (1997) alla foce dell’Elba, a Stavanger in Norvegia e a De Panne in Belgio – l’opera era stata pensata proprio per la città tedesca e per il Wattenmeer, quella lunga fascia costiera interessata dal fenomeno molto marcato delle maree, per cui secondo cicli giornalieri il mare arriva ad allontanarsi in alcuni punti dalla costa per chilometri, per poi tornare rapidamente a ricoprire il fondale lasciato scoperto; fa riflettere allora il fatto che proprio un artista britannico, figlio degli ex-nemici, abbia concepito una sorta di pacifico battaglione di sagome umane che, lungo la foce dell’Elba, in territorio tedesco, guardava il mare, il tempo delle maree, il transito delle navi, il volo degli uccelli marini, l’alternarsi di buio e di luce.
La destinazione finale dell’opera è stata la spiaggia di Crosby dove queste 100 repliche in ghisa del corpo dell’autore, alta ognuna 189 centimetri e pesante circa 650 chilogrammi, sono distribuite lungo 3 chilometri di spiaggia nei pressi della foce del fiume Mersey (Gormley specifica che sono state tratte da 17 differenti calchi del suo corpo, così che, di fatto, esse risultano frutto di 17 variazioni delle dimensioni della cassa toracica e della tensione muscolare dell’artista); esse, talune semiaffondate nella sabbia, comunque esposte alla forte variazione delle maree, non sono, paradossalmente, statiche, ma già il loro guardare l’orizzonte evoca un moto continuo dello sguardo, un’attesa ch’è un voler andare, un voler andare ch’è uno scrutare mentre l’arco del giorno e delle stagioni muta. Una statua in senso tradizionale celebra o ricorda qualcuno: queste figure di Gormley agiscono proprio nella loro apparente staticità e sono quanto di meno celebrativo si possa pensare.
La marea copre e scopre taluni corpi che sono, si diceva, calchi dal corpo stesso dell’artista posto a sentinella del mondo, ma non come depositario o dominatore del mondo, bensì come parte di esso e suo testimone; le alghe e i cirripedi (un’infraclasse di crostacei) formano, col tempo, mappe fantastiche su di essi, salsedine e pioggia, sole, vento, neve, sabbia agiscono sulle superfici alterandone la levigatezza iniziale.
Una folla guarda il mare e i suoi cicli, moai a noi contemporanei: la nudità dei corpi, simile forse alla nudità dei corpi sui vasi attici o della statuaria greca, riafferma la bellezza del corpo umano (e si può pensare anche al corpo adamitico nella Sistina), la sua posizione eretta è segno chiaro di un’evoluzione che ha portato l’umanità verso il pensiero e verso la contemplazione del mondo, non si tratta di titani che sfidano gli dei e la natura, né di rappresentazioni di un’umanità tracotante e dominatrice: al contrario, proprio al contrario queste forme esprimono un’attesa e un umile, ma consapevole e fiero, stare nel mondo. Non si dimentichi che Gormley ha disseminato delle sue figure umane erette anche New York (Event horizon, 2010), in un contesto quindi fortemente urbanizzato, come a voler ricordare che l’essere umano, anche tramite il proprio corpo e la propria corporea presenza, riafferma il suo Da-sein (essere-qui-e-adesso) esattamente nel cuore dell’epoca che l’ha fagocitato rendendolo lavoratore usa-e-getta e cliente consumatore; questi corpi nudi sono stati collocati in piazze, strade, sopra terrazze, al limitare dei tetti newyorkesi, rammentando a chi li osservava che la città, più che da edifici, è fatta da chi quegli edifici costruisce e poi li abita o vi lavora.
Il corpo umano è, in tutte le sue posizioni possibili e in tutte le possibili interazioni con lo spazio, motivo conduttore ininterrotto nella ricerca dell’artista britannico: fonte d’ispirazione anche l’uomo vitruviano di Leonardo, certamente, dal momento che i corpi di Gormley vengono inseriti sia in contesti urbani che naturali al fine di trovare e stabilire un rapporto non più alienato tra uomo e ambiente, ma armonico; l’artista riaffida al corpo umano il ruolo di “misura delle cose”. Infatti potrebbe essere una cattedrale abitata dai simulacri dei santi la spiaggia di Corby o un tempio colmo delle statue degli dei, ma nel senso che l’opera di Gormley sembra continuare una tradizione che, da strettamente religiosa, transita in una di laica religiosità, se mi è consentito scrivere così. Le impronte delle mani nella Grotta Chauvet, quelle delle piante dei piedi a Montaña Tindaya nelle Isole Canarie, il gesto di Van Gogh nel recidersi il lobo dell’orecchio, il corpo di Marina Abramović in molte sue performance si fanno pensare e, in qualche modo, si danno a vedere su questa vasta spiaggia dicendo di un baricentro non solo fisico, ma mentale e culturale: il corpo dell’essere umano porta tatuati su di sé e dentro di sé i millenni della sua presenza biologica, preistorica e storica, così che il suo essere rivolto al mare è guardare al luogo d’origine della vita stessa sul pianeta, è il suo rituale immergersi nell’acqua per un laico (ancora) battesimo nei ritmi del tempo naturale.
E da questa spiaggia aperta al Canale d’Irlanda sorge una poesia ritmata dall’incessante cambiamento delle condizioni della luce, delle maree e del tempo atmosferico, mentre l’orizzonte si dispiega innanzi a uno sguardo attento e colmo di aspettazione, dell’Erwartung che, etimologicamente connessa con il waiting inglese e con il guardare italiano, reca in sé appunto la radice lessicale e filosofica dell’osservare, del vigilare, dello stare desti, come di guardia a un orizzonte aperto e dai molti significati, dai molto numerosi avvenimenti.
Si può allora affermare che il mondo guarda sé stesso proprio traverso lo sguardo umano e prende coscienza di sé tramite la mente umana: disseminare lo spazio di simulacri del corpo umano significa celebrare il corpo stesso quale antenna sensibilissima – si pensi che un solo corpo è in grado di vedere, assaporare, udire, toccare, odorare e che tale percezione raggiunge la mente, complessissimo universo che sta, a sua volta, immerso dentro un universo che le si appalesa come mare, giorno e notte, vento, pioggia, sole, stagioni, tempo…
Gormley ha convocato sulla spiaggia una comunità di menti e di sguardi rivolti a un orizzonte incessantemente cangiante, antenne o alberi che scrutano e che si lasciano avvolgere, miti presenze, dagli accadimenti atmosferici.
Misterioso e semplice. Un’esaltazione della molteplicità che davvero non sarebbe dispiaciuta a Sébald.