Per un omaggio a Domenico Cara
L’utopia gioiosa
Edizioni Fin de siècle, 1995
L’utopia gioiosa di Domenico Cara si snoda come un dramma dell’occhio, come un avvicinamento al bordo pericoloso del mondo. Queste poesie lasciano che i ricordi, gli smarrimenti, il serpente annodato degli anni, trovino lo spazio di cui hanno bisogno, trovino il tempo di un’epoca – per certi aspetti – folgorante. Più che in altri libri, il dire continuo e la forte avventura della parola s’innestano nel gioco delle stagioni e della storia senza apparenti debolezze, senza accordare spiegazioni immediate. Un verso dopo l’altro, una pagina dopo l’altra, la sorpresa non viene meno e matura quasi sempre in un canto civile e variegato, viaggiante e non disperso nella vastità delle cose. Perdutamente umano dove non è umano il tempo geologico di cui siamo testimoni. Non grazie alla terra dobbiamo difenderci anche con la poesia, non senza scintille di una fede laica potremo giungere al domani. Ma già oggi l’eccesso di colori e di tremori (terremoti, deflagrazioni, tornadi) viene aggiunto al reale, confondendosi con la normalità che ci farebbe vivere: negli spazi stretti di una simile condizione, nella nostra età impura, si apre la ricerca non estenuata di Cara. Una nave che avanza dura come roccia, perché spacchi il ghiaccio, confermi la rotta, si trovi un giorno al di là dell’Antartide.
Le poesie dell’Utopia gioiosa non danno mai l’impressione di trovarsi a loro agio nella realtà che proprio esse rimandano, riflettendo luci e ombre senza venirne schiacciate o oltrepassate. Aggiungono una rivisitazione che ravviva anche coloro che se ne sono andati “con un assorto clamore e fiamme”. Aggiungono quel che andrebbe detto a proposito di realtà e stanchezza, di chiarore e volontà, se non fosse che, nonostante tutto, pochi poeti si rendono conto di quale funzione portano o dovrebbero portare. Dal vento solo alcuni si salvano, così come dalla superficie delle cose, perché penetrare sotto i ghiacci assomiglia troppo spesso ad affondare. In questo libro ci sono appunti che tentano di rendere visibile un mondo che vive sulla scarsità di nitore: ci sovrastano tali contraddizioni che le forze capaci di renderci più felici, capaci di isolare il germe della lacerazione, sono sempre più lontane. Tornano alla memoria certe parti della Città assediata di Herbert, e le pagine di Brodskij sulla Fuga da Bisanzio. Nell’uno e nell’altro caso vi si odono boati di guerra, rumori sordi di sofferenza. Oggi che niente di tutto questo è finito, e che la gente sembra addormentata nelle città, abbiamo bisogno di una poesia che renda luce a tutte le cose, senza mascherare la difficoltà, senza prendere il fiato di uno “Stato incivile” o utilizzarne la lingua. Cara ritrova, dopo molti libri di versi e di prose aforistiche, il contatto col visibile, l’associazione con le correnti infuocate che invadono l’aria.
L’attenzione da lui posta alle incrinature che sottostanno a una atmosfera carica di sobbalzi, portatrice di dolori ma anche di parole in grado di proteggere e di dare un primato, fiorisce dove il visibile diventa perfetto, perfetto indicatore di paesaggi e uomini, di voglie autentiche e crimini male indagati. Si tratta di un’attenzione che non inventa pretesti, che non distribuisce mondi filosofici, perché cambi in astrazione il sangue, e diventi ordinaria la fatica. Ogni pagina si sofferma in un punto del tempo, nella vastità che ben conosciamo, per coglierne umori ed eventi, parole e gesta di vincitori e vinti. Sole e nuvole convivono sulla stratificazione dei versi, sempre regolati da una voce inquieta, rapida nel tracciare, ma non per questo, frettolosa. In un siffatto mondo sembra che nemmeno più ci parli Marina Cvetaeva (il suo misterioso mutismo appare come un’ultima lezione), e che nessun Eliot potrà nascere di nuovo. Sappiamo invece quanto l’Europa abbia bisogno di voci, abbia bisogno di togliere dall’esilio certe figure capaci di rendere tutti più liberi.
Ma le difficoltà della poesia sono le difficoltà degli uomini, e se essi si nutrono di errori e di speranze, anch’essa è sufficientemente libera di sbagliare un verso, di attrarre quanto di respingere. Cara conosce l’incapacità di certi segnali di far muovere gli uomini, ma conosce anche il modo di rendere decisive le parole, indiscutibili gli attacchi. Il suo orizzonte diventa quello di tutti nel momento in cui la ricerca esce dalle nebbie, la posizione di certe figure conferma la grande difficoltà in cui ci confrontiamo. “… Prima e dopo la vita ha diritto di percorso…”, così la voce legittima il confine che si è raggiunto, con versi molto vicini alla forza della terra e, come questa, inferociti dal fuoco. Ma non basta il calore per redimere dagli errori, così come non sono bastate guerre e disastri. Il crepuscolo cantato da Cara contiene le muffe di una civiltà. Non ci saranno futuri fossili, forse anche l’arte si spegnerà. Resteranno i viaggi, gli stessi pensieri usurpati e alcune pagine sfuggite all’annientamento. In una futura fuga dall’Europa porteremo con noi una poesia come questa, una sicura volontà di capire ancora, oltrepassato Capo Horn.
Testi
CONTRADDIZIONI ESTERNE
dal melograno l’onda riappariva come in un viaggio
infelice: salti, tensioni, veloci estasi,
follia di vizi, un bacio senza consistenza
o agilità salina; eppure i suoi sogni
si spostavano come in fatui eldoradi
l’imperfetta susina nella grottesca oasi
del mio vicolo, il cui fascino arcano
(e viola), anche se insoddisfatto e acre,
aveva un suo colore, un orizzonte istantaneo
allora nel movimento… nel movimento vano
che l’onda vagheggiava, il Tempo, la cadenza
d’una diversità di apnee, gli zeli del nylon,
e i nodi di più possibili eccetera, erano
per esempio nella sagoma del pesce presunto o
fuorviato dai fantocci devoti e consumati
che lo tiravano sulla sabbia cieco, irritato,
lasciandolo ansimare al centro dell’aria
l’ultima storia, e non distante dagli oleandri,
e ancora non servito sotto il curvo pergolato
alla liquidità precipua delle lingue avide,
dei gusti corrosi, nel nome dialettale…
l’onda inseguiva le sue contraddizioni vitree
di danza sussurrata, e dalle creste l’offerta
diventava una fuga retrattile ed espansa
SENZA SUONO
adesso la maggiore ambizione è ritrovare
(a distanza di tutte le delusioni) tra i nuovi tic,
un anelito del coro, prendere il seme del buono
e del cattivo tempo, trovare per alfabeti a mucchi
(e in essi un brivido) il significato diverso
del sottrarsi agli altri traumi della mortalità
sotto forma di gufo, e non proprio su sarcofaghi,
o come a te manifestarsi nell’implacabile odore
la maggiore ambizione, con ciò che intanto
si scosta, intrecciando sostanziali
immobilità – da cui proviene tempestosa e atroce
l’antica esistenza divisa per parole – voci,
è un possesso di ordine, mai di consonanza
tra le fumate speciose ed ebbre, le creature
sospese o quasi schermate nello stesso avvincente
nascondiglio da cui chiamano i precipitati
ladroni o dalle piazze vuote gli imperfetti
da cui riemerge l’allegria dimessa e poco consona
di certe ombre secolari (e dai recinti), in un avvio della
loro intera pazienza, l’erosione bizzarra della
medesima acre civiltà, i segnali multipli
del fiume, tra memoria delle cose bagnate
e le interne disinvenzioni, indistinte o sparse
nella disarmonia degli spazi affannosi, dei crolli,
e rimessi a nuovo su secca geometria, muovendosi
come elementi di possibile universo, cose dell’orto
ed altra fabulazione o automatico varco della verità.
OBLIQUE IMMAGINAZIONI
capii che il turbamento ancora mi allontanava
dal riavvio nell’Oltre, rispetto al pregiudizio,
che mi riportava al di qua dell’ibrido archetipo
della malora, che mi faceva delibare l’occulto
elisire del buon torpore e la fluidità dimessa
da cui si riosserva ogni impedimento da mutazione
per feritoie; l’oblò delle minime epifanie e
insidie non spezzava però il deleterio, radicato
anacronismo, anzi era dentro la dimora delle serre
tra l’innocenza del sogno e ciò che è divelto
e si scioglie in quello che distingue le idee,
mentre prorompe da ciò che benedice, e racconta,
malgrado la libera serie di foruncoli, le vene
e la parte di pelle rimasta intatta o senza urti
FUOCHI DAL FONDO
fu informale ministro del contesto e nel margine,
nel più scontroso dei motivi del suo esilio;
adesso un suo intimo pretesto è riformare
l’inaspettato o produrre distese devianze
al vicinato, assimilare la formula della sferza
nella chiarezza cartesiana, e nel brivido
vincere ogni sussulto e – in tutte le varie
circostanze – riavviare altrimenti la posizione,
l’itinerario delle pause, certo su buona forma,
senza dimettersi dal trono delle recite
o sua centralità del precario, e rifugio gaio,
malgrado i primi addiacci e altre reliquie
poco fantasiose, pronte forse a dissolversi
in un loro sinistro incantesimo, o istanza
di ricucire spazi rinnegati, e voli sulla sabbia,
nel divenire che avvince (o sua scomparsa?)
celato dal vento; la sua immobilità è incapace
di fari mistero, resta con indubitabili fuochi.
IL DATO APERTO
La lettura regola la voce aperta, il cuore,
in qualsiasi lingua o sorriso e movente
e, in essa, non esistono primati spiccioli
o suggestioni viscerali di attori, vocalisti,
né connessioni fonetiche con le quali
non si esprime per niente la poesia!
Così non stupitevi di alcuna notizia,
né di quale mentalità essa progetti nei colti
rituali in pubblico, o spettacoli infelici
d’idiozia, addizioni di estasi, inlupiti
entusiasmi della mediocrità senza elmi,
che riempiono dei loro frantumi neo-gotici
l’audience massiccia e, in apparenza, gli ululati:
scelta di ispirati, le convergenze bestiali,
irriflesse, gli impeti, la storia, la droga,
la memoria, e la stessa intima zeta legnosa
Un’emozione si rabbercia dentro chi aggiunge
qualsiasi grido, attraverso la fissità di
un intervallo, un accapo; non è pulviscolo
poetico, non è perfetta sfida; l’oralità
cerca tuttavia gloria nella gerarchia
di immagini, e, forse, nel suo teschio, agglomera
grazie alla lugubre lingua, alla vis fallita
DRAPPELLO DELLE MUFFE
Nel rovescio di pregiudizi ritrovo
– dopo secoli – il despota ansioso
e crudele, che apprezza l’altra multiforme
potenza occulta, con antica rapidità,
come un’autodifesa estrema, in un
crepuscolo che cresce sulle fiamme
del ghiaccio subalpino e, direi, più
in là, ma senza arterie del grido, né bandiere,
né sufficienza particolare o avvilimento,
sul drappello delle muffe, in fondo opaco
comunque vada la recita, la parola è
un’utopia gioiosa, amica e nemica insieme,
ineguale ed ansimante come la notte
che muore sulle labbra, in tale fumo
INCUBO DEGLI ANFRATTI
Aria tersa, la scarsità si nasconde
dentro un gigantesco occhio, evita
di tingere come l’inchiostro i luoghi
della violenza o le cognizioni di fuoco
informe; abilmente lo sguardo reca oltre
i cerimoniali di rossa attualità, un paradosso,
una storia divelta nelle parole di rugiada
salivosa, il volo delle verdi foglie
il meriggio mai furtivo o inconcreto
sull’attiva avventura del sole dolcissimo,
a suo modo pedagogo termale, placido e folto,
tenta di catturare l’infinito, altri relitti,
quando sono ridotte le sue forze ebbre
ad un tramonto incompiuto sull’infelice
che riscopre l’incubo degli anfratti
in cui più solerti si fanno i nitriti,
(e occulte) le linee di reticenza aperta
d’un messaggio equino: genesi d’un galoppo
e termine progressivo della continuità
I LADRONI
trasalimenti franti, golfi, nodi, so che ormai
le parole non raggiungono nella marea tersa
alcun indice di ascolto, o altre fulve prede
il referente fraziona il movente furtivo,
ciò che agisce; rovesciano illese e benigne
sfere mitiche, all’occhio gli ossari, le lucenti
pistole, non l’ansia celeste della lungimiranza
che vince l’ignobile flagello o l’altro comma
delle consecutive perfidie, le occulte solerzie,
e ciò che ombreggia nella stanza del maleficio,
in qualche punto del deserto poco elegante,
dentro cui viaggia con insistenza (o esplode?)
un gran guru della Manciuria, senza fretta,
come pura apparenza, con un’irsuta palpebra
nel clima di primavera, nel suo graffio atroce
in cui si dispiegano la fiera che sbadiglia,
l’altra memoria del lusso e delle minacce
quella più innocente mano del freddo consenso
(o più sincera) guida i capi divaricati sulla
polvere, da quando, da tutti eravamo amati come
alfieri, e adesso il delizioso s’inventa prima
d’infrangersi attraverso le dissonanze di voli,
i furtivi giochi sul suolo della metropoli, con
nemici nascosti nel suo ibrido ed europeo caos,
odi, veti che sviano dall’essenziale ogni desiderio