Secondo la testimonianza di uno dei suoi più vecchi amici, l’antropologo Alfred Métraux, «i fatti e le teorie dell’etnologia hanno sempre esercitato su Georges Bataille una sorta di fascinazione»(1). E in effetti, fin dagli anni Venti del secolo scorso, lo scrittore e pensatore francese ha cominciato a familiarizzarsi con le opere di autori come Frazer, Durkheim e Mauss, da cui ha desunto vari elementi, per poi rielaborarli in maniera autonoma. Una di queste acquisizioni riguarda la natura ambivalente delle cose sacre. Durkheim aveva spiegato che «ci sono due specie di sacro, l’uno fasto e l’altro nefasto, e non soltanto tra le due forme opposte non c’è soluzione di continuità, ma uno stesso oggetto può passare dall’una all’altra senza cambiare natura. Col puro si fa l’impuro, e viceversa. È nella possibilità di queste trasmutazioni che consiste l’ambiguità del sacro»(2). La distinzione fra i due aspetti resta ben presente a Bataille, che scrive ad esempio: «Il sacro è anch’esso diviso: il sacro nero e nefasto si contrappone al sacro bianco e fasto»(3). Ma l’idea era stata sostenuta pure da Freud, che l’aveva associata a quella di tabù, «vocabolo polinesiano che ci è difficile tradurre perché non possediamo più il concetto che corrisponde a tale vocabolo. Il concetto era ancora familiare agli antichi romani: il termine latino sacer è l’esatto equivalente del “tabù” dei polinesiani. […] Da un lato vuol dire: santo, consacrato. Dall’altro lato: perturbante, pericoloso, proibito, impuro»(4).
Questa duplicità si manifesta ad esempio nello statuto particolare che viene assegnato da numerosi popoli al sovrano. «In un certo stadio della società, il re o sacerdote è considerato spesso come dotato di poteri soprannaturali o come l’incarnazione di una divinità, e per conseguenza si crede che il corso della natura sia più o meno sotto il suo dominio […]. La sua persona è considerata, per così dire, il centro dinamico dell’universo da cui s’irraggiano linee di forza a tutti i punti del cielo; cosicché ogni suo moto, il volgere del capo, l’alzare della mano, influenzano sull’istante e possono seriamente turbare qualche parte della natura»(5). Anche questa concezione è familiare a Bataille, il quale la esprime dicendo che «un re è la creatura del miracolo per eccellenza, concentra in sé le virtù di una presenza miracolosa. Grazie a un equilibrio dinamico, tali virtù possono contribuire al mantenimento dell’ordine e alla conservazione del possibile»(6). Tuttavia l’accumulo di potenza rende pericoloso il corpo stesso del sovrano. Bataille poteva leggere nel libro di un suo amico, il sociologo e saggista Roger Caillois, che «ogni re è dio, discende da un dio, o regna per grazia di un dio. È un personaggio sacro. Bisogna pertanto isolarlo, erigere tra lui e il profano delle paratie stagne. La sua persona racchiude una forza santa […]. Questa santità lo rende temibile. […] Il suo contatto fulminerebbe l’imprudente che lo toccasse. Chi per ignoranza o sbadataggine tocca con la mano ciò che è proprietà di un capo, deve subito disinfettarsi, liberarsi da un influsso troppo potente per lui»(7).
Questo obbliga il re a condurre un’esistenza a parte che, essendo regolata da obblighi e interdetti rigorosi, la rende del tutto diversa da quella dell’individuo comune(8). Sulla base di ciò, anche il sopraggiungere della sua morte costituisce un evento eccezionale, foriero di gravi conseguenze per l’intero popolo di cui egli è a capo. «Quando la vita della società e della natura appare compendiata nella sacra persona di un re, sarà l’ora della sua morte a determinare l’istante critico e a scatenare le licenze rituali. […] In nessun caso si può affermare che lo scatenamento delle passioni, a lungo trattenute, sfrutti la debolezza forzata del governo o l’assenza passeggera di autorità. Giacché alla frenesia popolare non viene mai opposta la minima resistenza: essa è considerata altrettanto necessaria quanto lo era l’obbedienza al defunto monarca»(9). Non c’è dunque consequenzialità diretta, ma piuttosto analogia, tra le drastiche crisi di potere e i fenomeni legati al lutto per la perdita del sovrano. È quanto osserva, parlando più in generale, Giorgio Agamben: «Come, nei periodi di anomia e di crisi, si assiste a un collasso delle normali strutture […] e a un dissesto dei ruoli e delle funzioni sociali che può spingersi fino alla completa inversione dei costumi e dei comportamenti culturalmente condizionati, allo stesso modo i periodi di lutto sono di solito caratterizzati da una sospensione e un’alterazione di tutti i rapporti sociali»(10).
Di questo brusco rovesciarsi delle norme vigenti nel tempo ordinario, Caillois fornisce vari esempi, come il seguente: «Nelle isole Sandwich la folla, apprendendo la morte del re, commette tutti gli atti giudicati criminali nel tempo ordinario: incendia, saccheggia e uccide, mentre le donne sono tenute a prostituirsi pubblicamente»(11). Oltre a citare tale frase, Bataille la commenta dicendo che «la morte di un re è suscettibile di provocare gli effetti di orrore e di scatenamento più marcati. Il carattere del sovrano vuole che quel sentimento di disfatta, di abbassamento, che sempre è suscitato dalla morte, raggiunga un grado tale che nulla, a quanto sembra, potrà più valere contro i furori dell’animalità»(12). A suo giudizio, infatti, in casi del genere la sensazione di una perdita subita può benissimo accompagnarsi a una crescita di energia, che si manifesta in maniera irrefrenabile: «In certe isole dell’Oceania, la morte del re provocava in tutto un popolo uno scatenamento nel corso del quale le regole su cui di solito si reggeva il possibile venivano sovvertite, e gli uomini più giovani si mettevano improvvisamente a uccidere e a stuprare a loro piacimento. Quando colpiva il re, la morte colpiva tutta la popolazione nel punto sensibile, e da quel momento la pressione latente si esercitava nel senso di una dissipazione disordinata, di un’immensa festa sotto il segno della disgrazia»(13).
Come si vede, è in causa uno stato d’animo complesso, basato su impulsi contraddittori. Lo aveva del resto già osservato Freud: «A questo lutto fanno seguito le dimostrazioni più clamorose di gioiosa festevolezza: viene data via libera allo scatenarsi di pulsioni di ogni genere e ci si permette ogni sorta di soddisfazioni. […] La festa è un eccesso permesso, anzi offerto, l’infrazione solenne di un divieto. Gli uomini si abbandonano agli eccessi non perché siano felici per un qualche comando che hanno ricevuto. Piuttosto, l’eccesso è nella natura stessa di ogni festa; l’umore festoso è provocato dalla libertà di fare ciò che altrimenti è proibito»(14). Ma tale duplicità emotiva corrisponde bene alla figura del re morto, nella quale si trovano a coesistere valori simbolici che, se non fosse in causa la già ricordata ambiguità del sacro, resterebbero incompatibili fra loro: «Il sovrano e il cadavere […] incarnano infatti al massimo grado le forze ostili del puro e dell’impuro»(15).
Uno dei temi più ricorrenti, attraverso i decenni, nell’opera di Bataille è quello del sacrificio. Esso gli appare come un fenomeno di grande portata antropologica e storica, anche perché, ai suoi occhi, è costitutivo della stessa nozione di sacro. Scrive infatti in un saggio assai noto, La notion de dépense: «I culti esigono uno spreco sanguinoso di uomini e animali da sacrificio. Il sacrificio non è altro, nel senso etimologico della parola, che la produzione di cose sacre. Fin dall’inizio, appare come le cose sacre siano costituite da un’operazione di perdita»(16). Asserendo ciò, egli riprende un’idea già espressa da Hubert e Mauss, quella secondo cui l’atto sacrificale «consiste nello stabilire una comunicazione tra il mondo sacro e il mondo profano tramite l’intermediario costituito da una vittima, cioè di una cosa che viene distrutta nel corso della cerimonia»(17).
A suo avviso, però, l’azione di mettere ritualmente a morte un essere vivente comporta, per il sacrificatore, una destabilizzazione psicologica che lo induce a confondersi con la vittima. Ciò vale già nel caso, assai comune, in cui ad essere ucciso sia un animale: «Nel sacrificio, il sacrificante si identifica con l’animale colpito a morte. Così muore vedendosi morire, e anzi, in qualche modo, di sua propria volontà»(18). Naturalmente l’effetto risulta potenziato se a finire sotto il coltello del sacrificatore è una persona. In questo caso l’evento appare a Bataille come dotato di grande importanza, anzi tale da segnare addirittura il passaggio dalla sfera dell’animalità a quella propriamente umana. Egli sostiene infatti: «Il soggetto è dapprima animale la cui coscienza non discrimina nulla. Poi animale cosciente di essere un vivente tra gli altri (piante, animali). Poi uomo cosciente di essere uomo. Egli diventa uomo cosciente di essere uomo nel sacrificio umano […]. Ciò che distingue l’uomo dagli animali è forse la comunicazione, che probabilmente è l’effetto del sacrificio»(19). La comunicazione che in tal modo si instaura è profonda, e consiste essenzialmente in una presa di coscienza da parte del sacrificatore: «Nell’atto del sacrificio un atto viene contemplato, riflesso, ripercosso: il soggetto che agisce sull’oggetto, l’uno e l’altro vengono meno, l’oggetto sprofonda nella morte e il soggetto nella contemplazione angosciata di un atto»(20). Dunque chi compie il sacrificio non rimane estraneo alla sorte della persona immolata, ma ne diventa partecipe. Certo, per lui come per coloro che assistono al rito, la perdita resta puramente simbolica. Infatti, quand’anche essi sperimentino davvero delle pulsioni di morte, le deviano però su un oggetto esterno: «Il sacrificante o lo spettatore, nella loro angoscia, avvertono la morte come inevitabile, come l’esigenza inesorabile del mondo superiore, e nel contempo come desiderabile. Ma la loro angoscia si forma precisamente con il desiderio, il desiderio aumenta l’angoscia. Il desiderio vuole che la morte si compia, ma che sia dirottata su altri»(21).
Nella maggior parte dei casi la vittima prescelta è un prigioniero di guerra o, più genericamente, uno schiavo. Secondo Bataille, ciò si spiega non perché la vittima sia ritenuta una persona di minor valore, ma proprio all’opposto perché la si considera utile: «I sacrifici di schiavi illustrano il principio secondo il quale ciò che serve è votato al sacrificio. Il sacrificio consegna lo schiavo, la cui servitù accentua l’avvilimento dell’ordine umano, alla nefasta intimità dello scatenamento. In generale, il sacrificio umano è il momento acuto di un contrasto che oppone all’ordine reale e alla durata il movimento di una violenza smisurata. È la più radicale contestazione del primato dell’utilità. […] Colui che scatena all’esterno le sue forze di distruzione non può essere avaro delle sue risorse. Se egli riduce il nemico in schiavitù, gli occorre, in modo spettacolare, fare di questa nuova fonte di ricchezza un uso glorioso»(22). Ma anche il fatto che il servo sia in molti casi un nemico catturato, dunque estraneo al popolo che lo sceglie come vittima, non deve trarre in inganno, perché cela in sé qualcosa di più complesso: «Il sacrificio di uno schiavo è ben lungi dall’essere puro. Prolunga in un certo senso il combattimento guerriero, e la violenza interna, essenza del sacrificio, non è soddisfatta in lui. Il consumo intenso esige al suo culmine vittime che non siano più solamente la ricchezza utile di un popolo, ma questo stesso popolo. O almeno quegli elementi che lo significhino e che stavolta verranno votati al sacrificio non tramite un allontanamento dal mondo sacro […] ma, al contrario, tramite un’eccezionale vicinanza ad esso, come il sovrano […]. Numerosi segni indicano che queste esigenze crudeli erano mal tollerate. Si sostituiva con l’inganno al re lo schiavo, al quale veniva conferita una dignità regale temporanea»(23).
Esiste dunque continuità, e non solo salto qualitativo, fra la messa a morte di un uomo di condizione servile e quella di un sovrano. Scrive Bataille: «Logicamente, a partire dallo scatenamento della violenza interna contro lo schiavo, tale violenza interna si scatena necessariamente contro l’uomo stesso della tribù, e non contro un qualsiasi appartenente alla tribù, ma contro colui che la incarna al massimo grado, ossia il sovrano»(24). Il dominio assoluto esercitato sullo schiavo semplificava le cose, perché equivaleva a includerlo «nel novero degli oggetti che di tanto in tanto bisognava sacrificare. Capitò d’altronde che gli uomini soffrissero dell’assenza di comunicazione risultante dall’esistenza separata di un re. Dovevano mettere a morte non lo schiavo ma il re, per assicurare il ritorno alla comunione di tutto il popolo. Dovette così sembrare che, tra gli uomini, non si potesse scegliere nessuno che, più del re, fosse degno del coltello»(25).
Ma perché proprio il sovrano dovrebbe essere la vittima ideale del sacrificio? Alla domanda, Bataille risponde con chiarezza: «Il sovrano è colui che è, come se la morte non ci fosse. È addirittura colui che non muore, giacché muore solo per rinascere. Non è l’individuo che, nell’identità con se stesso, è una cosa distinta. Non è un uomo nel senso strettamente individuale della parola, ma un dio […]. Ignora in egual misura i limiti dell’identità e quelli della morte, o meglio questi limiti sono gli stessi, egli è la trasgressione degli uni e degli altri. […] La messa a morte del re è la più grande affermazione della sovranità: il re non può morire, la morte non è niente per lui, è ciò che la sua presenza nega, annienta fin nella morte»(26). Si potrebbe pensare che, vista la natura eccezionale attribuita alla persona del sovrano, assimilarsi psicologicamente a lui in quanto vittima risulti più difficile rispetto a ciò che accadeva quando era in causa un semplice schiavo. Ma questo equivarrebbe a trascurare il bisogno che i sudditi hanno di veder realizzati i propri sogni di grandezza, perlomeno al di fuori di sé: «Gli uomini devono sempre rinunciare, nel loro insieme, alla sovranità personale, ma […] se rinunciano a profitto di un sovrano, possono identificarsi con lui e, trasponendo su di lui la sovranità sacrificata, trovano nel contemplarla nella sua persona quel rapimento religioso che costituisce il loro scopo»(27). Come abbiamo detto, il prestigio del sovrano non diminuisce, anzi aumenta, nel momento in cui egli viene sacrificato; dunque in ugual misura si accresce la fascinazione che lo spettatore prova nei suoi confronti: «Solo nella morte, insomma, che egli riceveva dai suoi (ma, almeno in teoria, spontaneamente), la persona regale acquistò agli occhi di tutti quel fascino incondizionato che oppone il fine sovrano al mezzo servile», cosa che spiega perché «il rito della “messa a morte del re” […] fosse un tempo assai diffuso»(28).
Questo però non significa che il bisogno umano di perdere, e di perdersi, raggiunga il massimo nell’uccisione del sovrano. Essa infatti, a ben vedere, suggerisce al di là di sé ancora un grado ulteriore. Come nota Freud, «il cerimoniale dei sacrifici umani nei luoghi più diversi della terra abitata lascia sussistere pochi dubbi sul fatto che questi uomini venivano fatti morire poiché rappresentavano la divinità»(29). Abbiamo già ricordato il carattere sovrumano che molti popoli attribuivano alla figura del re, ma gli antropologi si sono spinti oltre, parlando di una vera e propria uccisione della divinità. Secondo loro, infatti, il «valore singolare della vittima appare con chiarezza in una delle forme più compiute dell’evoluzione storica del sistema sacrificale: è il sacrificio del dio. In effetti, è nel sacrificio di una persona divina che la nozione del sacrificio arriva alla sua più alta espressione. Perciò è sotto questa forma che è penetrato nelle religioni più recenti e ha fatto nascere credenze e pratiche che vivono ancora»(30).
Bataille è del tutto d’accordo con questa gradazione crescente, che va dall’animale all’uomo e dall’uomo al dio: «In linea di principio, il sacrificio richiede vittime umane, meglio ancora se re o dèi. Spesso gli animali sono vittime sostitutive […]. Ma quando un mito sacrificale ha assunto un significato umano eccezionale, va da sé che si trattava di un uomo, e non soltanto uomo, ma nel contempo re e Dio»(31). Ad esempio, egli pensa che «il successo del cristianesimo deve essere spiegato attraverso il valore del tema della crocifissione infamante del figlio di Dio, che porta l’angoscia umana a una rappresentazione della perdita e del decadimento senza limiti»(32). Qui l’ambivalenza del sacro – nel contempo fasto e nefasto, puro e impuro – diviene pienamente percepibile: «La morte del dio si produce non come l’alterazione metafisica (che verte sulla misura comune dell’essere), ma come l’assorbimento di una vita avida di gioia imperativa nella pesante animalità della morte. […] L’uomo-dio appare e muore nel contempo come putredine e come redenzione della persona suprema»(33). Inoltre, se sovente nell’uccisione rituale «il sacrificatore indugia sulla vittima, la esibisce, la glorifica, poi la mangia per inebriarsene», persino quest’ultimo elemento si ritrova nel cristianesimo, sia pure in forma figurata: «Ancora oggi nelle città più civilizzate si celebrano sacrifici. Quanto meno sacrifici simbolici. Si mette a morte un Dio umano, si mangia la sua carne, si beve il suo sangue»(34).
Com’è ovvio, l’eucaristia dei cristiani conserva solo un pallido ricordo delle cruente cerimonie un tempo praticate. Infatti, «il sacrificio ha una storia, e i suoi mutamenti segnano la traccia di questo mantenimento al livello di una tolleranza alla lunga più difficile. L’orrore per l’immolazione di altri uomini è cresciuto con il tempo. […] La vista di un olocausto umano finì col diventare intollerabile. […] Gli uomini cercavano atteggiamenti religiosi meno inquietanti. Nel vedere scorrere il sangue, alcuni di loro provavano ormai solo nausea»(35). Mentre agli occhi dei più quest’attitudine appare come un segno del processo di incivilimento, Bataille la valuta in una maniera diversa, che ha il difetto di essere, a dir poco, opinabile. Egli infatti deplora l’abbandono dei sacrifici umani e considera i popoli che li praticavano più avveduti rispetto agli uomini moderni. Così, ad esempio, «il popolo azteco vedeva ciò che i “civilizzati” potrebbero vedere ma vedono solo di rado: l’unità del sacrificio e della luce, l’equivalenza degli inebrianti doni di sé e di glorie non meno inebrianti»(36). Nelle opere in cui Bataille formula le sue teorie riguardo all’«economia generale» (ossia essenzialmente La part maudite e La limite de l’utile), gli Aztechi vengono presentati come un popolo-modello, non solo in quanto conferiscono un’enorme importanza ai sacrifici umani, ma anche perché, presso di loro, «il sovrano disponeva di grandi ricchezze che doveva spendere ad majorem gloriam populi sui per le arti, le feste e le guerre. Doveva prodigarle in elargizioni – e anche perderle al gioco. In tutte le epoche, a tutte le latitudini la generosità regale è esigenza popolare, è la chiave senza cui il senso dell’attività sociale sfuggirebbe»(37).
Certo, l’autore è costretto ad ammettere con rammarico che i giorni gloriosi degli Aztechi sono ormai lontani. Dopo la caduta del Messico nelle mani dei conquistadores, «la vita abbandonò la grande civiltà azteca: da allora le piramidi sacrificali rimasero deserte e furono invase dall’erba»(38). L’uomo di oggi, com’è noto, privilegia l’utile e condanna gli sprechi, e allo stesso titolo prova orrore per la crudele pratica dei sacrifici umani. Bataille si rende conto che difenderla apparirà, agli occhi dei suoi contemporanei, ingiusto e paradossale, ma non può esimersi dal farlo. È questa, infatti, la sua specifica maniera di pensare: «Io do dell’uomo un’immagine inumana, e so di rendere l’aria poco respirabile. Ho legittimato i più oscuri Moloch quando ho detto che le fantasie cruente del sacrificio avevano un senso. Anche se attraverso i tempi la mia voce si accorda a quella di innumerevoli cori, anche se è l’eco di feste divine, sono certo che la mia parola appare ostile. Ma indubbiamente nessuno dirà che desidero aprire nuovi cicli di olocausti: mi limito a dare il senso di antichi costumi. Le crudeltà del passato rispondono a bisogni che noi possiamo soddisfare in modo diverso dai selvaggi. Affermo però che la vita richiede il dono di sé, e che il dono conduce all’angoscia mortale. Io appartengo a coloro che destinano gli uomini a qualcosa di diverso dall’incessante aumento della produzione, che li incitano all’orrore sacro»(39). Infatti, sempre secondo la sua particolare logica, il sacrificio antico aveva il merito non di dissolvere le ansie individuali e collettive scaricandole su una vittima espiatoria, bensì all’opposto di conservarle: «Invece di togliere l’angoscia, il sacrificio l’appesantisce, vi si sofferma, la vittima non è gettata in un mondo non serio, ma in un mondo divino, senza dubbio in un aldilà, ma superiore all’uomo, non più inferiore a lui; in queste condizioni è prescritta l’angoscia, non la sua rimozione»(40). E forse ciò che del discorso di Bataille si può condividere è proprio (o soltanto) questo, ossia l’idea che l’uomo, nel passato storico come nel presente, ha dovuto e deve escogitare dei modi, più o meno efficaci, per convivere con la propria angoscia, mai del tutto evitabile.
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Note
[1] A. Metraux, Rencontre avec les ethnologues, in «Critique», 195-196, 1963, p. 677.
[2] Émile Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912), Paris, Presses Universitaires de France, 1960; 2017, p. 588.
[3] G. Bataille, Théorie de la religion (opera del 1948, edita postuma nel 1973), in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1970-1988 (d’ora in poi abbreviato in Œ. C.), vol. VII, p. 326 (tr. it. Teoria della religione, Milano, SE, 1995, p. 68; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
[4] Sigmund Freud, Totem e tabù (1913), in Opere, vol. 7, tr. it. Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 27.
[5] James George Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione (1890; edizione ridotta dall’autore 1922), tr. it. Torino, Bollati Boringhieri, 2012, p. 206.
[6] La souveraineté (opera incompiuta del 1953-54, edita postuma nel 1976), in Œ. C., vol. VIII, p. 261 (tr. it. La sovranità, Milano, SE, 2009, p. 26).
[7] R. Caillois, L’homme et le sacré (1939; nuova edizione ampliata 1950), Paris, Gallimard, 1988, pp. 119-120 (tr. it. L’uomo e il sacro, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, pp. 83-84). Nella premessa al volume, l’autore ringrazia Bataille e nota che, sulla questione del sacro, le loro opinioni convergono: «Mi sembra che su questo problema si sia stabilita tra noi una specie di osmosi intellettuale, che per quanto mi concerne, dopo tante discussioni, non mi consente di distinguere con sicurezza la sua parte dalla mia» (ibid., p. 19; tr. it., p. 11). Bataille, a sua volta, ha riconosciuto che «L’homme et le sacré è un libro non solo magistrale ma essenziale per la comprensione di tutti i problemi di cui il sacro è la chiave» (La souveraineté, cit., p. 251; tr. it. p. 16).
[8] Un’ampia serie di esempi viene esposta nei citati libri di Frazer e Freud.
[9] R. Caillois, op. cit., pp. 152-153 (tr. it. p. 107).
[10] G. Agamben, Iustitium. Stato di eccezione, in Homo sacer, Macerata, Quodlibet, 2018, p. 229.
[11] R. Caillois, op. cit., p. 153 (tr. it. p. 107).
[12] L’histoire de l’érotisme (opera incompiuta del 1950-51, edita postuma nel 1976), in Œ. C., vol. VIII, p. 77 (tr. it. Storia dell’erotismo, Roma, Fazi, 2006, p. 71).
[13] La souveraineté, cit., p. 261 (tr. it. p. 26).
[14] S. Freud, op. cit., p. 144.
[15] R. Caillois, op. cit., p. 66 (tr. it. p. 44).
[16] La notion de dépense (1933), in Œ. C., vol. I, p. 306 (tr. it. La nozione di «dépense», in La parte maledetta, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 7).
[17] Henri Hubert – Marcel Mauss, Essai sur la nature et la fonction du sacrifice (1899), Paris, Presses Universitaires de France, 2016, p. 169.
[18] Hegel, la mort et le sacrifice (1955), in Œ. C., vol. XII, p. 336 (tr. it. Hegel, la morte e il sacrificio, in Piccole ricapitolazioni comiche. Scritti su Hegel 1929-1956, Torino, Aragno, 2015, pp. 169-170).
[19] La limite de l’utile (opera incompiuta, scritta tra il 1939 e il 1945, pubblicata postuma nel 1976), in Œ. C., vol. VII, p. 552 (tr. it. Il limite dell’utile, Milano, Adelphi, 2000, pp. 199-200).
[20] Ibidem (tr. it. p. 200).
[21] La limite de l’utile, cit., p. 518 (tr. it. p. 234).
[22] Théorie de la religion, cit., p. 317 (tr. it. p. 54).
[23] Ibid., p. 318 (tr. it. p. 55). Sul trattamento principesco riservato dagli Aztechi al prigioniero di guerra destinato all’immolazione, cfr. La part maudite (1949), in Œ. C., vol. VII, pp. 55-56 (tr. it. La parte maledetta, cit., pp. 60-62).
[24] Schéma d’une histoire des religions (1948), in Œ. C., vol. VII, p. 413 (tr. it. Schema di una storia delle religioni, in Sulla religione. Tre conferenze e altri scritti, tr. it. Napoli, Cronopio, 2007, p. 66).
[25] L’expérience intérieure (1943; nuova edizione ampliata 1954), in Œ. C., vol. V, pp. 153-154 (tr. it. L’esperienza interiore, Bari, Dedalo, 1978, pp. 206-207).
[26] La souveraineté, cit., p. 270 (tr. it. p. 34).
[27] Ibid., pp. 361-362 (tr. it. p. 119).
[28] Ibid., p. 358 (tr. it. p. 116).
[29] S. Freud, op. cit., p. 154.
[30] H. Hubert – M. Mauss, op. cit., p. 147. Questo tema è ampiamente trattato nell’opera di Frazer.
[31] La limite de l’utile, cit., pp. 255-256 (tr. it. pp. 123-124).
[32] La notion de dépense, cit., p. 306 (tr. it. p. 7).
[33] Sacrifices (1936), in Œ. C., vol. I, p. 92.
[34] La limite de l’utile, cit., p. 255 (tr. it. pp. 122-123).
[35] Ibid., p. 280 (tr. it. pp. 157-158).
[36] Ibid., p. 192 (tr. it. p. 27).
[37] Ibid., pp. 198-199 (tr. it. p. 41).
[38] Ibid., p. 208 (tr. it. p. 58).
[39] Ibid., p. 263 (tr. it. p. 133).
[40] Ibid., p. 518 (tr. it. p. 234).
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